Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 luglio 2020, n. 14086

Licenziamento disciplinare, Riconoscimento della natura
ritorsiva, Carattere fittizio della malattia, Indagini investigative

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Napoli, con sentenza n.
3751/2018, riformando la sentenza di primo grado, ha dichiarato la legittimità
del licenziamento disciplinare intimato in data 24 ottobre 2007 da A. s.p.a.
alla dipendente P.F. e condannato quest’ultima a restituire l’importo versato
dalla società a titolo di indennità sostitutiva della reintegra, oltre
interessi legali.

Ha altresì rigettato la domanda riconvenzionale
proposta dalla lavoratrice, diretta al riconoscimento della natura ritorsiva
del licenziamento.

2. La sentenza ha ricostruito la vicenda
processuale, in sintesi, nei termini seguenti.

A P.F. era stato addebitato di avere svolto, durante
l’assenza per malattia, un’attività lavorativa presso l’esercizio commerciale
gestito dal proprio compagno, F.C., licenziato anch’egli da A. s.p.a. nel luglio
2007.

Il giudice di primo grado, all’esito della prova
testimoniale e della c.t.u. medico-legale, aveva ritenuto illegittimo il
licenziamento, pronuncia che la società aveva impugnato per dedurre, con il
primo motivo, il carattere fittizio della malattia, atteso che dalle indagini
investigative era emerso l’effettivo svolgimento della diversa attività
lavorativa, circostanza poi confermata in giudizio; con il secondo motivo,
l’erroneo acritico giudizio espresso dal primo giudice che, nel confermare l’eziologia
lavorativa della depressione, aveva aderito alle conclusioni della c.t.u.,
espletata a distanza di dieci anni dai fatti oggetto del giudizio e in
presenza, all’epoca della vicenda, di un’assenza per malattia di ben otto mesi,
seguita da una visita medica di idoneità collegiale che non aveva evidenziato
alcuna patologia; con il terzo motivo, l’erroneità della detrazione solo
parziale dell’aliunde perceptum.

3. Tanto premesso, la Corte di appello ha affermato
che, alla stregua degli elementi acquisiti al giudizio, pur in presenza di una
patologia psichica reale, ma insorta prima e indipendentemente dai fatti
narrati nel ricorso introduttivo, il comportamento contestato alla lavoratrice,
valutato ex ante, era oggettivamente idoneo a ledere il vincolo fiduciario, in
quanto tendente a ritardare il rientro in azienda della dipendente, nel
contesto di una evidente non riconducibilità dello stato patologico a fatti
ascrivibili al datore di lavoro.

Rigettato il primo motivo di appello, in quanto la
documentazione in atti aveva attestato la sussistenza di un disturbo
depressivo, la Corte di appello ha accolto il secondo motivo di impugnazione,
osservando – in sintesi – quanto segue:

a) la percezione soggettiva di un clima vessatorio,
che non aveva trovato alcun oggettivo riscontro probatorio e che appariva
smentito anche sotto il criterio logico e cronologico, non può spingersi sino
al punto di consentire al dipendente di scegliere il contesto più favorevole
dove prestare la propria opera lavorativa, vale a dire di restare assente dal
lavoro senza che sussista alcun collegamento tra la patologia e il
comportamento aziendale;

b) una volta escluso che il clima lavorativo
descritto nel ricorso come causa della patologia possa esserlo stato realmente,
ossia venuto meno oggettivamente il presupposto del nesso causale tra
insorgenza della patologia e comportamento aziendale, lo svolgimento
dell’attività lavorativa in favore di terzi, come quella emersa dal rapporto
investigativo e dalle testimonianze, valutato ex ante, riportandosi cioè
all’epoca lontana dei fatti (2006-2007), è da ritenere censurabile sotto il
profilo della correttezza e buona fede, quale attività oggettivamente idonea a
ritardare il rientro in azienda e che costituisce un’inammissibile alternativa
lavorativa scelta dalla ricorrente;

c) è infondato l’appello incidentale della Francia,
dovendosi escludere il motivo ritorsivo ed essendo semmai ravvisabile “la
creazione artificiosa da parte della lavoratrice di un clima vessatorio e
mobbizzante da parte della società”.

4. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso P.F. sulla base di otto motivi, cui ha resistito la società A. con
controricorso e ricorso incidentale condizionato, affidato ad un motivo. La
ricorrente principale ha altresì depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia
nullità della sentenza e violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ., dell’art. 324 cod. proc. civ. e dei principi che
regolano il giudicato interno, nonché degli artt.
100, 342 e 434
cod. proc. civ. (art. 360, primo comma, n. 4
cod. proc. civ.).

Deduce che non era stata impugnata la sentenza di
primo grado nella parte in cui aveva affermato che non ricorrevano, nella
condotta tenuta dalla lavoratrice in costanza di malattia, gli estremi di un
comportamento contrario ai canoni di diligenza e buona fede, sub specie di
attitudine a ritardare la guarigione e dunque a ritardare la ripresa
dell’attività lavorativa presso A. s.p.a.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia lo
stesso vizio anche in relazione all’art. 360, primo
comma, n. 3 cod. proc. civ..

3. Con il terzo motivo denuncia nullità della
sentenza conseguente a violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112, 115, 342, 434 e 437 cod. proc. civ. e del principio tantum
devolutum quantum appellantum per avere la Corte di appello pronunciato su un
asserito ritardo della guarigione (o sull’aggravamento della malattia) con
conseguente ritardo nel rientro in servizio, mentre la società non aveva mai
allegato che il lavoro prestato dalla ricorrente presso il ristopub del
compagno avesse ritardato la guarigione o aggravato la malattia e così
ritardato il rientro in servizio, né che l’attività lavorativa presso terzi
fosse comunque incompatibile con la malattia medesima.

4. Con il quarto motivo denuncia nullità del
procedimento e della sentenza conseguente a violazione e/o falsa applicazione
dell’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ. e
dell’art. 111, secondo comma, Cost. (art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ.).

Il motivo, che viene proposto “per mero
scrupolo difensivo e in subordine rispetto ai motivi precedenti”, denuncia
nullità della sentenza per avere il giudice di appello rilevato d’ufficio una
questione, ossia il ritardo della guarigione o l’aggravamento della malattia
della ricorrente, che le parti non avevano mai allegato in giudizio e sulla
quale la Corte aveva pronunciato d’ufficio, così incorrendo nel vizio della
c.d. “terza via”, senza previa sollecitazione del contraddittorio.

5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia
violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2110
e 2119 cod. civ. e degli artt. 1 e 3 I. 604/66 e art. 7 I. 300/70 (art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.) nella
parte in cui la sentenza, pur riconoscendo che l’assenza dal lavoro era
ascrivibile a legittimo impedimento, essendo la patologia reale, ha prospettato
un’ipotetica simulazione della malattia, che non era stata neppure contestata
in sede disciplinare. Assume che, una volta constatata la veridicità della
malattia, escludere che la stessa derivi eziologicamente da un illecito
contegno datoriale è del tutto irrilevante ai fini della legittimità del
licenziamento. Inoltre la c.t.u. medico-legale percipiente, espletata in prime
cure, aveva affermato la compatibilità dell’attività lavorativa presso il
ristopub con la ripresa dell’attività lavorativa.

6. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia
violazione e/o falsa applicazione degli articoli
2697 cod. civ. e art. 5
legge 604/66 (art. 360, primo comma, n. 3 cod.
proc. civ.).

In via subordinata rispetto ai motivi precedenti,
deduce che la prova della giusta causa e del giustificato motivo di
licenziamento incombe sempre sul datore di lavoro e che quindi la prova della
incompatibilità gravava sulla società convenuta.

