Per essere considerati validi dal giudice, i risultati dell’attività investigativa devono essere coerenti e credibili, elementi che possono desumersi anche dalle modalità di sorveglianza e dal rispetto o meno dei disciplinari della professione.
Nota a Trib. Bologna 17 marzo 2020, n. 167
Gennaro Ilias Vigliotti
In caso di sospetto ricorso abusivo ai permessi previsti dalla L. n. 104/1992 per assistere un parente o un congiunto affetto da disabilità grave, il datore di lavoro può ricorrere alla collaborazione di investigatori privati per sorvegliare l’attività svolta dal lavoratore nei giorni di astensione dal lavoro per ragioni di assistenza. Qualora ricorra a tale soluzione, però, affinché i risultati dell’attività investigativa possano essere validamente utilizzati per contestare l’illegittimo ricorso ai permessi e, dunque, per condurre una procedura disciplinare che giunga anche al licenziamento del dipendente colpevole, è necessario che l’investigatore abbia condotto le indagini in maniera da rispettare i disciplinari che regolano tale attività.
In particolare, le norme comportamentali che si applicano alle investigazioni private prevedono turni di sorveglianza di poche ore e sempre in coppia, con ripetuti cambi di guardia e con la costante presenza di supporto. Ciò, per evitare l’abbassamento delle soglie di attenzione e per ostacolare i meccanismi di adattamento logico-deduttivo che la mente di un osservatore fisso è solita operare.
I princìpi appena espressi sono stati di recente applicati da una interessante sentenza di merito del Tribunale di Bologna, Sezione Lavoro, pronunciata il 17 marzo 2020, n. 167. Una lavoratrice addetta alle vendite in una Cooperativa del comune emiliano era stata pedinata dagli investigatori privati ingaggiati dal datore di lavoro durante tre distinte giornate in cui aveva fatto ricorso ai permessi previsti dalla L. n. 104/1992 per assistere la cognata. Secondo i report degli addetti alla sorveglianza, la donna era uscita di casa solo per compiere commissioni personali, senza mai recarsi a casa del soggetto destinatario delle cure. Per tale motivo, la Cooperativa aveva avviato una procedura disciplinare che aveva condotto al licenziamento per giusta causa della lavoratrice per abusivo ricorso ai permessi ex L. n. 104/1992.
La lavoratrice aveva inoltrato ricorso ex art. 1, L. n. 92/2012 al Tribunale di Bologna, il quale aveva annullato il licenziamento e disposto la reintegra con indennità risarcitoria fino ad un massimo di 12 mesi poiché, dalle risultante istruttorie, era emerso che gli investigatori avevano commesso dei gravi errori di controllo, omettendo di rilevare la presenza, sia presso l’abitazione della lavoratrice che presso quella della cognata, di accessi secondari, non visibili dal loro punto di osservazione, e utilizzati solitamente dalla dipendente per accedere all’appartamento della persona assistita. Inoltre, era stato rilevato dal giudice della fase sommaria che alcuni spostamenti attribuiti alla ricorrente, come ad esempio i presunti movimenti in auto durante la giornata, erano in realtà stati compiuti dal marito. Gli investigatori erano dunque caduti in numerose sviste, giunte fino alla totale confusione di persona.
La Cooperativa aveva impugnato l’ordinanza del giudice della prima fase, aprendo così il contenzioso di opposizione. La tesi del datore di lavoro era quella dell’insufficiente e contraddittoria motivazione del giudice di prime cure, nella parte in cui aveva sottovalutato i numerosi spostamenti della lavoratrice effettivamente confermati nelle risultanze istruttorie, a riprova della piena attendibilità dei report degli investigatori.
Il Tribunale di Bologna, però, in diversa composizione nella fase di opposizione, ha confermato l’ordinanza della fase sommaria. In particolare, il giudice d’opposizione ha rilevato come i metodi seguiti dagli operatori di investigazione avevano reso i risultati delle indagini del tutto inattendibili, non avendo questi seguito le regole basilari contenute nei disciplinari comunemente in uso per lo svolgimento di tale delicata attività. Chi aveva sorvegliato la lavoratrice nei giorni di permesso, infatti, lo aveva fatto per turni singoli di durata anche superiore alle 12 ore, senza alcun cambio e senza nemmeno supporto materiale di un collega. In tal modo, l’agenzia aveva alzato in maniera esponenziale il rischio di errori di controllo e di refusi dovuti ai meccanismi celebrali di completamento logico-deduttivo. Cosa che poi, secondo il Tribunale, sarebbe effettivamente avvenuta, come confermato dalle numerose prove smentite in maniera attendibile dalle risultanze testimoniali (doppio ingresso nelle abitazioni del tutto ignorato dagli operatori dell’agenzia; operazioni di spostamento in auto non compiuti in realtà dalla lavoratrice; orari di accesso ed uscita dai locali non corretti etc.)
La presenza di report investigativi, dunque, non basta ad essere sicuri circa l’abuso di permessi da parte del lavoratore. È necessario che il processo di investigazione abbia seguito regole tali da attribuire a quei risultati la sufficiente saldezza, la credibilità e l’attendibilità che sole legittimano l’apertura di un fascicolo disciplinare a carico del lavoratore responsabile sulla base di tali prove.