Giurisprudenza – TRIBUNALE DI ROMA – Ordinanza 06 febbraio 2020, n. 68

Previdenza e assistenza, Revoca di prestazioni assistenziali
e previdenziali, Soggetti condannati per i reati di cui agli artt. 270-bis, 280,
289-bis, 416-bis,
416-ter e 422 cod.
pen., nonché per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste
dal predetto art. 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle
associazioni previste dallo stesso articolo, Applicazione a soggetti già
condannati con sentenza passata in giudicato, L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 2,
comma 61

 

Con ricorso depositato il 29 marzo 2019, M. F.,
rappresentato dal proprio tutore G.A., premesso di essere titolare di assegno
sociale, ha esposto che l’INPS, con nota del 4 agosto 2017, ha comunicato la
revoca del trattamento assistenziale a decorrere dal 1° marzo 2017, ai sensi
dell’art. 2, commi 58-63, della
legge n. 92/2012, avendo egli riportato condanne per i reati di cui citato art. 2, comma 58;

che con successiva nota del 28 giugno 2018, è stato
invitato a restituire la somma di € 3.191,65 in quanto indebitamente
corrisposta nel periodo marzo-luglio 2017; e che il ricorso proposto in via
amministrativa non ha avuto alcun riscontro.

Il ricorrente ha dedotto in primo luogo che la
sanzione della revoca della pensione ha natura accessoria alla condanna
inflitta in sede penale; che, pertanto, avendo egli riportato condanne passate
in giudicato prima della entrata in vigore della legge
n. 92/2012, l’applicazione della sanzione appare contraria al principio
costituzionale di irretroattività della pena.

Evidenziato che a suo beneficio è stata applicata la
circostanza attenuante di cui all’art. 8 del decreto-legge n.
152/1991, convertito in legge n. 203/1991,
in quanto collaboratore di giustizia, ha poi sostenuto che, secondo
un’interpretazione costituzionalmente orientata ed in ossequio al principio di
uguaglianza sostanziale, non può applicarsi la sanzione accessoria della revoca
della pensione a colui che, già appartenente ad associazione mafiosa, abbia
rescisso ogni vincolo indebolendo, con le sue dichiarazioni, l’associazione.

In ultimo, premesso che egli sta scontando la pena
in regime di detenzione domiciliare, ha sostenuto che, persistendo i
presupposti intrinseci per la corresponsione del beneficio (è inabile al lavoro
e privo di mezzi di sussistenza), ha diritto al mantenimento ed all’assistenza
sociale ai sensi dell’art. 38 Cost., nonostante
abbia riportato condanna per uno dei reati previsti dall’art. 2, comma 58, legge n. 92/2012.

Il ricorrente ha quindi chiesto che l’INPS sia
condannato a ripristinare il trattamento pensionistico/assistenziale AS n.
04235880 a far data dal 1° marzo 2017 ed alla corresponsione delle mensilità
sospese e non erogate dalla medesima data, oltre accessori di legge.

L’I.N.P.S., costituitosi il 19 maggio 2019, ha
contestato la fondatezza della domanda deducendo che la sentenza che irroga la
sanzione principale costituisce il fatto storico cui l’ordinamento riconnette
la previsione della revoca ex nunc della prestazione per cui si tratta di una
misura che incide su un rapporto di natura civilistica e non già penale,
giustificata dal fatto che i soggetti interessati sono stati riconosciuti
responsabili di reati di particolare allarme sociale; che, conseguentemente,
non si ravvisa violazione del principio di irretroattività della legge penale;
e che la revoca è stata disposta del tutto legittimamente in ossequio a
disposizioni di legge.

