Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 giugno 2020, n. 11540

Appalto, Direttore dei lavori, Contestazione disciplinare,
Condotte illegittime, Proporzionalità della sanzione espulsiva

 

Fatti di causa

 

Con sentenza n. 1676 del 27.4.2018 la Corte d’appello
di Roma, confermando la statuizione del giudice di primo grado, ha respinto il
ricorso proposto da N.T. inteso ad ottenere la dichiarazione dell’illegittimità
del licenziamento intimato con lettera del 29.4.2015 da I. Italia s.p.a. per
avere – in qualità di direttore dei lavori della suddetta società incaricata,
quale stazione appaltante, delle gare di appalto bandite nell’ambito del primo
intervento attuativo del Piano nazionale banda larga – posto in essere condotte
illegittime quali la falsa attestazione nei libretti di misura e negli stati di
avanzamento dei lavori sia dell’esecuzione di opere mai realizzate sia
dell’esecuzione di opere realizzate in misura inferiore rispetto a quelle
effettivamente contabilizzate, con conseguente formazione di contabilizzazioni
non veritiere nonché per avere costretto i titolari di alcune imprese
subappaltatrici ad eseguire lavori edili di ristrutturazione, a titolo gratuito
o con compensi irrisori, presso un suo immobile, nonché a versare cospicue
somme in denaro e ad assumere il figlio per alcuni mesi all’anno e per ingenti
compensi.

La Corte territoriale ha ritenuto di escludere, a
seguito di ampia disamina della lettera di contestazione disciplinare e della
comunicazione di licenziamento, qualsiasi violazione del principio di
immutabilità della contestazione e del diritto di difesa, sottolineando che i
fatti contestati e sanzionati erano i medesimi e che l’eventuale ravvisata
qualificazione in termini di colpa (anziché di dolo) dell’elemento soggettivo
non modificava l’addebito disciplinare; la Corte ha aggiunto che non mutava la
ricostruzione degli eventi la circostanza che i lavori fossero stati affidati
“a corpo” piuttosto che “a misura”, che il lavoratore non
aveva avanzato alcuna richiesta di esibizione di documentazione o di incarico
ad un consulente d’ufficio al fine di verificare la correttezza delle
contabilizzazioni dei lavori non eseguiti come accertato in sede di indagini
preliminari dal pubblico ministero (nell’ambito del processo penale pendente), che,
infine, la condotta posta in essere non era contemplata dal c.c.n.I. applicato
in azienda tra quelle punibili con sanzione conservativa e poteva, dunque,
legittimamente applicarsi la sanzione del licenziamento in considerazione della
gravità dell’addebito e in coerenza con i comportamenti elencati dalle parti
sociali “a titolo indicativo” nell’ambito della sanzione espulsiva.

Il T. ha proposto ricorso per cassazione avverso
tale sentenza affidato a cinque motivi, al loro interno ulteriormente articolati.
La società ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

 

Motivi della decisione

 

1. – Con il primo motivo si lamenta violazione e
falsa applicazione degli artt.
7 della legge n. 300 del 1970, 24 Cost., 5 della legge n. 604 del 1966,
2697 e 2909
cod.civ. nonché omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia
(ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod.proc.civ.)
avendo, la Corte, illegittimamente modificato il titolo di recesso in ordine
all’elemento soggettivo del fatto imputato al lavoratore (da doloso a colposo)
ed avendo trascurato la formazione di giudicato interno maturata, su tale
profilo, nella ordinanza emessa in sede sommaria (non impugnata sul punto in
sede di opposizione).

2. – Con il secondo motivo si lamenta violazione e falsa
applicazione degli artt. 5
della legge n. 604 del 1966, 2697 cod.civ.,
61, 115 e 116 cod.proc.civ., 53 del d.lgs. n. 163 del 2006
nonché vizio di motivazione (ex 360, primo comma,
nn. 3 e 5, cod.proc.civ.) avendo, la Corte, fondato la prova della
sussistenza dell’addebito disciplinare imputato al T. unicamente su una
consulenza di parte (del pubblico ministero) resa nell’ambito del procedimento
penale nonostante l’espressa contestazione svolta dal lavoratore e in assenza
di qualsivoglia ulteriore elemento probatorio, sulla base di una erronea
interpretazione degli strumenti del contratto di appalto (appalti “a
corpo” e non “a misura”).

