Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 giugno 2020, n. 12841

Licenziamento per giusta causa, Illegittimità, Violazione
del divieto di fumo durante l’orario di lavoro, Sanzione conservativa

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Genova, in riforma della
sentenza del Tribunale della medesima sede, ha – con sentenza n. 305 depositata
il 24.9.2018 – accolto la domanda di annullamento del licenziamento per giusta
causa intimato da P.H.F. s.r.I., in data 11.8.2016, a G.C., per aver
contravvenuto al divieto di fumo durante l’orario di lavoro e presso un
recondito ambito (intercapedine) dei locali della ditta committente A. Energia.

2. La Corte, circoscritto l’oggetto del
licenziamento esclusivamente alla contravvenzione al divieto di fumare (con
esclusione delle altre infrazioni contestate nella lettera del 28.7.2016),
escludeva che il fatto addebitato al lavoratore, risultato provato, rientrasse
nella previsione di cui all’art.
48, lett. b) del CCNL Pulizie – Multiservizi, disposizione che ricollega il
licenziamento ai casi in cui il lavoratore sia trovato a “fumare dove può
provocare pregiudizio all’incolumità delle persone o alla sicurezza degli
impianti”, dovendosi, invece, ritenere integrata la previsione collegata
al mero divieto di fumare dettata dall’art. 47 del medesimo CCNL e
concernente la sanzione conservativa dell’ammonizione o della sospensione dal
lavoro e dalla retribuzione, con conseguente illegittimità del licenziamento ed
applicazione della tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4, della legge n.
300 del 1970 come modificato dalla legge n. 92
del 2012.

3. Per la cassazione di tale sentenza la società ha
proposto ricorso affidato a due motivi. Il lavoratore ha resistito con
controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce nullità
della sentenza per violazione dell’art. 132,
secondo comma, n. 4 cod.proc.civ. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ.)
avendo, la Corte distrettuale, fornito una motivazione incomprensibile ed apparente
nella misura in cui ha affermato che la contestazione disciplinare e la lettera
di licenziamento dovevano essere valutate nella loro interezza (ossia
considerando l’intero comportamento tenuto dal lavoratore) e poi ha affermato
che l’unico oggetto del licenziamento doveva ritenersi essere l’infrazione al
divieto di fumare (con esclusione della condotta di insubordinazione e di
inattività durante l’orario di lavoro).

2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia
violazione e/o falsa applicazione degli artt. 51 nn. 1 e 2 della legge n. 3
del 2003, 48 B, lett. f) e
47, lett. h) del ccnI imprese di Pulizia-servizi integrati-Multiservizi (in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 3,
cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che il divieto di
fumare è, per legge, inderogabile e la clausola contrattuale richiede che il
pregiudizio all’incolumità delle persone e alla sicurezza degli impianti sia
anche solo potenziale.

3. Il primo motivo è inammissibile.

Nel caso di specie difetta la necessaria
riferibilità delle censure alla motivazione della sentenza impugnata, in quanto
la Corte territoriale non ha affermato che la contestazione disciplinare e la
lettera di licenziamento dovevano essere valutate nella loro interezza (ossia
comprensive di tutti i fatti addebitati al lavoratore nella lettera di
contestazione) bensì, effettuando un’operazione esegetica sia della lettera di
contestazione disciplinare sia della lettera di licenziamento, ha rilevato che
il datore di lavoro aveva, dapprima (nella lettera di contestazione), descritto
una molteplicità di condotte inadempienti e, poi (nella lettera di
licenziamento), si era limitato (per sua imponderabile scelta discrezionale) a
sanzionare solamente il comportamento relativo all’infrazione al divieto di
fumo.

La censura non coglie la ratio decidendi perché il
ricorrente insiste sul contraddittorio percorso logico-giuridico esposto nella
sentenza impugnata (insussistente, come anzidetto) ma nulla deduce sulla
interpretazione delle lettere di contestazione disciplinare e di licenziamento.

4. Il secondo motivo di ricorso è infondato.

La Corte territoriale – condividendo le conclusioni
assunte dal Tribunale circa la vigenza del divieto di fumo (a norma di legge e
di specifica disposizione adottata dalla ditta committente) in tutto lo
stabilimento (A. Energia) presso il quale il Corti era stato assegnato per lo
svolgimento della sua attività lavorativa – ha valutato, ai fini di riempire di
contenuto la clausola generale dettata dall’art.
2119 cod.civ., la scala valoriale del codice disciplinare contenuto nel
contratto collettivo applicato in azienda; avendo rinvenuto due tipizzazioni
contrattuali concernenti l’infrazione al divieto di fumo (l’una, ex art .47 ccnl, punita con
sanzione conservativa e l’altra, ex art. 48, lett. f) con sanzione
espulsiva) ha proceduto alla verifica della sussistenza dei requisiti elaborati
dalle parti sociali per l’adozione del provvedimento di licenziamento,
pervenendo alla conclusione della impossibilità della sussunzione della
condotta adottata dal Corti nell’art.
48, lett. f) per carenza della situazione di “pericolo per le persone
o per gli impianti”.