1. – A far data dal marzo 2017 l’INPS ha interrotto
l’erogazione dell’assegno sociale percepito fino a quel momento dal ricorrente,
richiamando, a sostegno di tale provvedimento, quanto disposto dall’art. 2, commi 58/63, della legge n.
92/2012, che prevede quanto segue:

«58. Con la sentenza di condanna per i reati di cui
agli articoli 270-bis, 280, 289-bis, 416-bis, 416-ter e
422 del codice penale, nonché per i delitti
commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis ovvero al fine di agevolare
l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, il giudice
dispone la sanzione accessoria della revoca delle seguenti prestazioni,
comunque denominate in base alla legislazione vigente, di cui il condannato sia
eventualmente titolare: indennità di disoccupazione, assegno sociale, pensione
sociale e pensione per gli invalidi civili. Con la medesima sentenza il giudice
dispone anche la revoca dei trattamenti previdenziali a carico degli enti
gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza, ovvero di forme
sostitutive, esclusive ed esonerative delle stesse, erogati al condannato, nel
caso in cui accerti, o sia stato già accertato con sentenza in altro
procedimento giurisdizionale, che questi abbiano origine, in tutto o in parte,
da un rapporto di lavoro fittizio a copertura di attività illecite connesse a
taluno dei reati di cui al primo periodo. 

59. I condannati ai quali sia stata applicata la
sanzione accessoria di cui al comma 58, primo periodo, possono beneficiare, una
volta che la pena sia stata completamente eseguita e previa presentazione di
apposita domanda, delle prestazioni previste dalla normativa vigente in
materia, nel caso in cui ne ricorrano i presupposti.

60. I provvedimenti adottati ai sensi del comma 58
sono comunicati, entro quindici giorni dalla data di adozione dei medesimi,
all’ente titolare dei rapporti previdenziali e assistenziali facenti capo al
soggetto condannato, ai fini della loro immediata esecuzione.

61. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore
della presente legge, il Ministro della giustizia, d’intesa con il Ministro del
lavoro e delle politiche sociali, trasmette agli enti titolari dei relativi
rapporti l’elenco dei soggetti già condannati con sentenza passata in giudicato
per i reati di cui al comma 58, ai fini della revoca, con effetto non
retroattivo, delle prestazioni di cui al medesimo comma 58, primo periodo.

62. Quando esercita l’azione penale, il pubblico
ministero, qualora nel corso delle indagini abbia acquisito elementi utili per
ritenere irregolarmente percepita una prestazione di natura assistenziale o
previdenziale, informa l’amministrazione competente per i conseguenti
accertamenti e provvedimenti.

63. Le risorse derivanti dai provvedimenti di revoca
di cui ai commi da 58 a 62 sono versate annualmente dagli enti interessati
all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate ai capitoli di
spesa corrispondenti al Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei
reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura, di cui all’art. 2, comma 6-sexies, del
decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni,
dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10, e agli
interventi in favore delle vittime del terroristno e della criminalità
organizzata, di cui alla legge 3 agosto 2004, n.
206».

2. Il ricorrente nega la legittimità della revoca
del trattamento pensionistico sotto diversi profili.

In primo luogo, contesta la legittimità
costituzionale dell’art. 2, commi
58/63, della legge n. 92/2012 nella parte in cui prevede che la sanzione
accessoria della revoca delle prestazioni assistenziali erogate sia applicabile
anche nei confronti di soggetti condannati per fatti commessi in epoca
antecedente alla sua entrata in vigore, in quanto contrastante con il principio
di irretroattività della legge penale sancito dall’art.
25 della Costituzione.

Ancora, evidenzia che, in base ad una lettura
costituzionalmente orientata della disposizione in questione ed in ossequio al
principio di uguaglianza sostanziale, la sanzione accessoria della revoca della
pensione non dovrebbe essere applicata a chi, come il ricorrente medesimo, ha
beneficiato della circostanza attenuante di cui all’art. 8 decreto-legge n. 152/1991,
prevista per i collaboratori di giustizia.

In ultimo, premesso che egli sta scontando la pena
in regime di detenzione domiciliare, rileva un ulteriore profilo di
illegittimità costituzionale della suddetta normativa, assumendo che, nel caso
in cui la sanzione accessoria della revoca delle prestazioni assistenziali si
ritenga applicabile anche ai soggetti non detenuti, si violerebbe l’art. 38 della Costituzione nella parte in cui
prevede che «ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari
per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale».