3. – Con il terzo motivo si lamenta violazione e
falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. cod.civ.
in relazione al codice disciplinare contenuto nel c.c.n.I. Quadri e Impiegati
delle aziende del gruppo Invitalia (ex art. 360,
primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte, erroneamente interpretato
l’art. 77 del c.c.n.I. citato nonché la graduazione del disvalore delle diverse
fattispecie ivi prevista, potendosi accostare la fattispecie addebitata al T.
ad ipotesi punite con sanzione conservativa.

4. – Con il quarto motivo si lamenta vizio di motivazione
(ex art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ.)
avendo, la Corte, erroneamente ritenuto proporzionata la sanzione espulsiva
adottata nei confronti del T., omettendo di valutare gli elementi specifici
addotti per ridimensionare il rilievo della vicenda.

5. – Con il quinto motivo si lamenta vizio di
motivazione (ex art. 360, primo comma, n. 5,
cod.proc.civ.) avendo, la Corte, trascurato le specifiche censure in ordine
alla tardività della contestazione disciplinare rispetto all’epoca di effettiva
conoscenza dei fatti posti in essere dal lavoratore.

6. Nonostante accenno nelle conclusioni della
memoria ex art. 378 cod.proc.civ., va rilevato
che il controricorso non contiene alcun ricorso incidentale.

7. Il primo motivo di ricorso è infondato.

7.1. Va premesso che l’opposizione proposta ex art. 1, comma 51, legge n. 92 del
2012 non ha natura impugnatoria, ma produce la riespansione del giudizio,
chiamando il giudice di primo grado ad esaminare l’oggetto dell’originaria
impugnativa di licenziamento nella pienezza della cognizione integrale, con
conseguente inapplicabilità dei principi ordinamentali che regolano la
formazione del giudicato interno. Invero, secondo orientamento ormai
consolidato, nel rito cd. Fornero, il giudizio di primo grado è unico a
composizione bifasica, con una prima fase ad istruttoria sommaria, diretta ad
assicurare una più rapida tutela al lavoratore, ed una seconda fase, a
cognizione piena, che della precedente costituisce una prosecuzione (cfr. Cass. n. 13788 del 2016, Cass. n. 30443 del 2018,
Cass. nn. 2930, 5993, 9458 del 2019).

7.2. Va, altresì, sottolineato che l’elemento
intenzionale del complessivo fatto addebitato disciplinarmente non integra –
nell’ambito della contestazione disciplinare – un capo autonomo di sentenza
suscettibile di passare in giudicato. L’eccezione di violazione del giudicato
interno prospettata dal ricorrente non appare fondata, dovendosi richiamare il
principio, conforme all’insegnamento di questa Suprema Corte, secondo cui il
giudicato interno può formarsi solo su di un capo autonomo di sentenza che
risolva una questione avente una propria individualità ed autonomia, così da
integrare una decisione del tutto indipendente e determinante ai fini
dell’accertamento del diritto. Invero, in base a consolidati e condivisi
orientamenti di questa Corte, il giudicato interno si forma solo su capi
autonomi della sentenza, che risolvano questioni aventi una propria
individualità e autonomia, tali da integrare una decisione del tutto
indipendente (Cass. n. 17935 del 2007; Cass. n. 23747 del 2008), non anche su
quelli relativi ad affermazioni che costituiscano mera premessa logica della
statuizione in concreto adottata (Cass. n. 22863 del 2007); ove non sia stata
proposta impugnazione nei confronti di un capo della sentenza e sia stato,
invece, impugnato un altro capo strettamente collegato al primo, è da escludere
che sul capo non impugnato si possa formare il giudicato interno (vedi, per
tutte: Cass. n. 4934 del 2010); la violazione del giudicato interno si può
verificare soltanto quando la sentenza di primo grado si sia pronunziata
espressamente su una questione del tutto distinta dalle altre e tale specifica
pronunzia non può considerarsi implicitamente impugnata allorché il gravame sia
proposto in riferimento a diverse statuizioni, rispetto alle quali la questione
stessa non costituisca un antecedente logico e giuridico, così da ritenersi in
esse necessariamente implicata, ma sia soltanto ulteriore ed eventuale e,
comunque, assolutamente distinta (Cass. n. 28739 del 2008).