La Corte distrettuale, valutando sia il profilo
soggettivo che quello oggettivo della condotta e in specie la conformazione del
luogo ove il lavoratore è stato trovato intento a fumare (zona di intercapedine
tra uffici sprovvisto di impianti e di persone; assenza di attrezzature
pericolose quali bombole contenenti materiale infiammabile; planimetria dello
stabilimento), ha ritenuto di escludere la ricorrenza dei requisiti costitutivi
della fattispecie contrattuale punita con sanzione espulsiva, in particolare
rilevando che – alla luce delle circostanze concrete che caratterizzavano la
condotta del lavoratore – non poteva ritenersi integrato un pericolo alla
salute derivante dalla mera combustione di una sigaretta posto che l’infrazione
al divieto di fumo in ambienti chiusi previsto dalla legge (art. 51 legge n. 3 del 2003)
doveva misurarsi, quanto agli effetti sul rapporto di lavoro, con le due
distinte previsioni disciplinari elaborate dalle parti sociali (artt. 47 e 48 ccnI).

4.1. Il percorso logico-giuridico seguito dalla
sentenza impugnata è corretto e rispettoso dei principii di diritto formulati
da questa Corte con riguardo al codice disciplinare contenuto nei contratti
collettivi.

In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini
della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la
sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la
continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante,
in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore,
suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre
in dubbio la futura correttezza

dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione
all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e
correttezza.

Spetta al giudice di merito valutare la congruità
della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta
dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce
di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad
un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla
configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva,
all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento

richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità
di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse
sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo (cfr. Cass. n. 2013 del 2012 e, precedentemente, in
senso analogo, tra le tante, Cass. nn. 13574, 7948, 5095, 4060 del
2011).

In particolare, la giusta causa di licenziamento è
nozione legale ed il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto
collettivo onde lo stesso può ritenere la sussistenza della giusta causa per un
grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle
norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave
inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non
sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire
meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e, per altro
verso, può escludere altresì che il comportamento del lavoratore  costituisca di fatto una giusta causa, pur
essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle
circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (cfr. Cass 4060/2011 cit.).

Tuttavia la scala valoriale espressa dal contratto
collettivo deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per
riempire di contenuto la clausola generale dell’art.
2119 c.c.” (Cass. n. 9396 del 2018;
Cass. n. 28492 del 2018; principio ribadito da Cass. n. 14062 del 2019; Cass. n. 14063 del 2019; v. anche Cass. n. 13865 del 2019), considerato altresì che
la legge n. 183 del 2010, art. 30,
comma 3, ha previsto che “nel valutare le motivazioni poste a base del
licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di
giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro” (cfr. Cass. n. 32500 del 2018; circa la natura non
meramente ricognitiva delle disposizioni contenute nella legge n. 183 del 2010, art. 30,
v. anche Cass. n. 25201 del 2016).

Il principio generale subisce eccezione ove la
previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente
rilevante solamente una sanzione conservativa: in tal caso il giudice è
vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior
favore fatta espressamente salva dal legislatore (legge n. 604 del 1966, art. 12).
Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il
giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati
motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti
(cfr., in particolare, Cass. n. 15058 del 2015;
Cass. n. 4546 del 2013; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 1173 del 1996;
Cass. n. 19053 del 1995), a meno che non si accerti che le parti stesse
“non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la
possibilità di una sanzione espulsiva”, dovendosi attribuire prevalenza
alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito
disciplinare di grado inferiore, compiuta dall’autonomia collettiva nella
graduazione delle mancanze disciplinari (cfr. ex multis Cass. n. 1173 del 1996;
Cass. n. 14555 del 2000; Cass. n. 6165 del
2016; Cass. n. 
11860 del 2016; Cass. n. 17337 del 2016).
In ordine ai criteri di interpretazione di un contratto collettivo ed alla
previsione di una scala valoriale recepita dal contratto collettivo, questa
Corte ha già affermato che, in considerazione della sua natura privatistica,
vanno applicate le disposizioni dettate dall’art.
1362 c.c. e ss.,, che sussiste il divieto di interpretazione analogica
delle clausole contrattuali e che l’interpretazione estensiva è possibile solo
ove risulti l'”inadeguatezza per difetto” dell’espressione letterale
adottata dalle parti rispetto alla loro volontà, verifica che deve essere
condotta con particolare severità in un contesto nel quale trova applicazione
il principio generale secondo cui una norma che preveda una eccezione (tutela
reintegratoria nel testo dell’art. 18 della
legge n. 300 del 1970 come novellato dalla legge
n. 92 del 2012) rispetto alla regola generale (tutela risarcitoria) deve
essere interpretata restrittivamente. (Cass. n. 12365 del 2019 e ivi ampi
riferimenti giurisprudenziali; conf. Cass. n.
31839 del 2019).

4.2. E’, dunque, conforme ai principi sopra
richiamati l’operato della Corte distrettuale che ha accertato se sussisteva la
nozione legale di giusta causa di licenziamento, anche alla luce delle
fattispecie previste dal ccnI di settore e sulla base della scala valoriale ivi
contenuta, e pervenuta alla esclusione della ricorrenza di una giustificazione
della sanzione espulsiva, ha svolto – ai fini della scelta del sistema
sanzionatorio da applicare – una disamina sulla ricorrenza delle condizioni
previste dall’art. 18,
comma 4 per accedere alla tutela reintegratoria (dovendo, in assenza, applicare
il regime generale costituito dalla c.d. tutela risarcitoria forte del comma
5).

5. In conclusione, il ricorso va respinto. Le spese
di lite sono liquidate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.

6. Il ricorso è stato notificato in data successiva
a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,
comma 17), che ha integrato il  D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13,
aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: “Quando
l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata
inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un
ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la
stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice
da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo
precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello
stesso”. Essendo il ricorso in questione (avente natura chiaramente
impugnatoria) integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.

 

P.Q. M.

 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare
le spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per
esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore impOrto a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis déllo stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 giugno 2020, n. 12841
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