Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 giugno 2020, n. 11542
Rapporto di lavoro, Trasferimento della titolarità della
farmacia in capo al cessionario, Comunicazione ex art.
2112 cod. civ.
Rilevato che
1. La Corte di appello di L’Aquila, con sentenza n.
731/2016, rigettava l’appello proposto da P.D. nei confronti della F.C. s.a.s.
del dott. M.C. e di M.T., nonché l’appello proposto da M.T. nei confronti della
F.C. del dott. M.C. e di P.D. e così confermava la sentenza del Tribunale di
Lanciano che, in accoglimento della opposizione a decreto ingiuntivo proposta
dal dott. M.C., nella qualità di legale rappresentante della F.C., nei
confronti della allora opposta K e della allora chiamata in causa M.T., nella
qualità di erede universale della dott.ssa C.R.M., aveva: a) revocato il
decreto ingiuntivo notificato al C. da P.D.; b) condannato la chiamata in causa
M.T. al pagamento in favore di P.D. della somma dallo stesso reclamata a titolo
di differenze retributive relative al rapporto di lavoro intercorso con la
qualifica di farmacista alle dipendenze della F.C. di R.M., di cui la M. era
divenuta erede universale, successivamente ceduta alla F.C. s.a.s. del dott.
M.C.
2. Nel respingere entrambi gli appelli e confermare la
sentenza di primo grado, la Corte di appello, per quanto ancora qui rileva, in
merito all’appello proposto da P.D., svolgeva – in sintesi – le considerazioni
che seguono:
a) è infondata la censura secondo cui la sentenza di
primo grado sarebbe carente di motivazione per avere il primo giudice
richiamato per relationem il contenuto degli atti difensivi della allora
opponente nonché il contenuto di un’altra sentenza dello stesso Tribunale che
aveva deciso per la prima volta la questione della inefficacia dell’atto di
cessione della farmacia dalla M. al C.; dalla sentenza impugnata poteva
comprendersi che le ragioni della decisione erano in ogni caso attribuibili
all’organo giudicante ed erano enunciate in modo chiaro, univoco ed esaustivo;
anche alla luce della giurisprudenza di legittimità, la predetta tecnica di
redazione non può ritenersi in sé sintomatica di difetto di imparzialità del
giudice, al quale non è imposta l’originalità né dei contenuti né delle
modalità espositive;
b) nel merito, la fattispecie in esame riguarda
un’ipotesi di trasferimento di farmacia, per la quale opera l’art. 12, comma secondo, della legge
2 aprile 1968 n. 475 secondo cui il trasferimento della farmacia è
subordinato alla condizione legale sospensiva del riconoscimento del medico
provinciale, tenuto ad esercitare il controllo dei requisiti richiesti dalla
stessa legge per la gestione del servizio farmaceutico, come già ritenuto da
Cass. n. 6050 del 1995 e S.U. n. 6587 del 1983; ne deriva che, come
correttamente ritenuto dal primo giudice, in applicazione principi generali del
contratto sottoposto a condizione, artt. 1353 e
1361 cod. civ., in mancanza del rilascio del
provvedimento amministrativo di riconoscimento del trasferimento della
titolarità della farmacia in capo al cessionario, il contratto di cessione
dell’azienda stipulato il 9 marzo 2010 deve essere ritenuto inefficace ex tunc,
sicché il cedente deve ritenersi unico soggetto titolare della farmacia e
dunque obbligato per i crediti di lavoro dei propri dipendenti, fra i quali
l’appellante, non operando il principio di solidarietà previsto dall’art. 2112 cod. civ., il quale richiede un valido
ed efficace atto di cessione di azienda, presupposto insussistente nella
specie;
c) è irrilevante che, a seguito della stipula
dell’atto di cessione, il dott. C. avesse inviato ai dipendenti una
“comunicazione ai sensi dell’art. 2112 cod.
civ.”, trattandosi di un atto in quel momento dovuto, salvo sempre
l’avveramento della condizione sospensiva cui era sottoposta l’efficacia
dell’atto di cessione; pertanto, venuta meno la cessione, erano venute meno retroattivamente
tutte le conseguenze derivanti dalla stessa, previste dalla legge o dalle parti
contraenti.