Il vincolo del giudicato, quindi, non può ravvisarsi
nel preteso passaggio in giudicato di una parte dell’argomentazione dedicata
alla verifica del rispetto del principio della immutabilità della
contestazione, perché la disamina effettuata dal Tribunale in ordine
all’elemento soggettivo del fatto imputato al lavoratore non ha nessuna
individualità o autonomia tale da integrare una decisione indipendente,
suscettibile di passare in cosa giudicata, ma è una semplice argomentazione
adoperata per negare, nel caso concreto, la diversità del fatto materiale.

7.3. In ogni caso, la Corte territoriale ha
chiaramente pronunciato sulla censura relativa alla immutabilità del fatto
contestato con particolare riguardo al profilo dell’elemento soggettivo
(censura che, invero, appare una mera riproposizione dei motivi di appello) nel
senso del suo rigetto, avendo dapprima svolto una attenta disamina comparata
del contenuto della lettera di contestazione disciplinare e di quello della
lettera di licenziamento per giungere a respingere qualsiasi profilo di
difformità in ordine alla condotta imputata al T., ed avendo, poi, aggiunto che
anche una diversa qualificazione dell’elemento soggettivo della condotta (colpa
anziché dolo) non era suscettibile di modificare i fatti addebitati al
lavoratore, non conseguendo alcun pregiudizio al diritto di difesa.

In particolare, la Corte distrettuale ha precisato
che “Difatti, anche a supporre che il fatto della difformità sia stato
contestato a titolo doloso (ed a ciò induce il riferimento “al fine di
procurare un ingiusto profitto alla IMET”), la ritenuta sussistenza di una
responsabilità a titolo di colpa generica si concreta solo in una diversa
qualificazione del medesimo fatto contestato (anzi di uno dei fatti contestati)
attuata con il ridimensionamento dell’elemento soggettivo addebitato.

Ed invero il fatto materiale rimane perfettamente
identico (di aver falsamente – e cioè contrariamente al vero – attestato, nei
libretti di misura e negli stati di avanzamento dei lavori, l’esecuzione di
opere mai realizzate, ovvero l’esecuzione di opere in misura superiore rispetto
a quelle effettivamente realizzate, nell’ambito della gara di appalto relativa
al lotto Sardegna; oppure più specificamente “la difformità, in ben 15
cantieri su 16, relativi alle opere realizzate a seguito dell’appalto bandito
nell’ambito del primo intervento attuativo del Piano Nazionale Banda Larga
(lotto 6 – Regione Sardegna), tra le opere effettivamente realizzate nei
singoli siti e le opere invece contabilizzate, con gravissimo danno economico
per la società scrivente”) mentre muta solo, ed in favore dell’incolpato
attraverso la riduzione del titolo di imputazione, la valutazione dell’elemento
psicologico di rilievo”.

La sentenza impugnata si è correttamente conformata
ai principi espressi da questa Corte in materia di immodificabilità o
immutabilità del fatto contestato. Invero, questa Corte ha ripetutamente
affermato che nel procedimento disciplinare a carico del lavoratore,
l’essenziale elemento di garanzia in suo favore è dato dalla contestazione dell’addebito,
mentre la successiva comunicazione del recesso ben può limitarsi a richiamare
quanto in precedenza contestato, non essendo tenuto il datore di lavoro a
descrivere nuovamente i fatti in contestazione per rendere puntualmente
esplicitate le motivazioni del recesso e per manifestare come gli stessi non
possano ritenersi abbandonati o superati (Cass.,
ord., n. 28471 del 2018).