7. Con il settimo motivo denuncia nullità della
sentenza conseguente a violazione e/o falsa applicazione degli art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ. e 115 cod. proc. civ. (art.
360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ.). Assume che, ove si ritenga che
gravi sulla lavoratrice l’onere di dimostrare la compatibilità dell’attività
presso terzi con la malattia per la quale era assente dal lavoro, la sentenza
sarebbe affetta da motivazione apparente o da motivazione perplessa o
obiettivamente incomprensibile per essersi discostata dalle conclusioni
medico-legali integrative della c.t.u..

8. L’ottavo motivo denuncia nullità della sentenza
conseguente a violazione e/o falsa applicazione dell’art. 6 CEDU (art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ.) per
avere la Corte di appello ritenuto inattendibile la deposizione testimoniale di
F.C., basandosi su una lettura meramente cartolare, nonostante la
giurisprudenza della Corte E.D.U abbia ripetutamente stabilito la
indispensabilità di una nuova audizione ogni qualvolta il giudice ritenga di
discostarsi dall’apprezzamento della prova. In subordine, solleva questione di
legittimità costituzionale per violazione dell’art.
111 primo e secondo comma Cost. e dell’art. 117
comma 1, Cost. in relazione alla norma interposta di cui all’art. 6 Cedu.

9. Il ricorso é infondato.

10. I primi quattro motivi vertono sulla medesima
questione: si assume l’erroneità della sentenza per avere ritenuto che lo
svolgimento dell’attività lavorativa in favore di terzi, in costanza di assenza
dal lavoro per malattia, potesse pregiudicare o ritardare la guarigione: con il
primo e il secondo motivo si ritiene che sulla questione si sia formato il
giudicato interno, favorevole alla ricorrente; con il terzo motivo si assume un
vizio di ultrapetizione su questione non sollecitata dalle parti in appello; con
il quarto si censura la sentenza per avere seguito una soluzione che le parti
non avevano prospettato e sulla quale non era stato sollecitato il
contraddittorio.

Tali motivi, prima ancora che infondati, sono
inammissibili, in quanto non colgono l’effettiva ratio decidendi su cui la
sentenza si fonda.

10.1. Tale ratio decidendi prescinde del tutto dalla
questione della idoneità o meno dell’attività lavorativa svolta dalla Francia
in costanza di malattia ad ostacolare o ritardare la guarigione. La sentenza si
incentra, invece, sul concetto di “ritardo nel rientro” al lavoro,
derivante dal comportamento posto in essere dalla dipendente in palese e grave
violazione dei canoni di correttezza e buona fede che devono informare il
comportamento del prestatore di lavoro, in unione all’osservanza dei suoi
doveri lavorativi, concetto ben diverso da quello di avere ostacolato la
guarigione dalla malattia.

11. La Corte di appello, una volta escluso che non
vi era prova in giudizio della condotta vessatoria posta a base delle
allegazioni della ricorrente e ritenuto che la patologia depressiva, insorta
prima dei fatti denunciati in giudizio, aveva trovato la sua genesi in altri
fattori, ha ritenuto che l’esistenza oggettiva di uno stato depressivo, del
tutto privo di correlazione causale con lo svolgimento dell’attività lavorativa
presso A. s.p.a., non potesse spingersi sino al punto da consentire alla
lavoratrice di “scegliere il contesto lavorativo” più favorevole o
gradito, vale a dire di rimanere lontano dall’azienda e prestare altrove la sua
attività lavorativa.

11.1. Tale giudizio è assistito da una articolata
disamina delle risultanze di causa e da una valutazione ampiamente motivata. Il
canone di grave violazione della buona fede e correttezza è stato ravvisato nello
svolgimento dell’attività lavorativa (impegnativa, come riferito in sentenza)
in favore di terzi, “oggettivamente idonea a ritardare il rientro in
azienda”, che costituiva, nel caso di specie, alla luce delle complessive
risultanze di causa, “un’alternativa lavorativa scelta dalla
lavoratrice”.