3. Per la cassazione parziale di tale sentenza,
nella parte relativa all’esclusione della responsabilità solidale del dott. C.
ex art. 2112 cod. civ., ha proposto ricorso
P.D. sulla base di tre motivi.
4. Hanno resistito la F.C. s.a.s. del dott. C. e il
dott. C. in proprio con controricorso, seguito da memoria ex art. 380-bis cod. proc. civ..
5. M.T. è rimasta intimata.
Considerato che
1. Con i primi due motivi si denuncia violazione ed
erronea applicazione degli artt. 132 cod. proc.
civ. e 118 disp .att. cod. proc. civ. e
vizio di radicale nullità della sentenza con violazione del diritto di difesa e
del principio del contraddittorio, in relazione al rigetto del motivo
concernente la nullità della sentenza di primo grado per carenza di motivazione
(art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.).
Segnatamente, il primo motivo denuncia l’erroneo rigetto del relativo motivo di
gravame e il secondo motivo investe direttamente la questione della nullità
della sentenza di primo grado motivata per relationem ad atti di parte o a
precedenti giurisprudenziali.
Il primo giudice aveva richiamato espressamente per
relationem il contenuto degli atti difensivi della allora opponente nonché
altra sentenza dello stesso tribunale che aveva deciso per la prima volta la questione
della inefficacia dell’atto di cessione dell’azienda farmacia tra la M. e il
C.. Difettava una autonoma valutazione. Il giudice di primo grado aveva
sostanzialmente emesso un provvedimento privo di motivazione, essendo state
ignorate le ragioni della parte soccombente.
Del pari, la Corte di appello, nel rigettare il
relativo motivo di appello, ha adottato una pronuncia laconica, dalla quale non
è possibile comprendere come il giudice di appello abbia condiviso il giudizio
di primo grado attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi
di gravame. Il giudizio espresso è meramente assertivo, essendo mancato un
esplicito riferimento al precedente giurisprudenziale, che non è stato
trascritto nelle sue parti significative. Né era possibile enucleare altrimenti
il percorso logico-giuridico seguito per pervenire alla decisione.
2. Con il terzo motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione dell’art. 2112 cod. civ.,
omessa e/o insufficiente motivazione, quanto alla asserita inefficacia
dell’atto di cessione di azienda in ragione del mancato riconoscimento
amministrativo, da parte del medico provinciale, dei requisiti fissati dalla
legge (art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.).
A fronte del contratto di cessione di azienda
sussisteva la responsabilità solidale per i debiti dal lavoro nei confronti sia
del cedente, sia del cessionario, ai sensi dell’art.
2112 cod. civ., norma imperativa e inderogabile, tant’è che lo stesso dott.
C. aveva compiuto atti di gestione, ordinaria e straordinaria, della costituita
società successivamente al contratto di cessione della farmacia.
La Corte d’appello ha omesso di motivare sulle
seguenti circostanze, decisive e mai contestate in giudizio: l’avvenuta
assunzione della ricorrente alle dipendenze della Farmacia di R.M.; l’esistenza
di residui crediti retributivi maturati durante tale rapporto di lavoro;
l’avvenuta cessione alla F.C. s.a.s. del dott. C., sita in Lanciano, costituita
in virtù di atto pubblico a rogito notarile del 9 marzo 2010; la continuazione
del rapporto di lavoro a partire dal marzo 2010 alle dipendenze della società
cessionaria; l’effettivo svolgimento, da parte del dott. C., di atti di
gestione ordinaria e straordinaria della costituita società e non solo di atti
meramente conservativi; l’avvenuta corresponsione, da parte del dott. C., delle
retribuzioni maturate dal marzo 2010 fino al settembre 2010.
L’inefficacia dell’atto di cessione non avrebbe
potuto opporsi all’attuale ricorrente, essendo questione interna riguardante il
cedente e il cessionario, ma non il lavoratore ceduto. Il contatto di cessione
di cui al rogito notarile del 9 marzo 2010, regolarmente registrato, era
perfettamente valido e mai impugnato.