E’ stato, in particolare, affermato che in virtù di
detto principio, i fatti su cui si fonda il provvedimento sanzionatorio devono
coincidere con quelli oggetto dell’avvenuta contestazione. E’ stato ribadito il
principio per il quale, ai fini del rispetto delle garanzie previste dall’articolo 7 della legge n. 300 del
1970, il contraddittorio sul contenuto dell’addebito mosso al lavoratore
può ritenersi violato (con conseguente illegittimità della sanzione, irrogata
per causa diversa da quella enunciata nella contestazione) solo quando vi sia
stata una sostanziale immutazione del fatto addebitato, inteso con riferimento
alle modalità dell’episodio e al complesso degli elementi di fatto connessi
all’azione del dipendente, ossia quando il quadro di riferimento sia talmente
diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente
il diritto di difesa (cfr., tra le altre, Cass. n. 2935 del 2013).

Nello stesso senso si è sancito che: “il
principio della immutabilità della contestazione dell’addebito disciplinare
mosso al lavoratore ai sensi dell’art. 7 I. n. 300/1970 attiene
alla relazione tra i fatti contestati e quelli che motivano il recesso e,
pertanto, non riguarda la qualificazione giuridica dei fatti stessi, in
relazione all’indicazione delle norme violate” (cfr. Cass. n. 7105 del
1994). Invero, la qualificazione del fatto è un proprium del giudice, non del
datore di lavoro.

E ancora questa Corte ha affermato che: “In
tema di licenziamento disciplinare, il fatto contestato ben può essere
ricondotto ad una diversa ipotesi disciplinare (dato che, in tal caso, non si
verifica una modifica della contestazione, ma solo un diverso apprezzamento
dello stesso fatto), ma l’immutabilità della contestazione preclude al datore
di lavoro di far poi valere, a sostegno della legittimità del licenziamento
stesso, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una
diversa valutazione dell’infrazione anche diversamente tipizzata dal codice
disciplinare apprestato dalla contrattazione collettiva, dovendosi garantire
l’effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare di
cui all’art. 7, della legge n.
300 del 1970 assicura al lavoratore incolpato. (Nella specie, la S.C. ha
confermato la sentenza impugnata laddove aveva ritenuto illegittimo il
licenziamento che, facendo seguito ad una contestazione disciplinare relativa
alla constatazione di un “ammanco” di un certo quantitativo di merce semilavorata
in oro, aveva richiamato altra ipotesi del c.c.n.I., relativa al furto in
azienda)” (cfr. Cass. n. 6499 del 2011).

Deve, pertanto, nuovamente ribadirsi che sussiste
una modifica della contestazione disciplinare solamente ove venga adottato un
provvedimento sanzionatone che presupponga circostanze di fatto nuove o diverse
rispetto a quelle già contestate, non quando il datore di lavoro proceda ad un
diverso apprezzamento e qualificazione dello stesso fatto.

Da ultimo, va rilevato che lo stesso orientamento
citato dal ricorrente (Cass. n. 26678 del 2017)
conferma la necessità, per rinvenire un mutamento della contestazione
disciplinare, di una modifica delle caratteristiche oggettive del comportamento
addebitato al lavoratore, che – nel caso richiamato – consisteva nel
ritrovamento di una tessera piuttosto che nella sottrazione della stessa al
legittimo titolare.

8. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.

Preliminarmente, va rammentato che il giudizio di
cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi
di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro
formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice
di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i
caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa
enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche
previste dall’art. 360 cod. proc. civ., sicché
è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata sotto
una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non
collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleata dal codice di rito
(cfr. Cass. n. 19959 del 2014). Invero, la censura ripercorre pedissequamente
il motivo di appello proposto ed affrontato dalla Corte di appello senza
presentare specifiche contestazioni al decisum della sentenza impugnata.

Inoltre, la censura è prospettata con modalità non
conformi al principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione,
secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno, trascrivere nel
ricorso il contenuto del ricorso introduttivo del giudizio, fornendo al
contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il
reperimento negli atti processuali, potendosi solo così ritenere assolto il
duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del suddetto principio dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (Cass. 12 febbraio 2014, n. 3224; Cass. SU 11
aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n.
22726).