12. Travisa il nucleo della decisione anche il
quinto motivo, in quanto la sentenza non ha ipotizzato il carattere simulato
della patologia depressiva e neppure ha posto in correlazione l’assenza per
malattia della lavoratrice e il riscontro della insussistenza di un
comportamento colpevole di parte datoriale. La sentenza ha espressamente
affermato che non vi è stata una simulazione fraudolenta, ma che al contempo
andava escluso che la patologia fosse dipesa dal comportamento datoriale
descritto nel ricorso introduttivo.

13. Alla luce di tale complesso motivazionale,
appare inconferente il richiamo della giurisprudenza di questa Corte
riguardante ipotesi diverse.

Parte ricorrente sostiene che la giurisprudenza è
costante nel ritenere che, in caso di malattia (vera e non simulata), si possa
licenziare il lavoratore soltanto quando le assenze esauriscano il periodo di
comporto oppure quando il lavoratore, pur legittimamente assente dal lavoro per
certificata malattia, la aggravi (dolosamente o colposamente) in un qualche
modo, determinando come effetto un ritardo nella guarigione e, come effetto
ulteriore, un ritardo nel rientro in servizio.

Nel caso in esame, tuttavia, coma già detto, la
sentenza impugnata non ha in alcun modo affermato che si versa in un’ipotesi di
ritardo nella guarigione, da cui sia dipeso un ritardo nel rientro la lavoro.

14. Non è stata violata la regola sul riparto degli
oneri probatori (art. 2697 cod. civ. in relazione
all’art. 2119 cod. civ.), in quanto nel
giudizio di merito è stata dimostrata l’effettività della prestazione
lavorativa presso terzi durante l’assenza per malattia (circostanza che neppure
è contestata in sede di legittimità), mentre ogni altra indagine verteva
sull’apprezzamento della giusta causa, la cui valutazione è stata validamente e
correttamente operata dalla Corte di appello.

15. Quanto all’assunto (settimo motivo) di nullità
della sentenza per non avere condiviso le conclusioni rassegnate dal c.t.u.,
occorre premettere che l’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111, sesto comma, Cost. e, nel processo
civile, dall’art. 132, secondo comma, n. 4, cod.
proc. civ. è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o
meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla
funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere
afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure
perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta
una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. (cfr,
tra le altre, Cass. n. 22598 del 2018 e n. 12096
del 2018).

Nella specie, la sentenza ha ampiamente argomentato
le ragioni del suo dissenso: il C.t.u. aveva svolto un apprezzamento a distanza
di molti anni senza considerare tale peculiarità; non aveva considerato il
periodo intermedio, quanto a sviluppi della malattia; aveva recepito
acriticamente la descrizione del vissuto della lavoratrice, la cui versione era
stata peraltro connotata – come poi appurato in giudizio – dalla descrizione
anche di episodi che la Corte di appello ha definito “inventati”. Non
si vede come, in tale iter argomentativo, possano ravvisarsi gli estremi della
motivazione apparente o contraddittoria o perplessa.

16. La questione investita dall’ottavo motivo è
priva di decisività, poiché Corte di appello non ha ancorato la sua decisione
alla testimonianza del C.. La sentenza ha invece valutato un complesso di
elementi probatori, così pervenendo alla conclusione che erano stati comprovati
in giudizio tanto la prestazione lavorativa svolta con continuità dalla
ricorrente in favore di detto C., quanto la vicenda del contrasto tra
quest’ultimo, ex amministratore di A. s.p.a., e la nuova gestione e amministrazione
della società.

17. Il ricorso va dunque rigettato, restando
assorbito l’esame del ricorso incidentale condizionato svolto da A. s.p.a..

18. Le spese del giudizio di legittimità sono poste
a carico della ricorrente principale e liquidate nella misura indicata in
dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella
misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

19. Va dato atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, ai sensi
dell’art. 13, comma 1 – quater, del
d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13
(v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso
incidentale condizionato; condanna la ricorrente principale al pagamento delle
spese, che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.500,00 per compensi,
oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 – quater del d.P.R.
n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 luglio 2020, n. 14086
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