A fronte della gestione del rapporto e del subentro
nella gestione della farmacia da parte del dott. C., sussisteva la
responsabilità ex art. 2112 cod. civ. per i
crediti retributivi relativi al pregresso periodo di svolgimento del rapporto
di lavoro.
3. Le censure mosse alla sentenza impugnata sono
destituite di fondamento.
4. I primi due motivi, tra loro connessi, sono
inammissibili.
4.1. Occorre premettere che la censura non può che
attenere alla sentenza di primo grado, in quanto asseritamente motivata per
relationem, e non anche la sentenza di appello che ha svolto un autonomo
giudizio sul thema decidendum, nella parte in cui ha respinto il secondo motivo
di appello, vertente sul merito della controversia e precisamente relativo alla
esclusione della responsabilità solidale del dott. C.. La censura processuale
svolta nei confronti della sentenza di appello attiene invece al rigetto della
eccezione di nullità della sentenza di primo grado.
5. Le censure sono innanzitutto inammissibili in
quanto la Corte di appello, nel rigettare il secondo motivo di appello, ha
pronunciato nel merito.
5.1. Costituisce principio cardine in tema di
impugnazione che la sentenza d’appello, anche se confermativa, si sostituisce
totalmente a quella di primo grado. A tale principio si associa quello che le
nullità delle sentenze soggette ad appello si convertono in motivi di
impugnazione (art. 354, primo comma, cod. proc.
civ., in relazione all’art. 161, primo comma,
cod. proc. civ.), con la conseguenza che il giudice di secondo grado
investito delle relative censure non può limitarsi a dichiarare la nullità ma
deve decidere nel merito. Pertanto, non può essere denunciato in cassazione un
vizio della sentenza di primo grado ritenuto insussistente dal giudice
d’appello.
5.2. Come recentemente ribadito, in considerazione
dell’effetto sostitutivo della pronuncia della sentenza d’appello e del
principio secondo cui le nullità delle sentenze soggette ad appello si
convertono in motivi di impugnazione, con la conseguenza che il giudice di
secondo grado investito delle relative censure non può limitarsi a dichiarare
la nullità ma deve decidere nel merito, non può essere denunciato in cassazione
un vizio della sentenza di primo grado ritenuto insussistente dal giudice
d’appello (Cass. n. 1323 del 2018; cfr. pure
Cass. n. 11537 del 1996 e n. 17027 del 2007).
6. Va poi considerato, pur a fronte del carattere
assorbente del predetto rilievo, che la Corte di appello ha dato atto – come si
evince dal tenore della sentenza ora impugnata – che il primo giudice non si
era limitato ad un pedissequo recepimento di atti esterni, ma aveva svolto un
autonomo giudizio, articolando una “puntuale ed autonoma decisione”.
Nel ricorso per cassazione non solo non vi è censura sull’attività ermeneutica
svolta dal giudice di appello, laddove questo ha espressamente dato conto,
interpretando il contenuto della sentenza di primo grado, che la stessa
conteneva un autonomo giudizio valutativo, ma parte ricorrente si è limitata ad
opporre al giudizio espresso dalla Corte territoriale la propria opposta
soluzione, svolgendo quindi una censura che si pone al di fuori del ristretto
perimetro di cui all’art. 360, primo comma, n. 5
cod. proc. civ. (nel nuovo testo applicabile alla fattispecie ratione
temporis).
7. Quanto al terzo motivo di ricorso, lo stesso è
infondato per i motivi che seguono.
7.1. Innanzitutto, va ribadito quanto già affermato
da questa Corte circa la subordinazione dell’effetto traslativo di una farmacia
al riconoscimento del medico provinciale. Il provvedimento autorizzativo da
parte della Pubblica Amministrazione (prima medico provinciale ora Regione) al
trasferimento dell’azienda (come richiesto dalla L. 2 aprile 1968, n. 475, art. 12,
comma 2) ha valore di condizione legale sospensiva (Cass. SS.UU. n. 6587 del
1983). In particolare, su tale solco interprativo, questa Corte, con sentenza
n. 6050 del 1995, ha avuto modo di precisare che “poiché ai sensi della L 2 aprile 1968, n. 475, art. 12,
comma 2, il trasferimento della farmacia è subordinato alla condizione legale
sospensiva dei riconoscimento del medico provinciale, tenuto ad esercitare il
controllo dei requisiti richiesti dalla stessa legge per la gestione del
servizio farmaceutico la vendita, come più in generale, ogni atto traslativo,
tra vivi o “mortis causa” di una farmacia non solo non consente
all’acquirente prima del riconoscimento, l’esercizio della farmacia ma neppure
produce il suo effetto reale del trasferimento della proprietà dell’azienda,
che solo dopo il predetto atto amministrativo, avente la natura giuridica di
un’autorizzazione costitutiva, si realizza con efficacia retroattiva”.