3. Quanto al primo profilo, la questione di
legittimità costituzionale della norma richiamata appare manifestamente
infondata.

La stessa potrebbe porsi solo laddove si ritenesse
di attribuire alla revoca dei trattamenti previdenziali ed assistenziali in
essa prevista natura di sanzione penale, in quanto il divieto di
irretroattività di cui all’art. 25 Cost. ha per
oggetto le sole sanzioni che, al di là del nomen iuris utilizzato dal
Legislatore e facendo applicazione dei cosiddetti criteri Engel (v. Corte di giustizia 20 marzo 2018, C-524/15,
Menci, secondo cui, nel valutare la «natura penale di procedimenti -e di
sanzioni […] sono rilevanti tre criteri. Il primo consiste nella
qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, il secondo nella
natura dell’illecito e il terzo nel grado di severità della sanzione in cui
l’interessato rischia di incorrere»), hanno natura sostanzialmente penalistica.

Ebbene, per le sue caratteristiche e modalità di
applicazione, si deve escludere che la revoca di cui all’art. 2, commi 58/63,
della legge n. 92/2012 abbia natura di
sanzione penale.

Più nello specifico, la suddetta norma prevede che,
per le condanne ormai definitive alla data dell’introduzione delle nuove
disposizioni, la revoca della prestazione assistenziale, senza efficacia per i
ratei già maturati, è disposta direttamente dall’Ente erogatore dietro
trasmissione dei relativi elenchi da parte del Ministero della giustizia.

In altri termini, la misura in questione opera
direttamente in via amministrativa senza l’intermediazione del provvedimento
giurisdizionale penale che ne funge solo da presupposto storico.

Ne deriva che la fattispecie in esame è
qualificabile come un mero effetto extra-penale della condanna e non come una
pena accessoria, sicché la norma non presenta profili di incompatibilità con il
divieto di irretroattività sfavorevole di cui all’art.
25 Cost.

A tali conclusioni, in sostanza, è giunta la Corte
di cassazione con sentenza della I Sezione penale del 7 dicembre 2018, n.
11581, nella cui parte motiva si leggono le seguenti persuasive considerazioni:

«La novella legislativa istituisce, in tal modo, uno
speciale statuto di “indegnità”, connesso alla commissione dei
predetti reati, cui ricollega effetti sanzionatori direttamente incidenti sui
trattamenti di assistenza sociale. Alla sua ratio non è estraneo il rilievo
criminologico che ai medesimi reati faccia da sfondo l’accumulazione, o
comunque il possesso, di capitali illeciti, con quei trattamenti incompatibili;
mentre il reimpiego di tali capitali in attività economiche, dirette a
schermarli, è alla base dell’estensione della misura sanzionatoria ai
trattamenti propriamente previdenziali, che si accertino in connessione
generati.

3. Tali articolate previsioni pongono senza dubbio,
a regime, interrogativi ermeneutici, che riguardano la riconducibilità della
sanzione in discorso al genus delle pene accessorie, la correlata possibilità
di riferire ad essa (eventualmente anche in rapporto agli effetti extra-penali
che ne sostanziano il contenuto) la cognizione del giudice dell’esecuzione, la
stessa legittimità costituzionale (con particolare riferimento all’art. 38 Cost.) della sottostante disciplina afflittiva.

Poiché, tuttavia, le previsioni anzidette si
applicano rispetto ai processi di cognizione, relativi ai reati ricompresi nel
catalogo di cui alla legge n. 92
del 2012, art. 2, comma 58, che siano pendenti alla data di entrata in
vigore della novella legislativa, o rispetto a quelli successivamente
instaurati, le questioni sopra individuate – che, in parte, agitano anche
l’odierno ricorso – appaiono ininfluenti nell’odierno procedimento di esecuzione,
instaurato a fronte di condanne che, alla predetta data, risultavano già
irrevocabili.

