Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 giugno 2020, n. 12041
Nocività dell’ambiente di lavoro, Nesso causale tra
l’attività lavorativa e patologia contratta, Risarcimento dei danni, Onere
della prova incombe sul lavoratore, Compete al datore di lavoro l’onere di
provare l’adozione di misure di sicurezza che, ancorché non risultino dettate
dalla legge, siano suggerite da conoscenze sperimentali e tecniche o dagli
standard di sicurezza normalmente osservati
Fatti di causa
1. E.C. e R.M.F. convennero in giudizio la Società
per Azioni M. Italiana – S.A.M.I. per ottenere la condanna al risarcimento dei
danni derivati dalla morte di S.F.,
rispettivamente loro marito e padre, sia iure proprio che iure hereditatis.
Con intervento volontario si costituì l’INAIL,
esercitando azione di regresso nei confronti della convenuta società per le
somme erogate prima al F. e, poi, alle sue eredi, in conseguenza della malattia
professionale contratta dal lavoratore.
2. Il Tribunale adito, respinta, tra l’altro, l’eccezione
preliminare di nullità dell’intervento volontario dell’INAIL, accertò la
responsabilità di S.A.M.I. e l’esistenza del nesso causale tra l’attività
lavorativa (prestata da S.F. dal 22 agosto 1957 al 31 maggio 1987 con
esposizione alle polveri di amianto senza adozione di idonee misure protettive,
né di prevenzione, né adeguata informazione sui rischi specifici della
lavorazione) e la patologia contratta (manifestatasi con difficoltà
respiratorie nel maggio 2005 e diagnosticata come adenocarcinoma e poi
mesotelioma pleurico epiteliomorfo, esitata nel decesso del 26 marzo 2006).
Condannò, quindi, la datrice di lavoro al pagamento, a titolo risarcitorio,
delle seguenti somme: in favore delle congiunte € 9.852,40, iure hereditatis;
in favore di E.C. euro 223.760,35 e di R. F. euro 180.000,00, iure proprio;
euro 116.706,22, a titolo di regresso, in favore dell’Inail; il tutto oltre
accessori e spese.
3. Con sentenza in data 14 maggio 2013, la Corte di
Appello di Torino, in parziale riforma di detta pronuncia, ha condannato
S.A.M.I. al pagamento, in favore di E.C. e R.M.F., quali eredi, della maggior
somma di € 33.195,00, oltre interessi dalla pronuncia, escludendo la condanna
della società al pagamento della rivalutazione monetaria sulle somme di €
223.670,35 e di € 180.000,00 già liquidate dal primo giudice e su quella di €
116.706,22 dovuta all’Inail.
Preliminarmente ribadita la tempestività
dell’intervento volontario in giudizio dell’INAIL nel rispetto del termine
stabilito dall’art. 419 c.p.c. ed esclusa la
nullità della C.t.u. medico-legale, la Corte territoriale, nel merito, ha
confermato la sussistenza del nesso causale tra l’attività lavorativa prestata
dal de cuius e la patologia contratta, in assenza delle misure protettive, pur
all’epoca esigibili.
In ordine poi alla liquidazione del danno iure
hereditatis subito dalla moglie e dalla figlia del lavoratore deceduto, la
Corte torinese ha condiviso con il Tribunale l’inidoneità della quantificazione
secondo il criterio “tabellare milanese”, in ragione della
specificità di un danno non patrimoniale procurato da malattia culminata nella
morte, esigente una più appropriata personalizzazione, che ha individuato nel
riferimento alla misura massima erogabile dallo Stato a titolo di indennizzo
per la cd. “ingiusta detenzione”, pari a € 235,82 al giorno; somma
poi quadruplicata, in via equitativa, tenuto conto dell’irreversibile
privazione del “bene vita” e, successivamente, ancora moltiplicata
dalla Corte per la durata di undici mesi della malattia fino al decesso,
ottenendo la complessiva somma di € 297.000,00 (330 giorni x € 900,00), da cui
ha detratto quelle già liquidate nel corso del procedimento penale (pari a €
260.000,00) ovvero dall’INAIL (pari a € 3.805,37).
4. E.C. e R.M.F., nella qualità, hanno proposto
ricorso per cassazione con tre motivi, al fine di ottenere l’annullamento
parziale della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso il diritto
delle ricorrenti di vedersi conteggiare gli interessi sull’importo liquidato a
titolo di danno iure proprio; l’atto risulta notificato in data 20 novembre
2013 alla S.A.M.I. ed in data 10 gennaio 2014 all’INAIL; ad esso ha resistito
la società con controricorso.
Con distinto atto notificato il 13 novembre 2013 al
l’INAIL e il 21 novembre 2013 alle predette eredi (ad immediata rinnovazione
della notificazione inizialmente esperita il 13 novembre 2013 presso il
precedente indirizzo del difensore domiciliatario, dal quale trasferitosi),
pure la società ha proposto ricorso per cassazione con sei motivi; ad esso
hanno resistito reciprocamente le predette parti con controricorso.
5. Le eredi e l’INAIL comunicavano memoria ai sensi
dell’art. 378 c.p.c. in vista dell’udienza del
28 novembre 2018, in cui la causa è stata poi rinviata a nuovo ruolo,
“ritenuta la valenza nomofilattica della questione dedotta con il quinto
motivo di ricorso S.A.M.I. Spa concernente i criteri di accertamento dei
presupposti ai fini dell’esonero previsto dall’art. 10 D.P.R. n. 1124/65”.
Indi la causa è pervenuta all’udienza pubblica del
18 febbraio 2020, ove le parti hanno concluso come in epigrafe.
Ragioni della decisione
1. Per ragioni di pregiudizialità logico-giuridica deve
essere prioritariamente esaminato il ricorso della società, in quanto quello
delle eredi ha ad oggetto esclusivamente il calcolo degli interessi sugli
importi liquidati nella sentenza impugnata.
2. Con il primo motivo S.A.M.I. deduce violazione e
falsa applicazione degli artt. 101, 105, 415, 419, 420 c.p.c.,
24, secondo comma, Cost., in relazione ai
numeri 3 e 4 dell’art. 360 c.p.c., nonché
omessa motivazione su un fatto decisivo per il giudizio, a mente del n. 5 dello
stesso articolo, circa la tardività dell’intervento volontario dell’Inail e la
conseguente inammissibilità della domanda di regresso azionata dall’Istituto.
Il motivo non può trovare accoglimento.
2.1. Esso presenta preliminari profili di
inammissibilità sia perché lamenta impropriamente vizi di motivazione ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., che possono
riguardare i fatti della vicenda storica che ha dato origine alla controversia
e non certo i denunciati errores in procedendo in cui sarebbe incorsa
l’attività del giudice nel processo, sia per violazione della prescrizione di
specificità, prevista a pena di inammissibilità, dell’art. 366, comma 1, n. 6 c.p.c.
Come noto, infatti, anche per lerror in procedendo,
come tiene a precisare la sentenza di questa Corte a Sezioni unite n. 8077 del
2012, la proposizione del motivo di censura resta soggetta alle regole di
ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, nel senso che la
parte ha l’onere di rispettare il principio di specificità del ricorso e le
condizioni di procedibilità di esso (in conformità alle prescrizioni dettate
dall’art. 366, co. 1, n. 6 e 369, co. 2, n. 4, c.p.c.), “sicché l’esame
diretto degli atti che la Corte è chiamato a compiere è pur sempre circoscritto
a quegli atti ed a quei documenti che la parte abbia specificamente indicato ed
allegato”. Così, anche nel caso di errores in procedendo, si prospetta
preliminare ad ogni altra questione quella concernente l’ammissibilità del
motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che,
solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità, diventa
possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente
nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve
procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali
(cfr. Cass. n. 17523 del 2009; Cass. n. 4840 del
2006; Cass. n. 1221 del 2006; Cass. n. 18037 del 2014). La parte ricorrente
è tenuta, dunque, ad indicare gli elementi individuanti e caratterizzanti il
“fatto processuale” di cui richiede il riesame, affinché il
corrispondente motivo sia ammissibile e contenga tutte le precisazioni e i
riferimenti necessari a individuare la dedotta violazione processuale (cfr.
Cass. n. 6225 del 2005; Cass. n. 9734 del 2004). Nella specie parte istante nel
motivo non riporta i contenuti testuali degli atti processuali rilevanti, cui
essa ha fatto riferimento a fondamento della censura, (in particolare verbali
di udienza e ordinanze), così impedendo alla Corte, in limine litis, la
verifica diretta del vizio lamentato (v. Cass. n. 17915 del 2010, con principio
affermato ai sensi dell’art. 360 bis, n. 1, c.p.c.;
Cass. n. 13677 del 2012; Cass. n. 48 del 2014;
Cass. n. 14107 del 2017).
2.2. Inoltre la Corte di Appello, constatato che
l’intervento volontario dell’Inail era avvenuto nei termini e che la mancata
notificazione alla società della comparsa di intervento era dovuta ad una
mancanza della cancelleria, ha ritenuto sanato il vizio procedurale dalla
notificazione, disposta dal primo giudice, di detto atto per una udienza successiva,
“con congruo termine alla convenuta per replicare all’intervento del
terzo”; ha pertanto escluso che si fosse consumata qualsiasi lesione del
diritto di difesa.
Rispetto a tale assunto la ricorrente genericamente
eccepisce che il primo giudice non avrebbe esaminato le istanze istruttorie
formulate in via subordinata dalla società con “memoria difensiva
depositata in data 11/2/2011”, senza riportare i contenuti di detta
memoria e, sopra tutto, le richieste istruttorie articolate, precludendo a
questa Corte la possibilità di apprezzarne la decisività ai fini della pretesa
lesione del diritto di difesa.