(conforme, Cass. n. 12747 del 2014).
8. A ciò aggiungasi che è incontestato il mancato
avveramento della condizione, da cui il venir meno con effetto ex tunc
dell’effetto traslativo.
8.1. Ciò comporta che, non essendosi verificato
l’effetto traslativo del contratto di trasferimento di farmacia, le vicende del
rapporto di lavoro svoltosi medio tempore con il cessionario, in quanto instaurato
in via di mero fatto, non sono idonee ad incidere sul rapporto con il cedente
ancora in essere, sebbene quiescente fino alla declaratoria di nullità della
cessione (cfr. Cass. n. 5998 del 2019). Il rapporto di lavoro permane con il
cedente e se ne instaura, in via di fatto, uno nuovo e diverso con il soggetto
già, e non più, cessionario, alle cui dipendenze il lavoratore abbia
materialmente continuato a lavorare, dal quale derivano effetti giuridici e, in
particolare, la nascita degli obblighi gravanti su qualsiasi datore di lavoro
che utilizzi la prestazione lavorativa nell’ambito della propria organizzazione
imprenditoriale (Cass. n. 21161 del 2019).
9. E’ dunque infondato l’assunto di parte ricorrente
secondo cui l’instaurazione, in via di mero fatto, di un rapporto di lavoro con
il dott. C., mai divenuto in via di diritto cessionario della farmacia,
comporterebbe comunque l’operatività della regola della responsabilità solidale
del cessionario con il cedente ex art. 2112,
secondo comma, cod. civ. per i debiti contratti dal secondo durante il
rapporto di lavoro svoltosi anteriormente al contratto di cessione, rimasto
giuridicamente inefficace per il mancato avveramento della condizione cui era
sottoposto.
10. Per completezza, quanto alla posizione
processuale di T.M., che non ha proposto impugnazione e alla quale il ricorso
per cassazione ora all’esame è stato notificato, giova precisare che tale
originaria litisconcorte non è parte dell’attuale giudizio di cassazione.
10.1. Quando nel processo con pluralità di parti il
soccombente notifichi l’impugnazione non solo alla parte vittoriosa nei suoi
confronti e contro la l’impugnazione stessa è rivolta, ma anche ad altra parte
che, invece, sia rimasta soccombente nei confronti dello stesso impugnante,
tale ultima notificazione è atto rivolto soltanto a notiziare la parte
soccombente, ai sensi dell’art. 332 cod. proc. civ.,
del fatto che la sentenza è stata impugnata, così da consentirle di valutare se
impugnare la statuizione a lei sfavorevole. Ne consegue che, non essendo detta
notificazione diretta ad estendere l’impugnazione nei confronti di quella
parte, quest’ultima assume la posizione di parte del giudizio di impugnazione
esclusivamente nel caso in cui eserciti a sua volta l’impugnazione stessa (cfr.
Cass. n. 20437 del 2008; conf. Cass. 2208 del 2012, n. 13355 del 2015, n. 5508
del 2016; cfr. da ultimo, Cass. 10171 del 2018).
11. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di
parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità,
liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi
professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del
compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
12. Va dato atto della sussistenza dei presupposti
processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte
della ricorrente, ai sensi dell’art.
13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto
dall’art. 1, comma 17, della
legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma
del comma 1 -bis dello stesso art.
13, se dovuto (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese, che liquida in euro
200,00 per esborsi e in euro 2.500,00 per compensi, oltre 15% per spese
generali e accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13 comma 1-quater del d.P.R. n.115
del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
-bis, dello stesso articolo 13,
se dovuto.