4. In relazione a tale ultima fattispecie la novella
legislativa prevede, invero, un regime transitorio, delineato dal citato art. 2, comma 61.

Per le condanne ormai definitive alla data
dell’introduzione delle nuove disposizioni, la revoca, senza efficacia per i
ratei già maturati, della prestazione assistenziale è disposta direttamente
dall’Ente erogatore, dietro trasmissione dei relativi elenchi da parte del
Ministero della giustizia.

In questo caso la misura di rigore opera
direttamente in via amministrativa, senza l’intermediazione del provvedimento
giurisdizionale penale, che ne funge solo da presupposto storico.

Si è in presenza di un mero effetto extra penale
della condanna, e non di una pena (o di una sanzione) accessoria, similmente a
quanto accade allorché dalla pronuncia di sentenze irrevocabili per determinati
reati automaticamente derivino, indipendentemente dall’adozione delle predette
statuizioni accessorie, incapacità speciali o altre conseguenze sfavorevoli in
tema di stato della persona (si veda, esemplificativamente, l’ipotesi di
condanna pronunciata per reati elettorali nei confronti di un candidato, la
quale in sé comporta, ai sensi del decreto del Presidente della
Repubblica n. 361 del 1957, art. 113, commi e 2, e indipendentemente dalla
pena accessoria interdittiva, la temporanea privazione dall’elettorato attivo e
passivo: Sez. 1, n. 31499 del 4 giugno 2013, Diodato, Rv. 256794-01).

La cessazione della prestazione assistenziale qui
non costituisce (come non lo costituisce la perdita dei diritti elettorali
nell’ipotesi testè prospettata: Sez. 1, n. 52522 del 16 gennaio 2018, P., Rv.
274112-01) un aspetto del trattamento sanzionatorio del reato – se così fosse,
si assisterebbe all’applicazione retroattiva, malam partem, di una disposizione
penale, vietata dall’art. 25 Cost., comma 2, –
bensì consegue al sopravvenuto difetto di un requisito soggettivo per il
mantenimento dell’attribuzione patrimoniale di durata.

5. Se dunque non vi è, come nella specie,
irrogazione di alcuna pena (o sanzione) accessoria, non vi è neppure – in
radice – materia per l’esercizio della giurisdizione esecutiva penale, nemmeno
nella sua accezione più lata.

Il condannato non resta peraltro privo di tutela
giurisdizionale – e neppure sotto questo profilo potrebbe giustificarsi, de
residuo, l’intervento del giudice dell’esecuzione (cfr., a contrario, Sez. 1,
n. 1610 del 2 dicembre 2014, dep. 2015, Berlusconi, Rv. 261999-01; Sez. 1, n.
8464 del 27 gennaio 2009, Lunadei, Rv. 243450-01; Sez. 1, n. 5455 del 30
settembre 1997, Sansalone, Rv. 209173-01) essendogli sempre consentito di adire
il giudice ordinariamente competente a conoscere del rapporto sostanziale in
contestazione, che nella specie è il giudice del lavoro, cui spetta (art. 442 codice di procedura civile e ss.) la
cognizione delle controversie in tema di previdenza e assistenza obbligatorie.
Davanti a tale giudice M. potrà sollevare eventuali eccezioni di legittimità
costituzionale, anche con riferimento al parametro di cui all’art. 38 Cost., ovvero fare questione
dell’eventuale violazione della legge
n. 92 del 2012, art. 2, comma 59, sotto il profilo dell’intervenuta
espiazione della pena in concreto ostativa».

4. Quanto alla necessità di procedere ad una lettura
dell’art. 2, commi 58/63, della
legge n. 92/2012 compatibile con il principio di uguaglianza sostanziale,
essa non può comportare automaticamente la esclusione della applicazione della
misura ai collaboratori di giustizia, in assenza di qualsiasi indicazione in
tal senso da parte della disciplina in questione.