Vale rammentare che per costituire motivo idoneo di
ricorso per cassazione, il vizio processuale deve necessariamente influire, in
modo determinante, sulla sentenza impugnata, nel senso della necessità che la
pronuncia stessa – in assenza del vizio denunciato – non sarebbe stata resa nel
senso in cui lo è stata (v. per tutte: Cass. n. 22978 del 2015); infatti la
lesione delle norme processuali non è invocabile in sé e per sé, essendo
viceversa sempre necessario che la parte che deduce siffatta violazione adduca
anche, a dimostrazione della fondatezza, la sussistenza di un effettivo
pregiudizio conseguente alla violazione medesima (Cass. SS.UU. n. 3758 del 2009),
poiché alla radice di ogni impugnazione deve essere individuato in interesse
giuridicamente tutelato, identificabile nella possibilità di conseguire una
concreta utilità o un risultato giuridicamente apprezzabile, attraverso la
rimozione della statuizione censurata, e non già un mero interesse astratto ad
una più corretta soluzione di una questione giuridica non avente riflessi
effettivi sulla soluzione adottata (Cass. n. 18074 del 2014; Cass. n. 7394 del
2008; Cass. n. 13091 del 2003). Pertanto sovente si trova dichiarato che dai
principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di
interesse ad agire si desume quello per cui la denunzia di vizi dell’attività
del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, ai
sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), non
tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce soltanto
l’eliminazione del pregiudizio del diritto di difesa concretamente subito dalla
parte che denuncia il vizio (v., per tutte, Cass. n. 26157 del 2014).
3. Con il secondo motivo la società denuncia
violazione e falsa applicazione degli artt. 101,
159, 194, 201 c.p.c., 90, 91 disp. att. c.p.c., 24,
secondo comma, Cost., “in relazione all’art.
360, comma 1, nn. 4 e 5 c.p.c.”, lamentando che la Corte territoriale
non si sarebbe pronunciata sulla eccezione di nullità della CTU di primo grado;
nullità asseritamente dovuta alla mancata partecipazione delle parti
all’accesso e all’esame della documentazione acquisita “presso l’Ufficio
del Pubblico Ministero e lo Spresal della ASL Torino 1”.
In disparte i profili di inammissibilità derivanti
dalla mancata trascrizione degli atti processuali posti a fondamento del
motivo, in particolare la consulenza tecnica e la documentazione acquisita
(cfr. Cass. n. 15628 del 2009; Cass. n. 2966 del 2011; Cass. n. 26174 del 2014;
Cass. n. 19048 del 2016), la doglianza non ha pregio perché non vi è stata
alcuna omissione di pronuncia, atteso l’implicito, ma chiaro, rigetto
dell’eccezione di nullità (Cass. n. 5351 del 2007; Cass.
n. 29191 del 2017; Cass. n. 20718 del 2018) sulla base delle ragioni
esposte dal primo capoverso di pag. 16 della sentenza impugnata (in cui
esplicitamente si afferma che “in relazione a tali atti e documenti non
può essere ipotizzata alcuna irregolarità o violazione di norme
processuali”) fino all’ultimo capoverso di pag. 17 della sentenza (in cui
si osserva: “Il consulente di parte appellante non ha sollevato particolari
rilievi in merito alla documentazione utilizzata dal c.t.u. … ben avrebbe
potuto, nel corso delle operazioni peritali, chiedere al c.t.u. stesso di
acquisire altri atti … dal fascicolo del P.M. …”).
Inoltre il mancato esame, da parte del giudice di
merito, di una questione puramente processuale non può dar luogo ad omissione
di pronuncia, configurandosi quest’ultima nella sola ipotesi di mancato esame
di domande o eccezioni di merito (per tutte v. Cass. n. 22592 del 2015 con la
giurisprudenza ivi richiamata; cfr. Cass. ord. n. 321 del 2016; conf. Cass. n.
25154 del 2018), mentre, anche in questo caso, la società si duole della mera
lesione di norme processuali attinenti all’espletamento della consulenza
tecnica, vizio che, per quanto già detto, non è invocabile in sé e per sé,
essendo viceversa sempre necessario che la parte che eccepisce siffatta
violazione adduca anche, a dimostrazione della fondatezza, la sussistenza di un
effettivo pregiudizio conseguente alla violazione medesima, nella specie
prospettato solo come potenziale.
4. Con il terzo motivo S.A.M.I. deduce omesso esame
di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, quale la non considerata
rilevanza della concentrazione di fibre di amianto aerodisperse e inalabili,
con conseguente erronea valutazione di sufficienza della prova sulla
provenienza del fattore morbigeno.
La censura è inammissibile.
Con essa non si deduce un “fatto storico”
che non sia stato esaminato, quanto piuttosto si contesta una valutazione
probatoria, insindacabile in sede di legittimità, tanto più nel vigore del
novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.,
applicabile ratione temporis, così come rigorosamente interpretato dalle
Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn.
8053 e 8054 del 2014 (con principi costantemente ribaditi dalle stesse
Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre
che dalle Sezioni semplici).
5. Con il quarto mezzo la società deduce violazione
e falsa applicazione degli artt. 2087, 2697 c.c., 40, 41 c.p., per la mancata specificazione in sentenza
delle “disposizioni di legge e (del)le norme di comportamento la cui
violazione e la cui omissione possa fondare il giudizio di responsabilità”
della datrice di lavoro; si eccepisce che graverebbe sul lavoratore l’onere di
“indicare quali siano le cautele imposte da una norma di legge o anche
solo di esperienza o suggerite dalla buona tecnica che siano state
disattese”.
La critica non può essere condivisa.
Univoco è l’insegnamento di questa Corte secondo il
quale incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività
lavorativa svolta, un danno, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come
pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso di causalità tra
l’una e l’altra, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato
tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.
In particolare, nel caso in cui si discorra di
misure di sicurezza cosiddette “innominate”, ex art.
2087 c.c., la prova liberatoria a carico del datore di lavoro risulta
generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza
ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza,
imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di
comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o
altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche,
dagli standard di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in
altre fonti analoghe (v. Cass. n. 12445 del 2006;
Cass. n. 3033 del 2012; Cass. n. 15082 del 2014; Cass. n. 4084 del 2018; Cass.
n. 27964 del 2018; Cass. n. 10319 del 2019;). Secondo talune decisioni, poi, si
nega che il lavoratore debba specificamente indicare le misure che avrebbero
dovuto essere adottate in prevenzione (Cass. n.
3788 del 2009; Cass. n. 21590 del 2008;
Cass. n. 9856 del 2002; Cass. n. 1886 del 2000;
Cass. n. 3234 del 1999).
Nella specie, la Corte territoriale ha accertato che
la società aveva posto a disposizione dei lavoratori, presso il reparto ZH cui
era addetto quello deceduto, “maschere di carta … nemmeno utilizzate
sempre” e dotato i locali di impianti di aspirazione inadeguati per la
collocazione “ad altezza di circa tre metri, quindi sopra il livello del
naso degli operatori … accorgimenti di massima inutili per tutelare da una
inalazione non elevata e costante ma pienamente idonea a sufficiente a causare
danni alla salute” (cosi al primo capoverso di pag. 31 della sentenza);
senza avere pertanto provveduto a quelle misure protettive specifiche, già
esigibili in base alla normativa degli anni ’50 (così all’ultimo capoverso di
pag. 25 della sentenza).
Si tratta, evidentemente, di apprezzamenti di merito
che non possono essere oggetto di rivalutazione in questa sede di legittimità.
6. Il quinto motivo denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 2043, 2697 c.c., 10 e 11 D.P.R. n. 1124/1965,
per erronea esclusione dell’esonero dalla responsabilità civile datoriale nei
confronti degli eredi del lavoratore deceduto e dell’INAIL che ha agito in
regresso, pur in assenza del presupposto che sarebbe costituito esclusivamente
dalla “condanna penale per il fatto dal quale l’infortunio” (o la
malattia professionale) “è derivato”, da intendere anche come accertamento
di responsabilità in sede civile, ma secondo i principi e le regole proprie del
processo penale: con la prova, a carico della parte danneggiata, del fatto
lesivo, del danno, del nesso causale e della colpa (e pertanto dell’esistenza
del reato in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi) e non già, secondo
presunzioni o inversioni dell’onere probatorio, come invece ritenuto dalla
Corte territoriale nel detto accertamento.
Il motivo centra la questione dei criteri di
accertamento della responsabilità del datore di lavoro in caso di azione del
lavoratore proposta per il risarcimento del danno cd. “differenziale”
derivante da infortunio o malattia professionale e, per connessione,
nell’ipotesi di azione di regresso esercitata dall’INAIL.
6.1. Alla tesi – richiamata dal motivo di ricorso –
di chi sostiene che il giudice civile, in tali casi, deve porsi come il giudice
penale, adottando gli stessi criteri di giudizio e la stessa metodologia di
controllo, allo scopo di non svuotare di contenuto la regola dell’esonero che
libera il datore che paga i premi, si oppone chi, con argomentazioni ispirate
agli articoli 32 e 38
della Costituzione, sostiene che nel giudizio civile operino le regole di
accertamento previste innanzitutto dagli artt. 1218
e 2087 c.c., dichiarando così superato il
modello della transazione sociale, che ha storicamente dato vita agli artt. 10 e 11 del D.P.R. n. 1124
del 1965, in favore di una logica in cui il pagamento del premio
costituisce la forma di finanziamento di una tutela previdenziale.
La disputa non è solo dottrinale ma è destinata a
produrre effetti concreti sul piano degli esiti delle controversie, laddove i
canoni cognitivi e valutativi per l’accertamento nelle rispettive aree di
responsabilità palesino la distanza maggiore tra l’ambito penale e quello
civile.
Un primo campo è quello del riparto degli oneri probatori
in tema di accertamento della colpa, ove nel giudizio penale l’accusa è tenuta
a dimostrare l’elemento soggettivo in concreto e in positivo, con rischio a
proprio carico nel caso di insufficienza del quadro probatorio, mentre per la
responsabilità civile contrattuale opera il meccanismo dell’inversione
dell’onere probatorio di cui all’art. 1218 c.c.,
gravando sull’autore del danno il peso della prova liberatoria.