Invero, la Corte distrettuale ha rilevato che il
lavoratore non ha specificamente contestato i fatti (a suo carico) risultanti
dalla relazione dell’ausiliario del Pubblico Ministero che procedeva nei suoi
confronti per i reati di concussione e truffa aggravata (e relativi a
contabilizzazioni di lavori in realtà mai eseguiti), non ha chiesto
l’esibizione di documentazione contabile né ha formulato istanza di consulenza
tecnica d’ufficio; ha, conseguentemente, ritenuta provata la condotta
addebitata al lavoratore.

Va rammentato che questa Corte ha già statuito che
il giudice civile può legittimamente utilizzare come fonte del proprio
convincimento le prove raccolte in un giudizio penale e fondare la decisione su
elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede,
procedendo a tal fine al diretto esame del contenuto del materiale probatorio
ovvero ricavandoli dalla sentenza, o se necessario, dagli atti del relativo
processo in modo da accertare esattamente i fatti materiali sottoponendoli al
proprio vaglio critico (cfr., tra le altre, Cass.
n. 1095 del 2007, Cass. nn. 15112 e 22463 del 2013, Cass. n. 4758 del 2015,
e da ultimo Cass. n. 10853 del 2019).

In ordine ai lavori da eseguire “a corpo”
e non “a misura”, è evidente che il ricorrente lamenta la erronea
applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria
ricostruzione della fattispecie concreta, e dunque, in realtà, non denuncia
un’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalla norma di legge
(ossia un problema interpretativo, vizio riconducibile all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) bensì
un vizio-motivo, da valutare alla stregua del novellato art. 360, primo comma n. 5 cod.proc.civ., che –
nella versione ratione temporis applicabile – lo circoscrive all’omesso esame
di un fatto storico decisivo (cfr. sul punto Cass. Sez. U. n. 19881 del 2014),
riducendo al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità
sulla motivazione (Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014).

Nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame e la
motivazione non è assente o meramente apparente, né gli argomenti addotti a
giustificazione dell’apprezzamento fattuale risultano manifestamente illogici o
contraddittori. La sentenza impugnata ha ampiamente esaminato i fatti
controversi ed accertato la falsa contabilizzazione di opere, aggiungendo che
“E’ tuttavia chiaro che pure nell’appalto a corpo la prestazione
dell’appaltatore rimane quella di realizzazione delle opere previste nel
progetto cosicché se queste vengono a mancare, in tutto od in parte, ne deriva
un inadempimento in capo all’appaltatore, con conseguente pregiudizio in danno
del committente, il quale paga il prezzo pattuito. Ed è ciò che risulta
avvenuto nel caso di specie, stando quanto emerge dalla consulenza redatta dal
consulente tecnico del P.M.”

9. Il terzo motivo di ricorso non è fondato.

Va, in primo luogo, rilevato che la violazione della
norma del contratto collettivo doveva essere prospettata come violazione
diretta della stessa, senza dedurre la violazione dei canoni ermeneutici
codicistici. E’ stato, invero, affermato da questa Corte che “La denuncia
di violazione o di falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi di
lavoro, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3
cod. proc. civ., come modificato dall’art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006 n.40,
è parificata sul piano processuale a quella delle norme di diritto, sicché,
anch’essa comporta, in sede di legittimità, l’interpretazione delle loro
clausole in base alle norme codicistiche di ermeneutica negoziale (artt. 1362 ss. cod. civ.) come criterio
interpretativo diretto e non come canone esterno di commisurazione
dell’esattezza e della congruità della motivazione, senza più necessità, a pena
di inammissibilità della doglianza, di una specifica indicazione delle norme
asseritamente violate e dei principi in esse contenuti, né del discostamento da
parte del giudice di merito dai canoni legali assunti come violati o di una
loro applicazione sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti”
(cfr. Cass. nn.6335 e 18946 del 2014; da ultimo Cass. n. 28164 del 2018, par. 8).