D’altra parte, l’esigenza di incentivare la
collaborazione con la giustizia da parte di soggetti coinvolti nelle
organizzazioni criminali di stampo mafioso è già soddisfatta, oltre che dalla
previsione di una specifica circostanza attenuante (dapprima l’art. 8 decreto-legge n. 152/1991
e, attualmente, l’art. 416-bis l c.p.), da una
serie di benefici espressamente contemplati dal legislatore, sicché, al di
fuori di queste ipotesi e nei casi in cui la legge non operi una
differenziazione espressa, da un lato il giudice non potrebbe applicare ai
collaboratori di giustizia un trattamento differenziato rispetto ai soggetti
che, condannati per gli stessi reati, non abbiano collaborato con la giustizia
e, dall’altro, appartiene alla ampia discrezionalità del legislatore individuare
i limiti delle misure premiali da riservare a coloro che aiutano concretamente
le autorità nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti
e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati.

Si osserva, inoltre, che il legislatore ha
espressamente preso in considerazione l’eventuale esigenza che il collaboratore
necessiti di assistenza anche di carattere economico, per cui i suoi bisogni
primari di vita ben possono essere garantiti proprio dalle misure che le
autorità preposte possono adottare.

Infatti, l’art. 9 del decreto-legge 15 gennaio 1991,
n. 8, convertito in legge n. 82/1991 – sostituito dall’art. 2 della legge 13
febbraio 2001, n. 45 – stabilisce, al comma 1, che ai collaboratori di
giustizia possono essere applicate speciali misure di protezione idonee ad
assicurarne l’incolumità provvedendosi, ove necessario, anche alla loro
assistenza; e, al comma 4, che, ove tali misure non risultino adeguate, può
essere definito uno speciale programma di protezione i cui contenuti sono
indicati nell’art. 13, comma 5, dello stesso decreto-legge n. 8/1991, il quale,
deliberato da apposito organo amministrativo, può comprendere anche misure di
assistenza personale ed economica. Tali misure, nel caso in cui la persona
interessata non possa provvedere con i propri mezzi, comprendono la
sistemazione alloggiati-va e le spese per i trasferimenti, le spese per
esigenze sanitarie quando non sia possibile avvalersi delle strutture pubbliche
ordinarie, l’assistenza legale e l’assegno di mantenimento nel caso di
impossibilità di svolgere attività lavorativa, di importo non superiore a
cinque volte l’assegno sociale di cui all’art. 3, commi 6 e 7, della legge 8
agosto 1995, n. 335, con possibili integrazioni solo quando ricorrano
particolari circostanze influenti sulle esigenze di mantenimento in stretta
connessione con quelle di tutela del soggetto sottoposto al programma di
protezione.

Il legislatore si è cioè fatto carico delle esigenze
di vita del collaboratore che, ove non disponga di mezzi propri, deve poter
fruire di un opportuno sussidio che va anche oltre il limite ininimo di
sussistenza individuato ex lege nella misura dell’assegno sociale.

Nella specie, però, come da informativa giunta dal Dipartimento
della pubblica sicurezza (nota del 22 novembre 2019), il F. risulta essere solo
un ex collaboratore di giustizia il quale ha fruito di programma speciale di
protezione dal 9 marzo 1994 al 9 febbraio 2005.

Attualmente quindi egli non può accedere al
trattamento «assistenziale» che il legislatore ha previsto in favore di coloro
che sono sottoposti a misure di protezione, essendo ormai cessate le dette
esigenze.

Il ricorrente, inoltre, dal 18 ottobre 2012 (come
risulta dal certificato del casellario giudiziale prodotto sub doc. 5), si
trova in regime di detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter
dell’ordinamento penitenziario e, pertanto, non può fruire dei servizi di
alloggio e vitto dell’istituto penitenziario (salvo obbligo di rimborso, nei
limiti di legge, delle spese di mantenimento ai sensi dell’art. 2
dell’ordinamento),

La disposizione dell’art. 2, comma 61, legge n. 92/2012,
che impone agli enti titolari dei relativi rapporti la revoca delle prestazioni
di cui al precedente comma 58, impedisce al ricorrente di continuare a fruire
del beneficio assistenziale erogatogli in ragione dell’età avanzata e della
mancanza di redditi. 