Ancora più marcata la distanza in fase di
accertamento del nesso causale, ove l’art. 533 del
codice di rito penale impone che il rapporto di causalità tra la condotta e
l’evento debba essere stabilita, a carico dell’accusa pubblica, “al di là
di ogni ragionevole dubbio” (cfr. Cass. SS.UU. pen. n. 30328 del 2002;
Cass. SS.UU. pen. n. 38343 del 2014; Cass. SS.UU. pen. n. 33749 del 2017),
mentre la regola nei giudizi civili è quella “del più probabile che
non” (tra varie, Cass. SS.UU. n. 576 del 2008; Cass. SS.UU. n. 23197 del
2018), con conseguenze di rilievo soprattutto nel caso di malattie o infortuni
determinati da condotte omissive.
6.2. La questione posta dal motivo in esame trova
parziale riscontro in taluni precedenti di questa Corte, principalmente sul
tema del riparto degli oneri probatori.
Dopo alcune decisioni rese, però, in casi di danni
non coperti dall’assicurazione obbligatoria (Cass. n. 4184 del 2006; Cass. n.
8386 del 2006), con la sentenza n. 9817 del 2008 si è esplicitamente affermato
che “il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno differenziale
da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell’art. 1218 c.c. sull’inadempimento delle
obbligazioni … ne consegue che il lavoratore deve allegare e provare l’esistenza
dell’obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la
prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da
causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di
sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno” (analogamente
v. Cass. n. 21590 del 2008; Cass. n. 15078 del
2009).
Nella successiva sentenza
n. 10529 del 2008 si è proposta poi la piena equiparazione del regime
probatorio dell’azione di danno avanzata dal lavoratore ex art. 2087 c.c. e del regresso azionato dall’INAIL
ex artt. 10 e 11 DPR n. 1124
del 1965, entrambi nei confronti dell’imprenditore ritenuto responsabile,
affermando che il riparto degli oneri probatori “si pone negli stessi
termini che nell’art. 1218 c.c.
sull’inadempimento delle obbligazioni”.
L’equiparazione è invece negata da Cass. n. 15715 del 2012, argomentando che, mentre
la domanda proposta dal lavoratore nei confronti del datore ha il proprio
fondamento nel contratto di lavoro, con l’azione di regresso l’INAIL fa valere
un diritto nascente direttamente dal rapporto assicurativo, sicché solo per il
lavoratore è sufficiente che dimostri il danno e la sua riconducibilità al
titolo negoziale e si limiti ad allegare l’inadempimento datoriale, spettando
all’imprenditore l’onere della prova della causa non imputabile, mentre
“in tema di azione di regresso grava, invece, sull’INAIL l’onere di
allegare e provare il fatto-reato, nei suoi elementi costitutivi”.
Nella giurisprudenza successiva frequenti sono i
meri richiami alle regole probatorie di cui all’art.
1218 c.c., ritenute applicabili sia alla domanda di danno differenziale
proposta dal lavoratore (tra le altre, ad ex., Cass. n. 29041 del 2018; Cass.
n. 26995 del 2018; Cass. n. 27669 del 2017; Cass. n. 4970 del 2017; Cass. n. 21882 del 2016), sia a quella
dell’Istituto assicuratore in via di regresso (tra le altre, ad ex., Cass. n. 21563 del 2018; Cass. n. 5385 del 2018; Cass. n. 22714 del 2017; Cass. n. 12561 del 2017; Cass. n. 2138 del 2015).
Più esplicita, di recente, Cass. n. 26497 del 2018,
la quale, avallando una pronuncia di merito che aveva accolto la domanda di
regresso dell’INAIL applicando la ripartizione dell’onere della prova secondo
il regime contrattuale degli art. 1218 e 2087 c.c., ha confermato che “una volta
allegato che l’infortunio sia avvenuto nel corso del lavoro e nell’ambiente del
lavoro, sull’INAIL che agisce in regresso, o in ipotesi sul lavoratore che
agisce per differenziale – ferma l’allegazione della illiceità penale del fatto
– incombe soltanto la prova del nesso causale tra infortunio e fatto, secondo
lo schema della responsabilità contrattuale ex art.
1218 c.c.”.
Il descritto percorso giurisprudenziale rende
opportuno un riesame dell’intera questione, sollecitato dallo specifico motivo
di impugnazione che mette in discussione la sentenza della Corte di Appello la
quale, secondo criteri di giudizio civilistici, ha affermato la responsabilità
della società sia nei confronti del lavoratore che nei confronti dell’INAIL.
6.3. Tale esame deve essere preceduto dalla
condivisione di alcuni principi, affermati anche di recente da questa Corte, in
tema di reciproca interferenza delle regole che presiedono il sistema di
assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie
professionali con le azioni di risarcimento del danno promosse dal lavoratore
colpito da eventi cagionati dall’espletamento dell’attività lavorativa.
Principi che costituiscono oramai ius receptum e
vanno qui solo richiamati e ribaditi, quali premesse indispensabili ai fini
dello sviluppo argomentativo che seguirà.
6.3.1. Ai sensi dell’art. 10, comma 1, D.P.R. n. 1124
del 1965, l’assicurazione obbligatoria prevista dal decreto citato esonera
il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro e
le malattie professionali, nell’ambito dei rischi coperti dall’assicurazione,
con i suoi limiti oggettivi e soggettivi, per cui laddove la copertura
assicurativa non interviene per mancanza di presupposti, l’esonero non opera;
in tali casi, per il risarcimento dei danni convenzionalmente definiti
“complementari”, vigono le regole generali del diritto comune
previste in caso di inadempimento contrattuale (principio ribadito da questa
Corte, sulla scorta di Corte cost. n. 356 del 1991,
più volte: Cass. n. 1114 del 2002; Cass. n. 16250 del 2003; Cass. n. 8386 del
2006; Cass. n. 10834 del 2010; Cass. n. 9166
del 2017).
6.3.2. L’esonero del datore di lavoro non opera
anche quando ricorre il meccanismo previsto dai commi dell’art. 10 citato successivi al
primo, allorquando venga accertato che i fatti da cui deriva l’infortunio o la
malattia “costituiscano reato sotto il profilo dell’elemento soggettivo e
oggettivo” (così Corte cost. n. 102 del 1981),
per cui la responsabilità permane “per la parte che eccede le indennità
liquidate” dall’INAIL ed il risarcimento “è dovuto” dal datore
di lavoro. Di qui la nozione di danno cd. “differenziale”, inteso
come quella parte di risarcimento che eccede l’importo dell’indennizzo coperto
dall’assicurazione obbligatoria e che resta a carico del datore di lavoro ove
il fatto sia riconducibile ad un reato perseguibile d’ufficio; parallelamente
l’art. 11 del D.P.R. n. 1124
del 1965, nella ricorrenza del medesimo presupposto, consente all’INAIL di
agire in regresso nei confronti del datore di lavoro “per le somme pagate
a titolo di indennità” (cfr. Cass. n. 9166 del 2017).
6.3.3. E’ escluso “che le prestazioni
eventualmente erogate dall’INAIL esauriscano di per sé e a priori il ristoro
del danno patito dal lavoratore infortunato od ammalato” (principio
affermato a partire da Cass. n. 777 del 2015, con molte successive conformi,
tra cui: Cass. n. 13689 del 2015; Cass. n. 3074
del 2016; Cass. n. 9112 del 2019).
6.3.4. Con la conseguenza che il lavoratore potrà
richiedere al datore di lavoro il risarcimento del danno cd. “differenziale”,
allegando in fatto circostanze che possano integrare gli estremi di un reato
perseguibile d’ufficio, ed il giudice, accertata in via incidentale autonoma
l’illecito di rilievo penale, potrà liquidare la somma dovuta dal datore,
detraendo dal complessivo valore monetario del danno civilistico, calcolato
secondo i criteri comuni, quanto indennizzabile dall’INAIL, con una operazione
di scomputo che deve essere effettuata ex officio ed anche se l’Istituto non
abbia in concreto provveduto all’indennizzo (Cass. n. 9166 del 2017; successive
conformi: Cass. n. 13819 del 2017; Cass. n.
20932 del 2018).
6.3.5. Il giudice di merito, dopo aver calcolato il
danno civilistico, deve procedere alla comparazione di tale danno con l’indennizzo
erogato dall’Inail secondo il criterio delle poste omogenee, tenendo presente
che detto indennizzo, oltre al danno patrimoniale, ristora unicamente il danno
biologico permanente e non gli altri pregiudizi che compongono la nozione pur
unitaria di danno non patrimoniale (Cass. n. 1322
del 2015; Cass. n. 20807 del 2016). Pertanto, occorre dapprima distinguere
il danno non patrimoniale dal danno patrimoniale, comparando quest’ultimo alla
quota Inail rapportata alla retribuzione e alla capacità lavorativa specifica
dell’assicurato; successivamente, con riferimento al danno non patrimoniale,
dall’importo liquidato a titolo di danno civilistico vanno espunte le voci
escluse dalla copertura assicurativa (danno morale e danno biologico
temporaneo) per poi detrarre dall’importo così ricavato il valore capitale
della sola quota della rendita Inail destinata a ristorare il danno biologico
permanente (Cass. n. 9112 del 2019; v. pure
Cass. n. 8580 del 2019, secondo cui le modifiche dell’art. 10 del D.P.R. n. 1124 del
1965, introdotte dall’art.
1, comma 1126, della legge n. 145 del 2018, non possono trovare
applicazione in riferimento agli infortuni sul lavoro verificatisi e alle
malattie professionali denunciate prima dell’1.1.2019, data di entrata in
vigore della citata legge finanziaria).