Questa Corte ha, in ogni caso, affermato che in tema
di licenziamento per giusta causa, non è vincolante la tipizzazione contenuta
nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e
proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice,
avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della
fattispecie, pur se la scala valoriale formulata dalle parti sociali deve
costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di
contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c.
(cfr. da ultimo Cass. n. 14063 del 2019).

La Corte distrettuale ha esaminato le fattispecie
esemplificativamente previste dal c.c.n.I. di settore nell’ambito del codice
disciplinare (pagg. 10 e 11 della sentenza impugnata), rilevando, dapprima, che
la condotta imputata al T. non risultava tra le fattispecie indicate (seppur in
via esemplificativa) dal c.c.n.I. e, in seconda battuta, che, fra le condotte
punite con sanzioni espulsive, risultava l’ipotesi dell’assenza ingiustificata
oltre tre giorni consecutivi nell’anno solare, fattispecie che non risultava
necessariamente connotata dalla presenza del dolo né meno grave di quella
imputata al T. e, per contro, le mancanze punite con sanzioni conservative
risultavano per difetto non comparabili, per minor grado di gravità (ed anche
se assistite da dolo), con quella in esame.

La Corte distrettuale si è, pertanto, conformata ai
principi statuiti da questa Corte, effettuando una valutazione comparata
dell’addebito rivolto al T. con le fattispecie negoziali previste, in via
esemplificativa, dalle parti sociali e pervenendo ad escludere il pari
disvalore sociale con le condotte punite con sanzioni conservative; la censura
del ricorrente si risolve, dunque, nella mera proposizione di una lettura delle
clausole contrattuali conforme alla propria prospettazione.

La censura, inoltre, ove invoca la reintegrazione
nel posto di lavoro per carenza di riconducibilità del fatto contestato alle
fattispecie punite dal c.c.n.I. con sanzione espulsiva dimostra di confondere i
due momenti logico-giuridici che connotano, a seguito delle modifiche apportate
dalla legge n. 92 del 2012 all’art. 18 della legge n. 300 del
1970, il procedimento di valutazione della legittimità di un licenziamento.

Invero, come affermato da questa Corte (Cass. n. 12365 del 2019), il giudice deve, in
primo luogo, accertare se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato
motivo di recesso, secondo le previgenti nozioni fissate dalla legge, non
avendo la riforma del 2012 “modificato le norme sui licenziamenti
individuali, di cui alla legge n. 604 del 1966,
laddove stabiliscono che il licenziamento del prestatore non può avvenire che
per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 cod. civ.
o per giustificato motivo” (così Cass. SS.UU.
n. 30985 del 2017).

Nel caso in cui il giudice escluda la ricorrenza di
una giustificazione della sanzione espulsiva, deve svolgere, al fine di
individuare la tutela applicabile, una ulteriore – seconda – disamina sulla
sussistenza o meno di una delle due condizioni previste dal comma 4 dell’art.
18 per accedere alla tutela reintegratone (“insussistenza del fatto
contestato” ovvero fatto rientrante “tra le condotte punibili con una
sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi
ovvero dei codici disciplinari applicabili”), dovendo, in assenza,
applicare il regime dettato dal comma 5, “da ritenersi espressione della
volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una
valenza di carattere generale” (ancora Cass.
SS.UU. n. 30985 del 2017).

Avuto riguardo alle previsioni della contrattazione
collettiva che graduano le sanzioni disciplinari, questa Corte, essendo quella
della giusta causa e del giustificato motivo una nozione legale, ha più volte
espresso il generale principio che tali previsioni non vincolano il giudice di
merito (ex plurimis, Cass. n. 8718 del 2017; Cass.
n. 9223 del 2015; Cass. n. 13353 del 2011),
anche se “la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei
parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola
generale dell’art. 2119 c.c.” (Cass. n. 9396 del 2018; Cass. n. 28492 del 2018).