La questione di legittimità costituzionale
prospettata, con riferimento all’art. 38, 1° comma,
Cost. – cui possono aggiungersi gli articoli 2
e 3 Cost. – appare rilevante in quanto dalla
fondatezza o meno della stessa dipende interamente l’esito del giudizio.

Appare inoltre non manifestamente infondata.

E’ vero che – come osservato dal giudice di
legittimità – il legislatore ha istituito uno speciale statuto di «indegnità»,
connesso alla commissione di reati di particolare gravità, tali da
giustificare, durante l’esecuzione della pena, il venir meno di trattamenti
assistenziali che trovano loro fondamento nel generale dovere di solidarietà
dell’intera collettività nei confronti dei soggetti svantaggiati (cfr. art. 1, legge n. 328/2000: «La
Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di
interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità
della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza,
previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio
individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà
sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione»).

Ed è altresì vero che la ratio della norma si
rinviene anche nella considerazione che ai reati ostativi alla fruizione dei
benefici fa da sfondo l’accumulazione, o comunque il possesso, di capitali
illeciti, con quei benefici incompatibili.

Tuttavia, se la revoca dei benefici per coloro che
scontano la pena in istituto non comporta il rischio di non poter neppure disporre
dei mezzi minimi per alimentarsi e per avere un ricovero (date le garanzie
apprestate dall’ordinamento penitenziario), la medesima misura comporta invece
– senza che emerga ragione di un trattamento deteriore – per coloro che si
trovano in regime di detenzione domiciliare, il concreto rischio di non poter
disporre, a causa della condizione di età e della connessa incapacità –
presunta ex lege – di svolgere qualsiasi proficuo lavoro, di alcun mezzo di
sussistenza con oggettivo pregiudizio per diritti inviolabili quali quello alla
alimentazione e, in definitiva, alla vita, diritti che sono insuscettibili di
patire deroghe o compressioni, non potendo lo statuto di «indegnità» giungere
fino a porre in pericolo la sopravvivenza del condannato e non potendo la
collettività tollerare che al proprio interno vi siano (in forza di legge e non
già per mere contingenze di fatto) persone che debbano restare prive del minimo
vitale.

Appare perciò non manifestamente infondato il dubbio
di legittimità costituzionale dell’art.
2, comma 61, della legge 28 giugno 2012, n. 92, nella parte in cui impone
all’INPS, senza possibilità di alcuna valutazione connessa alle concrete
situazioni personali ed economiche del condannato in regime di detenzione
domiciliare, la revoca dell’assegno sociale, per contrasto con le disposizioni
di cui agli articoli 2, 3 e 38, 1° comma,
Cost.

 

P.Q.M.

 

Visti gli articoli 1 legge costituzionale 9 febbraio
1948, n. 1, e 23 e segg. legge 11 marzo 1953, n.
87:

1) dichiara rilevante e non manifestamente infondata
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, della legge 28
giugno 2012, n. 92, nella parte in cui impone all’INPS, senza possibilità
di alcuna valutazione connessa alle concrete situazioni personali ed economiche
del condannato in regime di detenzione domiciliare, la revoca dell’assegno
sociale, per contrasto con le disposizioni di cui agli articoli 2, 3 e 38, 1° comma, Costituzione;

2) sospende il presente procedimento;

3) ordina che, a cura della cancelleria, la presente
ordinanza, che viene letta in udienza, sia notificata al Presidente del
Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del
Parlamento;

4) dispone l’immediata trasmissione degli atti,
comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte
notificazioni e comunicazioni, alla Corte costituzionale.

 

Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale 24
giugno 2020, n. 26

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