6.4. Tanto premesso, occorre partire dal dato
normativo così come scritto al momento dell’emanazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, onde poi esaminare i
mutamenti intervenuti nel corso del tempo.
6.4.1. L’art. 10 del decreto citato, dopo aver
stabilito al primo comma il regime dell’esonero, al secondo comma statuisce:
“Nonostante l’assicurazione predetta permane la responsabilità civile a
carico di coloro che abbiano riportato condanna penale per il fatto dal quale
l’infortunio è derivato”.
Per i commi successivi la “sentenza penale”
faceva permanere la responsabilità civile del datore di lavoro, nel caso in cui
si accertasse che l’infortunio era avvenuto “per fatto imputabile a coloro
che egli ha incaricato della direzione o sorveglianza del lavoro, se del fatto
di essi debba rispondere secondo il Codice civile” (comma 3), e, nel caso
fosse stata pronunciata sentenza di non doversi procedere per morte
dell’imputato o per amnistia, il “giudice civile”, adito dagli
interessati entro tre anni dalla sentenza penale, era chiamato a decidere se,
“per il fatto che avrebbe costituito reato”, sussistesse la
responsabilità civile (comma 5).
Un sistema, dunque, ancorato al principio della
prevalenza e della pregiudizialità del giudizio penale, per cui la permanenza
della responsabilità civile del datore di lavoro era condizionata
dall’esistenza di una “condanna penale” e solo ove il giudizio penale
fosse culminato in una sentenza di non doversi procedere il giudice civile
poteva successivamente accertare la responsabilità civile del datore o di
taluni dei suoi preposti.
6.4.2. Il meccanismo riproduceva quello previsto dai
previgenti artt. 4 e 5 del r.d. n. 1765 del 1935 e ne ribadiva la ratio, legata
alla logica della “transazione sociale” secondo la quale
l’imprenditore che pagava il premio conquistava in cambio l’esonero dalla
responsabilità civile per i danni cagionati ai lavoratori nell’esercizio
dell’attività, venendo sollevato dal suo rischio professionale, salvo che non
fosse penalmente condannato.
6.4.3. Alfine va ricordato che, all’epoca,
l’assicurazione obbligatoria era deputata ad indennizzare soltanto il danno
patrimoniale subito dal lavoratore e la rendita era commisurata alla perdita o
alla riduzione della capacità lavorativa generica e, quindi, ristorava un danno
di natura patrimoniale parametrato alla dimensione reddituale del lavoratore,
sia pure assumendo un canone – la capacità lavorativa dell’uomo medio –
suscettibile di attrarre valori non strettamente patrimoniali. Restava dunque
esclusa dalla copertura assicurativa la voce fondamentale del danno alla
persona, costituita dal danno biologico di natura a-reddituale, che era
annoverabile, invece, tra i danni cd. “complementari”, per i quali
vigevano (e vigono) le regole generali del diritto civile previste in caso di inadempimento
contrattuale.
6.5. Nessuno degli aspetti descritti è rimasto
immutato.
6.5.1. La Corte costituzionale è intervenuta più
volte sulla disciplina in esame.
Con una prima sentenza (la n. 22 del 1967), pur ritenendo conforme a Costituzione
il meccanismo dell’esonero, ha esteso la responsabilità del datore di lavoro,
prima limitata agli eventi derivati da fatto imputabile ai soli incaricati
della direzione o della sorveglianza dei lavoratori, anche a quelli commessi da
qualunque altro dipendente di cui dovesse rispondere ex art. 2049 c.c.; contestualmente la Corte delle
leggi ha dichiarato l’incostituzionalità del quinto comma dell’art. 10, nella parte in cui
consentiva al giudice civile di accertare incidentalmente il fatto-reato
soltanto nell’ipotesi di estinzione dell’azione penale per morte dell’imputato
e per amnistia, e non anche per prescrizione del reato.
Con successive pronunce, unitamente a modifiche
normative, si è sostanzialmente decretata la fine della pregiudizialità penale.
Con la sentenza n. 102
del 1981 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale del comma quinto dell’art. 10 cit., “nella
parte in cui non consente che, ai fini dell’esercizio del diritto di regresso
dell’INAIL, l’accertamento del fatto reato possa essere compiuto dal giudice
civile anche nei casi in cui il procedimento penale nei confronti del datore di
lavoro o di un suo dipendente si sia concluso con proscioglimento in sede
istruttoria o vi sia provvedimento di archiviazione”; inoltre ha
dichiarato illegittime le norme impugnate, “nella parte in cui precludono
al giudice civile di valutare i fatti dinanzi a lui dedotti in maniera diversa
da quella ritenuta in sede penale, anche nei confronti del datore di lavoro che
non sia stato posto in condizioni di partecipare al relativo
procedimento”. La sentenza n. 118 del 1986
ha esteso la declaratoria di illegittimità in favore dell’infortunato nel caso
in cui il procedimento penale, nei confronti del datore di lavoro o di un suo
dipendente, si sia concluso con un provvedimento di archiviazione o
proscioglimento in sede istruttoria.
Con la sentenza n. 372
del 1988 la Corte costituzionale ha poi precisato che pure il diritto di
regresso dell’INAIL prescinde “dalla sorte contingente del procedimento
pénale” ed anche in sede di legittimità è pacifico che l’Istituto non
debba necessariamente attendere l’instaurazione o l’esito del giudizio penale
(Cass. n. 9601 del 2001; Cass. n. 5578 del 2003).
Infine, il nuovo codice di procedura penale ha
ripudiato il principio di unità della giurisdizione e di prevalenza del
giudizio penale, in favore di quello della parità e originarietà dei diversi
ordini giurisdizionali e dell’autonomia dei giudizi (tra varie, Cass. SS.UU. n.
1445 del 1998 e Cass. SS.UU. n. 1768 del 2011) e la novellazione dell’art. 295 c.p.c., introdotta dall’art. 35 della I. n. 353 del 1990,
ha limitato i casi di sospensione necessaria alle ipotesi previste dall’art. 75, co. 3, c.p.p., da interpretarsi
restrittivamente stante “il favore per la separazione dei giudizi (che)
comporta l’accettazione del rischio di difformità dei giudicati ai quali i
giudizi separati conducano” (così Cass. SS. UU. n. 13661 del 2019).
In definitiva, l’attuale sistema si caratterizza per
la pressoché completa autonomia e separazione tra giudizio penale e giudizio
civile, per cui quest’ultimo inizia e procede senza essere condizionato dal
primo.
Pertanto la “condanna penale”, che sta
ancora scritta nella formulazione del secondo comma dell’art. 10 del D.P.R. n. 1124 del
1965, ha perduto del tutto la sua valenza prescrittiva, non solo perché
surrogata dall’accertamento, in sede civile, del fatto che costituisce reato,
ma anche perché non assolve più all’originaria funzione per cui era stata
concepita, che era quella di disciplinare i rapporti di un pregiudiziale e
prevalente procedimento penale rispetto ad un eventuale giudizio civile.
6.5.2. Con tre sentenze
del 1991 (nn. 87, 356 e 485), la Corte costituzionale è stata chiamata a
misurarsi anche con la questione dei rapporti tra sistema assicurativo e
risarcibilità del danno biologico.
Ha premesso che “l’esclusione (ndr. all’epoca)
dell’intervento pubblico per la riparazione del danno alla salute patito dal
lavoratore in conseguenza di eventi connessi alla propria attività lavorativa
non può dirsi in sintonia con la garanzia della salute come diritto
fondamentale dell’individuo e interesse della collettività (art. 32 Cost.) e, ad un tempo, con la tutela
privilegiata che la Carta costituzionale riconosce al lavoro come valore
fondante della nostra forma di Stato (artt. 1,
primo comma, 4, 35
e 38 Cost.), nel quadro dei più generali
principi di solidarietà (art. 2 Cost.) e di
eguaglianza, anche sostanziale (art. 3 Cost.)”
(Corte cost. n. 87 del 1991).
Ha osservato che “se l’istituto dell’esonero
del datore di lavoro dalla responsabilità civile, previsto dal primo comma
dello art. 10 in esame,
riguardasse anche il risarcimento del danno biologico non riducibile a perdita
o riduzione della capacità lavorativa, si porrebbe effettivamente un problema
di costituzionalità della norma impugnata con riferimento all’art. 32 della Costituzione”. A supporto ha
argomentato che “la menomazione dell’integrità psico-fisica del soggetto
offeso costituisce quindi danno integralmente risarcibile di per sé stesso.
L’autonomia del danno biologico rispetto alle altre ed eventuali conseguenze
dannose di esso ed il principio costituzionale della sua integrale e non
limitabile risarcibilità determinano l’impossibilità di considerare esauriente
non soltanto una tutela risarcitoria limitata alle perdite o riduzioni di
reddito, effettive o potenziali, conseguenti alla menomazione dell’integrità
psico-fisica, ma anche una tutela risarcitoria che prenda in considerazione
soltanto quanto riguarda l’attitudine a svolgere attività produttive di
reddito”. Ha respinto, quindi, il dubbio manifestato dal giudice
remittente sul punto, affermando che la esclusione, a quel tempo, del danno
biologico da una effettiva copertura assicurativa, rendeva inapplicabile la
disciplina speciale prevista dal primo comma dell’art. 10 del D.P.R. n. 1124 del
1965 (Corte cost. n. 356 del 1991, con
argomenti poi ripresi dalla sentenza della stessa
Corte n. 485 del 1991).
Le pronunce poi rivolgevano al legislatore un chiaro
invito ad un intervento diretto alla riforma del sistema assicurativo idonea ad
apprestare una piena ed integrale garanzia assicurativa rispetto al danno
biologico derivante da infortunio sul lavoro o da malattia professionale.
Invito raccolto dal legislatore che, con l’art. 13 del d. Igs. n. 38 del 2000,
ha esteso la tutela INAIL al danno biologico definito come “la lesione
dell’integrità psico-fisica, suscettibile di valutazione medico-legale, della
persona”.
Pertanto, se la disciplina dell’esonero venne
ritenuta conforme a Costituzione ancorché escludesse la tutela del danno
biologico, affidata all’integrale risarcimento attuato secondo i criteri
civilistici da parte del datore di lavoro, occorre verificare se l’attrazione
di tale danno nell’ambito della copertura assicurativa renda compatibili regole
di ingaggio di tipo penalistico – per quanto riguarda il ristoro del danno
“differenziale” – con gli enunciati richiamati Corte costituzionale,
volti chiaramente ad assicurare una maggiore tutela del diritto alla salute del
lavoratore e non, piuttosto, ad offrire una garanzia minore.
6.5.3. Infine è opinione comune che l’attuale
sistema gestito dall’INAIL ha oramai abbandonato la logica originaria della
“transazione sociale”, legata alla corrispettività tra contributi ed
esonero, in favore di una funzione di socializzazione del rischio e di tutela
previdenziale imposta dall’art. 38 Cost.
Taluno in dottrina ravvisa che, in tale mutato
scenario, l’esonero non costituisce più una regola cardine, bensì un elemento
tendenzialmente recessivo rispetto all’esigenza prioritaria di assicurare alla
vittima dell’infortunio, per i profili non coperti da indennizzo, una integrale
riparazione del danno alla persona.
Anche questa Corte, di recente (Cass. n. 5066 del 2018), ha affermato che il
fondamento della tutela assicurativa, ai sensi dell’art.
38 Cost., “deve essere ricercato, non tanto nella nozione di rischio
assicurato o di traslazione del rischio, ma nella protezione del bisogno a
favore del lavoratore, considerato in quanto persona; dato che la tutela dell’art. 38 non ha per oggetto l’eventualità che
l’infortunio si verifichi, ma l’infortunio in sé”; ha dunque negato
“che il premio assicurativo abbia la funzione di delimitare la tutela
assicurativa a rischi precisamente individuati in base alle tabelle; assolvendo
invece la precipua funzione di provvedere al finanziamento del sistema”.
Tanto sulla scorta di quanto sostenuto anche dalla
Corte costituzionale, secondo cui “l’oggetto della tutela dell’art. 38 non è il rischio di infortuni o di
malattia professionale, bensì questi eventi in quanto incidenti sulla capacità
di lavoro e collegati da un nesso causale con attività tipicamente valutata
dalla legge come meritevole di tutela”; inoltre “il distacco
dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro dal concetto
statistico assicurativo di rischio, al quale era originariamente legata, è
sollecitata da un’interpretazione dell’articolo 38, secondo comma, coordinata
con l’articolo 32 della Costituzione allo scopo
di garantire con la massima efficacia la tutela fisica e sanitaria dei
lavoratori” (Corte cost. n. 100 del 1991).
6.5.4. Conclusivamente sul punto, deve affermarsi
che l’interpretazione della disciplina di diritto positivo, una volta
modificato radicalmente il contesto in cui essa ha preso vita, con un mutamento
sia dal punto di vista dei riferimenti legislativi sia della ratio complessiva
della normativa, va condotta al fine di rendere coerente l’esegesi con il
diverso assetto del sistema e con l’orizzonte di senso definito dai principi
della Costituzione.
6.6. Vanno pertanto indicati i plurimi argomenti,
tra loro reciprocamente concorrenti, che inducono questa Corte a privilegiare
la tesi secondo cui, in caso di azione del lavoratore proposta per il
risarcimento del danno cd. “differenziale” derivante da infortunio o
malattia professionale e, per connessione, nell’ipotesi di azione di regresso
esercitata dall’INAIL, la responsabilità del datore di lavoro debba essere
accertata con criteri di giudizio di tipo civilistico.
6.6.1. Le Sezioni unite civili (sent. n. 27337 del
2008) hanno affrontato la questione dell’interpretazione dell’art. 2947 c.c., comma 3, che rende applicabile una
disciplina della prescrizione derogatoria rispetto a quella dei primi due commi
dell’articolo citato laddove il “fatto (sia) considerato dalla legge come
reato”.
Secondo la Corte l’inciso così scritto
“significa che il fatto deve avere gli elementi sostanziali soggettivi ed
oggettivi del reato, astrattamente previsto”, ma non postula che sia
procedibile ovvero che si sia proceduto penalmente.
Riesaminata la “ratio ispiratrice della
particolare disciplina dell’art. 2947 c.c. …
alla luce della mutata fisionomia del sistema processualpenalistico” e,
quindi, dei “modificati rapporti tra azione civile ed azione penale”,
in sentenza si rileva che quella originaria risultava “espressione
dell’humus culturale che permeava la legiferazione del tempo,
incontrovertibilmente ispirata al primato della giurisdizione penale su quella
civile, e dunque alla priorità riconosciuta all’accertamento del fatto in
ambito penalistico”, e che “i principi cardini dell’ordinamento
all’epoca vigente erano quelli dell’unitarietà della funzione giurisdizionale e
della prevalenza della giurisdizione penale su quella civile, per evitare, nel
superiore interesse della certezza del diritto, la possibilità di giudicati
contraddittori”, con la conseguente “tendenza a spostare in sede
penale l’accertamento del fatto che fosse anche fonte di responsabilità
civile”.
Le Sezioni unite constatano poi che dalla disciplina
del nuovo codice di procedura penale si ricava come il nostro ordinamento non è
più ispirato al principio dell’unitarietà della giurisdizione ma “a quello
dell’autonomia di ciascun processo e della piena cognizione, da parte di ogni
Giudice, delle questioni giuridiche e di accertamento dei fatti rilevanti ai
fini della propria decisione”, conseguendo che “attualmente
costituisce punto fermo che il Giudice civile si può avvalere nell’ambito dei
suoi accertamenti in merito all’esistenza del fatto considerato come reato, di
tutte le prove che il rito civile prevede”.
Si rammenta la giurisprudenza secondo cui “ai
fini della risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 e 185 c.p.,
non osta il mancato positivo accertamento dell’autore del danno se essa (ndr.
responsabilità) debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge
(come l’art. 2054 c.c.) e se, ricorrendo la
colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato”, per cui “una volta
affermata l’autonomia tra il giudizio civile e quello penale, il Giudice civile
deve accertare la fattispecie costitutiva della responsabilità aquiliana, posta
al suo esame, con i mezzi suoi propri e, quindi, con i mezzi di prova offerti
al Giudice dal rito civile per la sua decisione. Tra questi mezzi non solo vi è
la presunzione, legale o non, ma addirittura vi sono le c.d. <<prove
legali>>, in cui la legge deroga al principio del libero convincimento
del Giudice”.
L’insegnamento ha avuto largo seguito nella
giurisprudenza di questa Corte (ex multis: Cass. n. 24988 del 2014; Cass. n.
12938 del 2016; Cass. n. 2350 del 2018) e, di recente, è stato ribadito anche
dalle Sezioni Unite che si sono trovate ad affrontare i casi di sospensione
necessaria previsti dall’art. 75, comma 3, c.p.p.,
affermando che “la separazione e l’autonomia dei giudizi comportano che il
giudizio civile sia disciplinato dalle sole regole sue proprie, che largamente
si differenziano da quelle del processo penale, non soltanto sotto il profilo
probatorio, ma anche, in via d’esempio, con riguardo alla ricostruzione del nesso
di causalità, che risponde, nel processo penale, al canone della ragionevole
certezza e, in quello civile, alla regola del più probabile che non”
(Cass. SS.UU. n. 13661 del 2019).
Anche la Corte costituzionale (sent. n. 233 del
2003) ha avuto modo di affermare, con riguardo al testuale “riferimento al
creato contenuto nell’art. 185 cod. pen.”,
proprio in ragione dei mutamenti legislativi e giurisprudenziali intervenuti
nel corso del tempo, che il termine “non postula più, come si riteneva per
il passato, la ricorrenza di una concreta fattispecie di reato, ma solo di una
fattispecie corrispondente nella sua oggettività all’astratta previsione di una
figura di reato”, con la possibile conseguenza che “ai fini civili la
responsabilità sia ritenuta per effetto di una presunzione di legge”.
Questa Corte reputa che, mutatis mutandis, il
ragionamento svolto dalle Sezioni unite civili, non a caso analogamente fondato
sull’analisi dei rapporti oramai radicalmente diversi tra giudizio penale e
giudizio civile, sia necessariamente applicabile, per coerenza di sistema,
anche all’ipotesi in cui il giudice dell’azione civile debba accertare se i
fatti da cui derivi l’infortunio o la malattia costituiscano reato perseguibile
d’ufficio ai sensi degli artt.
10 e 11 del D.P.R. n. 1124 del 1965.
6.6.2. Pretendere in tali casi che il giudice civile
operi con gli strumenti penalistici significherebbe oggettivamente aggravare la
posizione del lavoratore danneggiato, sottoponendo il medesimo ad un
trattamento deteriore – quanto al danno cd. “differenziale” –
rispetto a quello destinato a qualsiasi altro danneggiato che può ottenere il
risarcimento integrale avvalendosi delle più agevoli regole di accertamento
della responsabilità civile.
Disparità di trattamento che presenterebbe profili
di tensione con l’art. 3 della Costituzione, in
combinato disposto con l’art. 38 Cost. che conferisce una speciale protezione
ai lavoratori in caso di infortunio e malattia, per cui non sarebbe
giustificato che costoro fossero meno tutelati rispetto a qualsivoglia altro
cittadino e proprio in un momento di maggiore bisogno e di difficoltà; chiaro è
come occorra privilegiare una interpretazione conforme ai principi
costituzionali laddove quella diversa ponga dubbi di compatibilità con la Carta
fondamentale.
Del resto il particolare rigore richiesto per
l’accertamento della responsabilità penale si spiega con la necessità di
superare la presunzione di innocenza, in rapporto con la libertà personale in
gioco, mentre nella responsabilità civile prevalgono le finalità di tutela
della vittima dell’illecito, essendo essa dominata dalla funzione riparatoria e
compensativa.
Incongruo allora pretendere dal lavoratore
danneggiato ciò che verrebbe richiesto ad un pubblico ministero, senza peraltro
che si possa avvalere degli strumenti di indagine di questi, perché non si
tratta di stabilire una responsabilità per infliggere una sanzione penale, quanto,
piuttosto, per risarcire la persona colpita da un danno contra ius.
Come incongruo appare che, nella stessa sede
processuale civile e rispetto al medesimo fatto, il giudice debba operare con
criteri di giudizio diversificati a seconda che sia chiamato a determinare
danni “complementari” oppure “differenziali”, magari
arrivando a negare i secondi dopo aver riconosciuto i primi, solamente a causa
del diverso onere probatorio di cui il lavoratore risulti gravato.
6.6.3. Disparità di trattamento tanto più irragionevole
perché destinata a consumarsi nella sfera protetta dal riconoscimento
costituzionale del diritto alla salute quale diritto fondamentale ed
inviolabile della persona umana.
Dal nucleo irriducibile di tale diritto discende il
principio dell’integrale riparazione del pregiudizio quale aspetto essenziale
della tutela risarcitoria dei valori non patrimoniali dell’individuo.
Come riconosciuto non solo dal diritto vivente
affermato dalle Sezioni unite di questa Corte (Cass.
SS.UU. n. 26972 del 2008; tra le successive v. Cass.
n. 450 del 2011; Cass. n. 9238 del 2011; Cass. n. 8212 del 2013), ma anche
dalle sentenze della Corte costituzionale già ricordate e pronunciate proprio
nel campo che ci occupa, avendo il Giudice delle leggi considerato che:
“la garanzia della salute come diritto fondamentale dell’individuo e
interesse della collettività (art. 32 Cost.)”
si correla “con la tutela privilegiata che la Carta costituzionale
riconosce al lavoro come valore fondante della nostra forma di Stato (artt. 1, primo comma, 4,
35 e 38 Cost.),
nel quadro dei più generali principi di solidarietà (art.
2 Cost.) e di eguaglianza, anche sostanziale (art.
3 Cost.)” (Corte cost. n. 87/91);
“la menomazione dell’integrità psico-fisica del soggetto offeso
costituisce danno integralmente risarcibile di per sé stesso” (Corte cost.
n. 356/91); “il rischio della menomazione dell’integrità psico-fisica del
lavoratore medesimo, prodottasi nello svolgimento e a causa delle sue mansioni,
debba per sé stessa, e indipendentemente dalle sue conseguenze ulteriori,
godere di una garanzia differenziata e più intensa” (Corte cost. n.
87/91).
Se, in astratto, può ritenersi che il meccanismo
delineato dal D.P.R. n. 1124 del 1965 non
precluda in assoluto che la tutela risarcitoria si dispieghi anche avuto
riguardo al danno cd. “differenziale”, non par dubbio che esso strida
con il principio dell’integrale riparazione del pregiudizio non patrimoniale
laddove lo si intenda nel senso che, proprio in un ambito in cui sono
ordinariamente coinvolti diritti inviolabili della persona costituzionalmente
protetti, il lavoratore debba subire in giudizio un aggravamento dei carichi
probatori che non subisce qualsiasi altro danneggiato soggetto al diritto
comune.
6.6.4. L’evoluzione dell’assicurazione obbligatoria
verso una forma di tutela previdenziale ispirata ai principi solidaristici
dettati dall’art. 38 Cost., secondo cui per i
lavoratori infortunati e ammalati occorre che “siano preveduti ed
assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita”, riqualifica le basi
concettuali della prestazione indennitaria pubblica e determina l’abbandono
dell’ottica transattiva d’un tempo, in base alla quale il datore, una volta
versato il premio, si considerava libero dal peso di dover risarcire i danni
arrecati ai lavoratori per l’esercizio dell’impresa, fatta salva solo la
condanna penale.
Invece il rischio professionale assicurato non è più
soltanto quello dell’impresa, ma anche quello del lavoratore vittima di
infortuni e malattie professionali, eventi che generano bisogni socialmente
rilevanti che spetta allo Stato soddisfare, con il contributo delle imprese,
garantendo mezzi adeguati alle esigenze di sopravvivenza del danneggiato.
Abbiamo prima ricordato che questa Corte (Cass. n. 5066/2018 cit.) ha ravvisato il
fondamento della tutela assicurativa, a mente dell’art.
38 Cost., “nella protezione del bisogno a favore del lavoratore,
considerato in quanto persona” ed ha attribuito al premio assicurativo
“la precipua funzione di provvedere al finanziamento del sistema”, in
vista dello “scopo di garantire con la massima efficacia la tutela fisica
e sanitaria dei lavoratori”.
6.6.5. La prospettiva formulata, secondo cui il
premio non è esclusivamente un corrispettivo assicurativo, consente, infine, di
superare la finale obiezione di chi avversa la tesi qui condivisa, denunciando
che, in tal modo, si svuoterebbe di significato la regola dell’esonero, perché
il datore di lavoro sarebbe sempre automaticamente esposto all’azione di danno
del lavoratore ed al regresso dell’INAIL, considerando che l’esistenza di un
reato procedibile d’ufficio sarebbe rinvenibile in tutte le ipotesi di lesioni
del lavoratore con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni o
delle malattie professionali ex art. 2087 c.c.
Invece resta in ogni caso fermo che l’art. 2087 c.c. non configura una ipotesi di
responsabilità oggettiva (tra le altre: Cass. n.
8911 del 2019; Cass. n. 1312 del 2014; Cass. n. 14192 del 2012; Cass. n. 6002 del 2012), essendo necessario che
l’evento dannoso sia comunque riferibile a colpa del datore di lavoro, intesa
quale difetto di diligenza nella predisposizione di misure idonee a prevenire
il danno, per cui è solo la prova dell’elemento soggettivo ad essere agevolata
dall’inversione dell’onere probatorio di cui all’art.
1218 c.c.
Inoltre permane l’area dei fatti che integrino un reato
procedibile a querela, quali le lesioni colpose lievi guaribili entro i 40
giorni, da cui consegua una invalidità superiore alla franchigia del 6%,
rispetto ai quali l’esonero funge comunque, per cui né il lavoratore può
avanzare richiesta di risarcimento del danno “differenziale” al
datore di lavoro, né quest’ultimo può essere convenuto in regresso dall’INAIL.
Ancora, non da ultimo per importanza, va evidenziato
che l’assicurazione pubblica costruisce per il datore di lavoro uno schermo che
si oppone, sempre e comunque, al lavoratore, il quale non potrà mai pretendere
dall’imprenditore il risarcimento integrale del danno, potendo questi
eccepirgli l’operatività dell’esonero, rilevabile anche ex officio dal giudice
e finanche se l’INAIL non abbia corrisposto l’indennizzo (Cass. n. 9166/17
cit.); ove poi, per qualsiasi ragione processuale o sostanziale o per inerzia,
l’Istituto non abbia in concreto indennizzato l’infortunio o la malattia, il
datore di lavoro ne trarrà vantaggio comunque, non essendo esposto al regresso;
analogamente potrà trarre profitto dal mancato esperimento dell’azione di
regresso, ove sia spirato il termine triennale di prescrizione previsto dall’art. 112 del D.P.R. n. 1124 del
1965.
Pur non potendosi, dunque, disconoscere il processo
di erosione cui è sottoposta la regola dell’esonero secondo l’interpretazione
qui accolta, tuttavia le considerazioni che precedono negano che si giunga,
attraverso il percorso disegnato, alla surrettizia soppressione dell’istituto,
in contrasto con un dettato normativo a cui, però, non può più essere ascritto
l’originario valore semantico.
6.7. La conclusione cui si è pervenuti deve valere
anche per l’azione di regresso intentata dall’INAIL “per le somme pagate a
titolo d’indennità e per le spese accessorie contro le persone civilmente
responsabili” (art. 11,
comma 1, D.P.R. n. 1124 del 1965).
L’azione di regresso ha natura contrattuale ed è
concessa all’INAIL per soddisfare le sue finalità istituzionali.
Tradizionalmente dal tenore testuale dell’art. 11 citato, che riconosce
il diritto di regresso per le somme pagate dall’Istituto (comma 1) nelle
ipotesi in cui sia accertata “la responsabilità civile a norma del
precedente articolo” 10
del D.P.R. n. 1124/65 (comma 2), si ricava che i presupposti dell’azione di
rivalsa pubblica siano specularmente i medesimi di quelli valevoli per
l’esercizio dell’azione di danno “differenziale” intentata dal
lavoratore (l’assunto è implicito nella dominante giurisprudenza di legittimità
innanzi citata al paragrafo 6.2.).
Del resto il mutamento di contesto operato dai
principi costituzionali ha inciso anche sulla funzione del regresso
trasformato, nella prospettiva dell’art. 38 Cost.,
in uno strumento di solidarietà e di protezione sociale, costituendo una forma
di finanziamento che conferisce all’INAIL le risorse necessarie per assicurare
una tutela indennitaria, dovuta al lavoratore anche quando questi è in colpa e
pur in mancanza di contribuzione; non a caso la Corte
costituzionale (sent. n. 405 del 1999) ha esplicitamente affermato che
“l’esercizio del regresso da parte dell’INAIL si collega con l’onere per
detto ente di pagare automaticamente e comunque le prestazioni, allo scopo di
tutelare più efficacemente il lavoratore infortunato”.
Anche la finalità preventiva e deterrente,
attribuita al regresso dalle Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 3288 del
1997, secondo cui tale azione costituisce “una ulteriore remora
all’inosservanza delle norme poste a prevenzione degli infortuni”),
potrebbe risultare compromessa se all’INAIL, nell’ambito del giudizio civile e
senza l’ausilio dell’accusa pubblica, non fossero consentiti gli stessi
strumenti previsti per ogni accertamento di responsabilità contrattuale e per
la parallela azione del lavoratore a ristoro dei danni cd.
“differenziali”.
La pronuncia delle Sezioni Unite appena citata offre
un ulteriore argomento.
Con essa si afferma che l’azione proposta dall’INAIL
contro i lavoratori, estranei al rapporto assicurativo, responsabili
dell’illecito compiuto in esecuzione del lavoro cui erano preposti o addetti,
oltre che contro il datore di lavoro, trova il suo fondamento nella disciplina
speciale di cui agli artt. 10
e 11 del D.P.R. n.1124 del 1965 e non nell’art.
1916 c.c.; si argomenta, tra l’altro, che, concedendo il regresso in luogo
della surroga, risulterebbero ampliati i poteri dell’Istituto e le sue pretese
recuperatorie, evidentemente a vantaggio della “efficacia monitoria”
dell’azione, “coerente con i fini generali di prevenzione che presiedono
alla disciplina”.
Tanto non corrisponderebbe al vero se per
l’esercizio dell’azione di regresso venissero richiesti criteri di accertamento
di tipo penalistico, senz’altro più gravosi di quelli sufficienti per la
surroga ex art. 1916 c.c.
Infine, con la sentenza
n. 5160 del 2015, le Sezioni unite civili, nell’affrontare la questione del
termine di prescrizione del regresso in mancanza di processo penale, hanno
collocato il diritto proprio dell’INAIL, nascente dal rapporto assicurativo,
nel sistema generale della responsabilità civile, ritenendo l’azione
dell’Istituto “in qualche misura assimilabile ad un’azione di risarcimento
danni promossa dall’infortunato”; in particolare, nel dirimere il
contrasto insorto all’interno della Sezione lavoro, hanno adottato la soluzione
secondo cui il termine prescrizionale decorre dal momento di liquidazione
dell’indennizzo al danneggiato proprio sull’assunto della “ormai pacifica
autonomia del sistema civilistico della rivalsa rispetto al sistema penale
della responsabilità del datore di lavoro”.
Autonomia del giudizio civile rispetto ad una non
più praticabile pregiudizialità penale che costituisce, appunto, uno degli
argomenti che ha spinto questo Collegio a propendere per una soluzione, circa
l’accertamento della responsabilità civile del datore di lavoro evocato in
giudizio dal lavoratore infortunato o ammalato, che non può essere diversa – se
non al prezzo di una insanabile incongruenza sistematica – da quella stabilita
per il regresso dell’INAIL nei confronti del datore medesimo.
6.8. La sentenza impugnata è conforme agli esposti
principi e, pertanto, va immune dalle censure che le sono mosse con il quinto
motivo di ricorso, che deve essere respinto.
Nonostante il rigetto, ai sensi del primo comma
dell’art. 384 c.p.c., considerata la
particolare importanza della questione esaminata, deve essere enunciato, in
funzione nomofilattica, il seguente principio di diritto:
“In tema di assicurazione obbligatoria contro
gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la disciplina prevista
dagli artt. 10 e 11 del D.P.R.
n. 1124 del 1965 deve essere interpretata nel senso che l’accertamento
incidentale in sede civile del fatto che costituisce reato, sia nel caso di
azione proposta dal lavoratore per la condanna del datore di lavoro al risarcimento
del cd. danno differenziale, sia nel caso dell’azione di regresso proposta
dall’INAIL, deve essere condotto secondo le regole comuni della responsabilità
contrattuale, anche in ordine all’elemento soggettivo della colpa ed al nesso
causale tra fatto ed evento dannoso”.
7. Con il sesto ed ultimo motivo la società deduce
violazione e falsa applicazione degli artt. 1226,
2056 c.c. e nullità della sentenza ex art. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c., per
l’adozione di un criterio, nella liquidazione del danno non patrimoniale iure
hereditatis, svincolato dalle tabelle usualmente adottate; si lamenta una
inadeguata spiegazione del diverso parametro adottato rappresentato
dall’assimilazione della perdita della vita alla privazione della libertà
(indennizzo giornaliero per ingiusta detenzione, nell’importo di € 235,82); si
contesta che nella controversia venga in rilievo il bene della vita piuttosto
che quello della salute, con scostamento dalle previsioni legislative
richiamate, così come interpretate dalla giurisprudenza di legittimità.
Il motivo è fondato nei sensi espressi dalla
motivazione che segue.
7.1. Esclusa da Cass. SS.UU. n. 15350 del 2015 la
risarcibilità iure hereditatis di un danno da perdita della vita, questa Corte
ha ritenuto configurabile e trasmissibile il danno subito dalla vittima,
nell’ipotesi in cui la morte sopravvenga dopo apprezzabile lasso di tempo
dall’evento lesivo, nella duplice componente di danno biologico
“terminale”, cioè di danno biologico da invalidità temporanea assoluta
(Cass. n. 26727 del 2018; Cass. n. 21060 del 2016; Cass. n. 23183 del 2014;
Cass. n. 22218 del 2014), e di danno morale -nella specie anche definito
“catastrofale”- consistente nella sofferenza patita dalla vittima che
lucidamente e coscientemente assiste allo spegnersi della propria vita (Cass.
n. 13198 del 2015; Cass. n. 13537 del 2014; Cass. n. 7126 del 2013; Cass. n.
2564 del 2012).
La distinzione è coerente con il più recente
itinerario giurisprudenziale di legittimità secondo cui il danno non
patrimoniale costituisce sì una categoria unitaria dal punto di vista giuridico
(nel senso che tanto l’accertamento, quanto la liquidazione di tale
pregiudizio, devono essere compiuti secondo regole identiche in relazione alla
lesione di qualsiasi diritto inviolabile della persona costituzionalmente
protetto) ma, tuttavia, fenomenologicamente binaria sotto il profilo della sua
concreta manifestazione: ogni danno non patrimoniale può, dunque, estrinsecarsi
tanto in una modificazione peggiorativa della vita quotidiana e delle attività
dinamico-relazionali della persona, quanto nella sofferenza interiore (cd.
danno morale). In tale prospettiva, in presenza di un danno alla salute, non
costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di
denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, quale pregiudizio
dinamico-relazionale incidente sul fare a-reddituale dell’individuo (sia quali
ripercussioni comuni a tutte le persone che dovessero patire quel medesimo tipo
di invalidità, sia come compromissioni peculiari del caso concreto, da
risarcire in sede di personalizzazione), nonché di una ulteriore somma a titolo
di ristoro delle conseguenze che non hanno fondamento medico-legale -perché non
aventi base organica ed estranee alla determinazione medico-legale del grado
percentuale di invalidità permanente- rappresentate dalla sofferenza interiore
(nel richiamato itinerario vanno ricordate: Cass. n. 18641 del 2011; Cass. n.
11851 del 2015; Cass. n. 901 del 2018; Cass. n. 7513 del 2018; Cass. n. 23469
del 2018; Cass. n. 20795 del 2018; da ultimo: Cass. n. 4878 del 2019, la quale
ha anche sottolineato che, laddove il pregiudizio determinato dal dolore
dell’animo, dalla vergogna, dalla disistima di sé, dalla paura, dalla
disperazione, sia dedotto e provato, esso deve formare oggetto di separata
valutazione e liquidazione).
7.2. Ciò posto, la giurisprudenza di questa Corte
(di recente v. Cass. n. 17577 del 2019) avalla tecniche di liquidazione del
danno “terminale” commisurate alle tabelle che stimano l’inabilità
temporanea assoluta con opportuni “fattori di personalizzazione”, i
quali tengano conto dell’entità e dell’intensità delle conseguenze derivanti
dalla lesione della salute in vista del prevedibile exitus, ossia del fatto
che, se pur temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità,
tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero ed esita, anzi,
nella morte (Cass. n. 15491 del 2014; Cass. n. 23053 del 2009; Cass. n. 9959
del 2006; Cass n. 3549 del 2004).
Si è ulteriormente ribadito che il danno in tali
casi è comprensivo sia di un danno biologico da invalidità temporanea totale
(sempre presente e che si protrae dalla data dell’evento lesivo fino a quella
del decesso) sia di una componente di sofferenza interiore psichica di massimo
livello (danno cd. “catastrofale”), correlata alla consapevolezza
dell’approssimarsi della fine della vita, che deve essere misurata secondo criteri
di proporzionalità e di equità che tengano conto della sua particolare
rilevanza ed entità. Pertanto, mentre nel primo caso la liquidazione può ben
essere effettuata sulla base delle tabelle relative all’invalidità temporanea,
nel secondo caso risulta integrato un danno non patrimoniale di natura del
tutto peculiare che comporta la necessità di una liquidazione che si affidi a
un criterio equitativo – denominato “puro” ancorché sempre
puntualmente correlato alle circostanze del caso – che sappia tener conto della
enormità del pregiudizio sofferto a livello psichico in quella determinata
circostanza. Ai fini della sussistenza del danno catastrofale, la durata di
tale consapevolezza non rileva ai fini della sua oggettiva configurabilità, ma
per la sua quantificazione secondo criteri di proporzionalità e di equità (in
termini: Cass. n. 16592 del 2019; v. pure Cass. n. 23153 del 2019; Cass. n.
21837 del 2019).
Nella determinazione complessiva, quando manchino
criteri stabiliti dalla legge, l’adozione della regola equitativa contenuta
nell’art. 1226 c.c. deve garantire non solo
un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche
l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo non tollerabile né
rispondente ad equità che danni di analoga tipologia possano essere liquidati
in misura diversa solo perché esaminati da differenti uffici giudiziari. Si
reputa comunemente che tale uniformità di trattamento sia garantita
innanzitutto dal riferimento al criterio di liquidazione adottato dal Tribunale
di Milano, per l’ampia diffusione sul territorio nazionale e il riconoscimento
attribuito dalla giurisprudenza di legittimità, alla stregua, in linea generale
e in applicazione dell’art. 3 Cost., del
parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico a
norma degli artt. 1226 e 2056 c.c., salvo che non sussistano in concreto
circostanze idonee a giustificarne l’abbandono (tra molte: Cass. n. 12408 del
2011; Cass. n. 27562 del 2017). E’ stato anche ribadito che il danno alla
salute temporaneo o permanente, in assenza di criteri legali, debba essere
liquidato in base alle cosiddette tabelle diffuse del Tribunale di Milano,
salvo che il caso concreto presenti specificità, che il giudice ha l’onere di
rilevare, accertare ed esporre in motivazione, tali da consigliare o imporre lo
scostamento dai valori standard (Cass. n. 9950 del 2017).
7.3. I giudici del merito si sono apertamente
discostati dai principi di diritto su enunciati, ma senza una condivisibile
argomentazione che supporti il criterio equitativo adottato.
In un’ordinaria ipotesi di danno “biologico
terminale”, non hanno tenuto conto del criterio di liquidazione
individuato da questa Corte di legittimità nelle tabelle che stimano
l’inabilità temporanea assoluta con opportuni “fattori di
personalizzazione”, quale parametro di conformità della valutazione
equitativa del danno alle disposizioni degli artt.
1226 e 2056 c.c.
Inoltre non hanno reso ostensibile l’itinerario
logico per comprendere se, ed eventualmente in base a quali criteri, abbiano
considerato la duplice componente fenomenologica del danno sottoposto al loro
giudizio, avuto riguardo sia agli effetti che la lesione del diritto della
salute ha comportato nella dimensione dinamico-relazionale del soggetto
danneggiato, sia alle conseguenze subite dallo stesso nella sua sfera interiore,
sub specie di sofferenza, di paura, di angoscia, di disperazione, anche in
considerazione del prevedibile esito letale.
Piuttosto la Corte territoriale ha, indistintamente,
individuato il “riferimento concreto per dare valore … ad un giorno di
sofferenza di un soggetto che ha, sì, una invalidità (permanente per quanto
detto in precedenza) ma che sa che proprio per questa
<<invalidità>> … giungerà a morte in tempi brevi” (così al
primo capoverso di pag. 41 della sentenza), nella “c.d. ‘ingiusta detenzioné,
cioè nella privazione del bene della libertà personale per fatto
ingiusto”, comportante “a favore del danneggiato, un indennizzo”
(così all’ultimo capoverso di pag. 41 della sentenza).
L’assunto non può essere condiviso perché, d’un
canto, non è stato applicato, per la componente di danno biologico
“terminale”, il criterio tabellare previsto per l’invalidità
temporanea assoluta, già validato da questa Corte, e, dall’altro, è stato
scelto un unico parametro di riferimento, per la liquidazione del risarcimento
in parola, nell’ambito dell’ordinamento (non già civile, ma) penal-processuale,
senza neanche correttamente individuare il bene giuridico oggetto di tutela,
indicato nel “bene vita”, anziché nel “bene salute”, con
un’assimilazione, sostanzialmente arbitraria in assenza di un’adeguata
giustificazione, della lesione della salute con la privazione della libertà
personale.
Si rammenta che questa Corte, sulla scorta della
giurisprudenza penale (Cass. pen. Sez. IV, n. 17718 del 2008), ha negato
qualsiasi estensione analogica della speciale disciplina degli artt. 314 e 315 c.p.p.,
per le fattispecie di detenzione cautelare ingiusta disposta ed eseguita in
ambito penale, finanche all’ipotesi del trattamento sanitario obbligatorio,
nonostante quest’ultimo colpisca la persona in modo simile all’ingiusta
detenzione perché determina la restrizione della sua libertà personale ed
effetti negativi sull’immagine (Cass. n. 22177 del 2019).
Pertanto, per questo aspetto, la sentenza impugnata
deve essere cassata, con rinvio al giudice che dovrà procedere a rinnovata
liquidazione del danno non patrimoniale iure hereditatis, uniformandosi ai
principi innanzi enunciati.
8. I motivi del ricorso di E.C. e R.M.F. censurano
quella parte della sentenza impugnata che “ha escluso il diritto delle
ricorrenti di vedersi conteggiare gli interessi sull’importo liquidato a titolo
di danno iure proprio per la morte del congiunto”.
Essi possono essere come di seguito sintetizzati.
Con il primo mezzo si deduce la nullità della
sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c.,
lamentando una ultrapetizione per avere la Corte territoriale totalmente
escluso il diritto agli interessi sulle somme liquidate, a fronte di un motivo
di gravame di S.A.M.I. che aveva ad oggetto esclusivamente il computo degli
interessi compensativi non già sull’importo liquidato a titolo di danno iure
proprio, ma devalutato alla data dell’evento dannoso e quindi via via rivalutato
anno per anno.
Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 2056, 1223, 1219 c.c. e dei principi di risarcibilità del
danno da ritardato pagamento in materia di debiti di valore; si critica la
sentenza impugnata per avere ritenuto che il fatto che il Tribunale avesse
liquidato il danno “in moneta attuale” comportasse che il relativo
importo dovesse ritenersi satisfattivo di ogni pregiudizio subito dalle
ricorrenti, compreso quello derivante dal ritardo.
Con il terzo motivo, in alternativa rispetto al
precedente, le ricorrenti deducono la nullità della sentenza per violazione
degli artt. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c., 118 disp att. c.p.c., 111,
sesto comma, Cost. per assenza o mera apparenza di motivazione e, in
subordine, omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio; si
sostiene che, nella motivazione della sentenza del Tribunale, non vi sarebbe
alcuna indicazione che potesse far ritenere che quel giudice, nella
liquidazione del danno, avesse preso in considerazione anche quello derivante
dalla mora.
9. I motivi esposti non possono trovare
accoglimento.
9.1. Il primo è infondato perché il vizio di
ultrapetizione ricorre quando il giudice pronunci oltre i limiti delle pretese
e delle eccezioni fatte valere dalle parti ovvero su questioni estranee
all’oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene della
vita non richiesto o diverso da quello domandato (Cass. n. 18868 del 2015;
Cass. n. 11304 del 2018).
Posto che nella specie la società aveva
indiscutibilmente gravato la sentenza di primo grado in ordine alla liquidazione
degli interessi riconosciuti sulle somme da corrispondersi alle eredi iure
proprio, ogni questione in ordine all’interpretazione del motivo di appello ed
ai conseguenti limiti del devolutum appartiene al giudice del merito e non può
essere oggetto di rivalutazione in questa sede di legittimità.
9.2. Il secondo motivo può essere congiuntamente
esaminato, per ragioni di connessione, con il terzo.
Essi sono infondati.
Nell’obbligazione risarcitoria (che costituisce
debito di valore in quanto diretta alla reintegrazione del danneggiato nella
stessa situazione patrimoniale nella quale si sarebbe trovato se il danno non
fosse stato prodotto) il principale mezzo di commisurazione attuale del valore
perduto dal creditore è fornito dalla rivalutazione monetaria, mentre il
riconoscimento degli interessi rappresenta una modalità di liquidazione del
possibile danno ulteriore da lucro cessante, cui è consentito fare ricorso solo
nei casi in cui la rivalutazione monetaria dell’importo liquidato in relazione
all’epoca dell’illecito, ovvero la liquidazione in valori monetari attuali, non
valgano a reintegrare pienamente il creditore. Pertanto, il mero ritardo nella
percezione dell’equivalente monetario non dà automaticamente diritto alla
corresponsione degli interessi (in termini: Cass. n. 15823 del 2005). Anzi, gli
interessi compensativi esigono la prova, gravante sul soggetto danneggiato, del
mancato guadagno, comportatogli dal ritardato pagamento anche in via presuntiva
(Cass. n. 22607 del 2016).
Pertanto la motivazione della Corte territoriale non
è omessa, né è tanto meno apparente, al punto da determinare la nullità della
sentenza a mente dell’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c.
per violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c.,
considerata la plausibilità dell’argomentazione offerta dalla Corte
territoriale che ha evidentemente considerato come la liquidazione “in
moneta attuale” potesse essere integralmente satisfattiva, visto che -per
quanto detto- nell’obbligazione risarcitoria da fatto illecito è possibile
“la diretta liquidazione in valori monetari attuali” ed ove “non
valgano a reintegrare pienamente il creditore” è onere del medesimo
“provare, anche in base a criteri presuntivi, che la somma rivalutata (o
liquidata in moneta attuale) sia inferiore a quella di cui avrebbe disposto,
alla stessa data della sentenza, se il pagamento della somma originariamente
dovuta fosse stato tempestivo” (da ultimo cfr. Cass. n. 18564 del 2018);
alcuna allegazione in tal senso risulta adeguatamente prospettata dalle
ricorrenti, né può essere oggetto di rivalutazione in questa sede
l’interpretazione della sentenza di primo grado ad opera della Corte
distrettuale.
10. In conclusione, respinto il ricorso proposto da
E.C. e R.M.F., va accolto il solo sesto motivo del ricorso di S.A.M.I.,
rigettata ogni altra censura ivi contenuta; in conseguenza, la sentenza
impugnata deve essere cassata limitatamente al motivo accolto, con rinvio alla
Corte indicata in dispositivo che si uniformerà a quanto statuito, regolando
anche le spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti Cottura e F.,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove
dovuto, per il ricorso dalle stesse proposto (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del
2020).
P.Q.M.
Accoglie il sesto motivo del ricorso proposto da
Società per Azioni M. ITALIANA – S.A.M.I., rigettati gli altri; rigetta il
ricorso di E.C. e R.M.F.; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo
accolto e rinvia alla Corte di Appello di Torino, in diversa composizione,
anche per le spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte dei ricorrenti eredi di S.F., dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso da loro
proposto, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13, se dovuto.