Il principio generale subisce eccezione ove la
previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente
rilevante solamente una sanzione conservativa: in tal caso il giudice è
vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior
favore fatta espressamente salva dal legislatore (art. 12 legge n. 604 del 1966).
Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il
giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati
motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti
(cfr., in particolare, Cass. n. 15058 del 2015;
Cass. n. 4546 del 2013; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 1173 del 1996;
Cass. n. 19053 del 1995), a meno che non si accerti che le parti stesse
“non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la
possibilità di una sanzione espulsiva”, dovendosi attribuire prevalenza
alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito
disciplinare di grado inferiore, compiuta dall’autonomia collettiva nella
graduazione delle mancanze disciplinari (cfr. ex multis Cass. n. 1173 del 1996;
Cass. n. 14555 del 2000; Cass. n. 6165 del 2016; Cass. n. 11860 del 2016; Cass. n. 17337 del 2016).

Nel caso di specie, la Corte distrettuale – nel
rispetto dei principi richiamati – ha verificato che la condotta posta in
essere dal T. non risultava prevista nell’ambito delle condotte punite dal
c.c.n.I. con sanzione conservativa ed ha poi assunto la scala valoriale
disciplinare elaborata dalle parti sociali quale parametro di riferimento per
riempire di contenuto la clausola generale dell’art.
2119 cod.civ., pervenendo ad una valutazione di legittimità del
licenziamento.

10. Il quarto ed il quinto motivo di ricorso sono
inammissibili.

Va osservato che la sentenza in esame (pubblicata
dopo l’11 settembre 2012) ricade, ratione temporis, nel regime risultante dalla
modifica dell’art. 360, primo comma, n. 5),
cod.proc.civ. ad opera dell’art.
54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, il quale prevede che
la decisione può essere impugnata per cassazione “per omesso esame circa
un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le
parti”. L’intervento di modifica del n. 5 dell’art.
360 cod.proc.civ., come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 8053 del 2014), comporta una
sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla
motivazione di fatto, dovendosi interpretare, la norma, alla luce dei canoni
ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi,
come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di
legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciarle in cassazione solo
l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge
costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della
motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata,
a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si
esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e
grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto
irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione
perplessa e obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza
del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Ebbene, la sentenza impugnata ha affrontato, con
argomenti logici e coerenti, tutti i profili oggetto delle censure avanzate dal
ricorrente, rilevando, in relazione alla proporzionalità della sanzione
all’infrazione disciplinare commessa, che tutti gli elementi indicatori della
lievità dei fatti proposti dal lavoratore (mancanza di danno patrimoniale per
l’azienda, stato di incensuratezza disciplinare, eccessivo carico di lavoro,
valore degli appalti eseguiti, assenza di una struttura di sostegno, attinenza
della difformità a lavorazioni accessorie) non possono ritenersi – al pari del
giudizio espresso dal Tribunale – né sussistenti/idonei né adeguti a bilanciare
i contrapposti e soverchianti elementi sintomatici della gravità dei fatti
accertati (analiticamente esaminati sia con riguardo al profilo del danno
risultante all’appaltatore pur se a fronte di appalti “a corpo” sia
con riguardo al complesso dei lavori contabilizzati e non eseguiti o eseguiti
in parte sia con riguardo al ruolo di Direttore dei lavori svolto dal T.,
istituzionalmente preordinato a garanzia della stazione appaltante); in
relazione alla tempestività della contestazione, la Corte distrettuale ha
rilevato che le critiche svolte alla sentenza del Tribunale non erano
specifiche né confutavano gli argomenti sviluppati dal giudice del merito,
concludendo che la verifica effettuata dal servizio di Audit aziendale non
aveva avuto ad oggetto la difformità tra lavori contabilizzati e lavori
effettivamente eseguiti.

11. In conclusione, il ricorso va rigettato e le
spese di lite sono regolate secondo il criterio di soccombenza previsto dall’art. 91 cod.proc.civ.

12. Sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato previsto dal d.P.R.
30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,
comma 17 (legge di stabilità 2013) pari a quello – ove dovuto – per il
ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro
200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese
generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo
a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a
norma del comma 1-bis dello stesso art.
13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 giugno 2020, n. 11540
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: