Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 giugno 2020, n. 11546
Infortunio sul lavoro, Risarcimento del danno biologico,
Accertamento della responsabilità di parte datoriale, Nocività dell’ambiente
di lavoro
Fatti di causa
La Corte d’Appello di Bari confermava la pronuncia
del giudice di prima istanza il quale aveva respinto la domanda proposta da
D.P. nei confronti della s.p.a. R.F.I. volta a conseguire il risarcimento del
danno biologico risentito all’esito dell’infortunio sul lavoro occorsogli in
data 12/7/1993 in seguito al deragliamento di un convoglio ferroviario.
La Corte distrettuale perveniva a tale
convincimento, sul rilievo – desumibile dalle indagini espletate in sede
amministrativa e penale – che l’incidente era avvenuto a causa del posizionamento
di grossi frammenti di pietra e massi, collocati fra le rotaie e le
controrotaie, di dimensioni tali da provocare il sobbalzo del carrello
anteriore della vettura semipilota di testa con conseguente deragliamento del
treno.
Muovendo da tali acquisizioni, sulla base dei
dettami di cui all’art. 2087 c.c., osservava
come ai fini dell’accertamento della responsabilità di parte datoriale,
incombesse sul lavoratore l’onere di dimostrare l’esistenza del danno, la
nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso causale esistente fra questi due
elementi, gravando invece sul datore di lavoro quello di dimostrare di aver
adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi dell’evento
dannoso; con la precisazione che detto onere era da reputarsi astretto entro
confini di ragionevolezza e prevedibilità, secondo i consolidati principi
espressi dalla Corte di legittimità.
Nell’ottica descritta l’evento lesivo doveva
ritenersi ascrivibile a caso fortuito ed imprevedibile, essendo connesso al
fatto di terzi, non evitabile attraverso la diligenza richiesta dalla
disposizione di cui all’art. 2087 c.c. la quale
non esige la predisposizione di misure idonee a prevenire ogni evento lesivo.
La collocazione di recinzioni o di sistemi di video controllo, ipotizzata dal
lavoratore come misura atta a prevenire il verificarsi dell’evento, non era
stato dimostrato potesse assolvere alla indicata funzione, considerato, in ogni
caso, che l’adozione di tali mezzi di protezione sarebbe andata ai di là di
quanto richiesto dalla norma codicistica in esame.
Avverso tale decisione D.P. interpone ricorso per
cassazione affidato ad unico motivo, successivamente illustrato da memoria.
Resiste, con controricorso tardivamente notificato,
la società intimata.
Ragioni della decisione
1. Con unico motivo il ricorrente denuncia
violazione e falsa applicazione degli artt.1218,
2087 e 2697 c.c.
nonché degli artt.113 e 115 c.p.c. in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.
Ci si duole che la domanda risarcitoria sia stata
respinta non a causa della omessa dimostrazione da parte della società, di non
aver potuto evitare l’evento mediante l’uso della normale diligenza, ma per non
aver dimostrato il lavoratore che l’adozione di specifici mezzi di tutela da
parte datoriale, avrebbe di fatto impedito il verificarsi dell’evento stesso.
Si deduce che con tale statuizione, la Corte di
merito avrebbe operato una vera e propria inversione dell’onere probatorio,
ponendo a carico del lavoratore un onere diabolico, ribadendosi che, secondo la
esegesi delle disposizioni di cui agli artt.1218
e 2087 cod. civ., grava sul datore di lavoro
l’onere di provare di aver adottato tutte le misure idonee a scongiurare il
verificarsi dell’evento dannoso; onere che nella specie non poteva ritenersi
assolto sol perché sarebbero stati soggetti non identificati a causare
l’evento.
2. Il motivo non è fondato.
La formulata doglianza sottopone allo scrutinio
della Corte la tematica della natura della responsabilità del datore di lavoro
per inadempimento dell’obbligo di prevenzione di cui all’art.2087 c.c.
In via di premessa deve rammentarsi che la natura
contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione
al disposto dell’art.2087 cod. civ. – che
peraltro può concorrere con quella extracontrattuale originata dalla violazione
di diritti soggettivi primari (vedi Cass. 17/7/1995
n.7768, in motivazione Cass. 21/4/2017 n.10145,
Cass. 12/8/2019 n. 21333) – è ormai da tempo consolidata.
L’inserimento dell’obbligo di sicurezza all’interno
della struttura del rapporto obbligatorio – in quanto il contenuto del
contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (ai sensi dell’art.1374 cod. civ.) dalla disposizione che impone
l’obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale – è
indubbiamente fonte di obblighi positivi a carico del datore, il quale è tenuto
a predisporre un ambiente ed una organizzazione di lavoro idonei alla
protezione del bene fondamentale della salute, funzionale alla stessa
esigibilità della prestazione lavorativa, con la conseguenza che è possibile
per il prestatore di eccepirne l’inadempimento e rifiutare la prestazione
pericolosa (art. 1460 cod. civ.).
Alla luce della sua formulazione “aperta”, la
giurisprudenza consolidata è concorde nell’assegnare all’art.2087 cod. civ. il ruolo di norma di chiusura
del sistema di prevenzione, operante cioè anche in assenza di specifiche regole
d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma volta a
sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore,
l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare
l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto
conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di
venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un
determinato momento storico (vedi fra le tante, Cass.
14/1/2005, n. 644; Cass. 1°/2/2008, n. 2491;
Cass. 3/8/2012, n. 13956; Cass. 8/10/2018, n.
24742).
Tuttavia, pur valorizzando la “funzione dinamica”
che va attribuita alla disposizione di cui all’art.
2087 cod. civ., in quanto norma diretta ad indurre l’imprenditore ad
attuare, nell’organizzazione del lavoro, un’efficace attività di prevenzione
attraverso la continua e permanente ricerca delle misure suggerite
dall’esperienza e dalla tecnica più aggiornata al fine di garantire, nel
migliore dei modi possibili, la sicurezza dei luoghi di lavoro, è stato
condivisibilmente riconosciuto che la responsabilità datoriale non è
suscettibile di essere ampliata fino al punto da comprendere, sotto il profilo
meramente oggettivo, ogni ipotesi di lesione dell’integrità psico-fisica dei
dipendenti e di correlativo pericolo.
L’art.2087 cod. civ.
non configura infatti un’ipotesi di responsabilità oggettiva (vedi sul punto ex
plurimis, Cass. 23/5/2019 n.14066), essendone elemento costitutivo la colpa,
intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a
prevenire ragioni di danno per il lavoratore.
Né può desumersi dall’indicata disposizione, un
obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela
possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un
ambiente di lavoro a “rischio zero” quando di per sé il pericolo di una
lavorazione o di un’attrezzatura non sia eliminabile, così come non può
ragionevolmente pretendersi l’adozione di strumenti atti a fronteggiare
qualsiasi evenienza che sia fonte di pericolo per l’integrità psicofisica del
lavoratore; va infatti considerato che, ove applicabile, un siffatto principio
importerebbe quale conseguenza l’ascrivibilità al datore di lavoro di qualunque
evento lesivo, pur se imprevedibile ed inevitabile, e nonostante l’ambito dell’art.2087 cod. civ. riguardi una responsabilità
contrattuale ancorata a criteri probabilistici, e non meramente possibilistici.
Come più volte ribadito dalla giurisprudenza di
questa Corte (v. Cass. 15/6/2016 n.12347; Cass.10/6/2016 n.11981) non si può
automaticamente desumere, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza
delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione
del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi
di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali
o tecniche in relazione al lavoro svolto.
3. Orbene, la Corte distrettuale, nel proprio
incedere argomentativo, non si è discostata dagli enunciati principi di
diritto.
Muovendo dai dati acquisiti in sede di indagine
amministrativa e dagli approdi ai quali era pervenuto l’ausiliare nominato nel
corso del giudizio penale, ha rimarcato come tutto il materiale rotabile del
treno fosse stato recentemente revisionato e non fossero state riscontrate
anomalie agli organi dei carrelli; ha inoltre osservato che la condotta dei
macchinisti era stata improntata alla massima diligenza e perizia, giacche la
rapidità della frenata aveva consentito di raggiungere l’ostacolo con la minore
velocità possibile ed in condizioni di marcia tali da ridurre l’effetto sviante
dell’ostacolo lapideo.
Il giudice del gravame, alla stregua delle suesposte
considerazioni, ha quindi reputato insussistente la responsabilità del datore
nella determinazione dell’evento infortunistico occorso al ricorrente, in un
contesto in cui è limpidamente emersa – per quanto sinora detto – l’esclusiva
efficacia, nel dinamismo causale del danno, di una condotta ascrivibile a
terzi, tale da interrompere il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso.
Nel contesto descritto di puntuale assolvimento/da
parte datoriale, di tutti gli obblighi previsti dalla legge, il fatto del terzo
aveva assunto il carattere dell’assoluta imprevedibilità, inopinabiiità ed
esorbitanza secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, sì da
porsi quale causa esclusiva dell’evento.
E’ stata quindi, sottolineata la carenza delle
condizioni di operatività dell’obbligo di sicurezza a carico della società,
sotto il profilo della insussistenza di alcuna ragionevole esigibilità di una
diversa specifica condotta protettiva, con giudizio coerente con il grado di
evoluzione tecnologica proprio dell’epoca di inveramento dell’infortunio, e
comunque sotto tale profilo, riservato al giudice del merito ed insuscettibile
di sindacato in sede di legittimità.
Alla stregua delle superiori argomentazioni, il
ricorso va, pertanto respinto.
Deve da ultimo considerarsi che nello specifico, il
controricorso risulta inammissibile per tardività della notificazione
(intervenuta il 29/8/2016, oltre il termine di quaranta giorni dalla notifica
del ricorso principale intervenuta in data 22/2/2016, ex art.370 c.p.c.).
L’inammissibilità del controricorso, perché
notificato oltre il termine fissato dall’art. 370
cod. proc. civ., comporta che non può tenersi conto del controricorso
medesimo, ma non incide sulla validità ed efficacia della procura speciale
rilasciata a margine di esso dal resistente al difensore, e può partecipare in
base alla stessa alla discussione orale, con la conseguenza che, in caso di
rigetto del ricorso, dal rimborso delle spese del giudizio per cassazione
sopportate dal resistente vanno escluse le spese e gli onorari relativi al
controricorso, mentre tale rimborso spetta limitatamente alle spese per il
rilascio della procura ed all’onorario per lo studio della controversia e per
la discussione della causa, fatta dal patrono della parte vittoriosa alla
pubblica udienza (vedi Cass. 13/5/2010 n. 11619, Cass.
11/2/2011 n.3325).
Tenuto conto degli enunciati principi, le spese del
presente giudizio si liquidano nella misura in dispositivo indicata.
Trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 ricorrono le condizioni per dare atto ai sensi del comma 1
quater all’art. 13 DPR 115/2002,
della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del
ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in euro 200,00 per
esborsi ed euro 1.000,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15%
ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13 comma 1-quater del d.P.R. n.115
del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo per il ricorso a
titolo di contributo unificato pari a quello previsto per ricorso, a norma del
comma 1-bis, dello stesso articolo
13, ove dovuto.