L’assegnazione ad altra unità produttiva di una lavoratrice, in conseguenza del reclamo per molestie sessuali presentato contro il superiore gerarchico, è discriminatoria, anche in assenza di dolo del datore di lavoro, a meno che la diversa collocazione ambientale non sia giustificata da ragioni oggettive.
Nota a Trib. Torino 7 maggio 2020, n. 5349
Sonia Gioia
La prestatrice che denunci di aver subìto molestie sessuali sul luogo di lavoro non può essere trasferita.
Pertanto, il provvedimento datoriale che, a seguito del reclamo, assegni la dipendente ad altra sede costituisce discriminazione (art. 26, co. 3, D.LGS. n. 198/2006, c.d. Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), con la conseguenza che il datore di lavoro, in giudizio, ha l’onere dimostrare “l’esistenza di ragioni atte a giustificare in modo oggettivo il trattamento deteriore riservato alla ricorrente dopo la richiesta di ripristinare la parità di trattamento uomo- donna” (art. 40, D.LGS. n. 198, cit.).
Ciò indipendentemente da qualsiasi intento doloso o vessatorio dell’imprenditore in quanto “l’illecito discriminatorio assume valenza oggettiva, incentrata unicamente sul concreto effetto più sfavorevole derivato dall’atto datoriale per il denunciante”.
Tali principi sono ribaditi dal Tribunale di Torino (7 maggio 2020, n. 5349) in relazione al ricorso di una lavoratrice che lamentava la natura discriminatoria del provvedimento datoriale di adibizione ad altra unità produttiva posto in essere quale rimedio al reclamo per molestie sessuali che la stessa aveva presentato nei confronti del superiore gerarchico.
Al riguardo, il Codice delle pari opportunità considera discriminazioni “quei trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad una azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne” (art. 26, co. 3, D.LGS. n. 198, cit.), ivi compresi tutti quei provvedimenti che possano comportare “significativi disagi e condizioni di minor favore rispetto a quelle precedentemente in atto, ancorché non di intensità tale da rientrare nel concetto di danno”.
Nel caso di specie, il trasferimento ad altra sede, seppur più vicina all’abitazione della prestatrice, aveva comportato una diversa e più gravosa articolazione oraria della giornata (non più caratterizzata da una prestazione continuativa di otto ore, ma da un orario spezzato con ampio intervallo), tale da imporre alla dipendente un doppio tragitto casa- lavoro, causando “un complessivo peggioramento della qualità della vita”.
Pertanto, il giudice ha dichiarato la natura discriminatoria della decisione aziendale, adottata in conseguenza della denuncia, e ordinato la riassegnazione della dipendente all’originaria sede di lavoro, sebbene il trasferimento, privo di qualsiasi finalità ritorsiva, fosse stato disposto al solo fine di proteggere la vittima. Ciò in quanto analogo risultato poteva essere ottenuto assegnando ad altra unità produttiva l’autore delle molestie, anziché la vittima.