Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 luglio 2020, n. 14976

Licenziamento disciplinare, Assenze ingiustificate,
Trasformazione del contratto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale

 

Premesso

 

Che con sentenza n. 940/2018, depositata il 12 febbraio
2018, la Corte di appello di Napoli, respinto il reclamo del datore di lavoro,
ha confermato la sentenza di primo grado, con la quale era stato annullato il
licenziamento disciplinare intimato, con lettera del 4 novembre 2014, dalla D.
S.r.l. ad A.S. in relazione ad assenze ingiustificate, per complessive 40 ore,
nel periodo dal 16 settembre al 4 ottobre 2014;

– che, ai fini della valutazione di tali assenze, la
Corte ha ritenuto valido ed efficace, sebbene sottoscritto dal responsabile
amministrativo e marito della lavoratrice, l’atto del 5 dicembre 2013, con il
quale il rapporto di lavoro era stato trasformato da tempo pieno a tempo
parziale;

– che in particolare la Corte ha rilevato come la
produzione del documento in originale, nella fase di opposizione, dovesse
considerarsi legittima, nonostante che nella fase sommaria la lavoratrice vi
avesse espressamente rinunciato, a fronte di contestazioni circa la sua
attendibilità e veridicità; ha escluso poi che il responsabile amministrativo
della società fosse privo del potere di disporre la trasformazione del
rapporto, avendo la datrice di lavoro riconosciuto piena validità ad un
precedente suo atto, in data 27 novembre 2013, con cui l’orario di lavoro della
moglie era stato ridotto fino al marzo 2014, ed altresì escluso che egli si
trovasse in una situazione di conflitto di interessi con la società, non
risultando che dalla trasformazione del rapporto fosse derivato alla stessa un
concreto pregiudizio; ha infine escluso, alla stregua di vari elementi, che il
documento fosse stato formato in epoca successiva alla data che vi risultava
indicata;

– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per
cassazione la società, affidato a tre motivi, cui la lavoratrice ha resistito
con controricorso;

– che D. S.r.l. ha depositato altresì memoria
illustrativa;

 

Rilevato

 

che con il primo motivo viene dedotto il vizio di
cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. con
riferimento all’art. 2697 cod. civ. nonché con
riferimento agli artt. 414 e segg. cod. proc. civ.
e a vari principi generali del processo (in tema di onere della prova, potere
dispositivo, ragionevole durata, lealtà e probità nello svolgimento
dell’attività difensiva) per avere la sentenza di appello ritenuto legittima la
produzione in originale, nella fase di opposizione del giudizio di primo grado,
del documento in data 5/12/2013 sottoscritto dal responsabile amministrativo
della società e marito della lavoratrice, con il quale era stata disposta la
trasformazione del contratto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale (per un
totale di 30 ore settimanali), sebbene la ricorrente, dopo di averlo prodotto
nella fase di cognizione sommaria, vi avesse espressamente rinunciato a fronte
delle contestazioni mosse alla sua attendibilità e veridicità;

– che con il secondo motivo viene dedotta la
violazione e falsa applicazione degli artt. e 1398
1399 cod. civ. e di ogni altra norma e
principio in materia di esercizio di poteri di rappresentanza inesistenti e
conseguente inefficacia degli atti posti in essere dal falso rappresentante,
oltre che di rilevanza, estensione ed effetti dell’eventuale ratifica di precedenti
e diversi atti del medesimo, per non avere il giudice di appello esattamente
inteso il contenuto del secondo motivo di gravame, e cioè che il responsabile
amministrativo della società e marito della lavoratrice era privo del potere di
disporre la trasformazione del rapporto, con la conseguenza che, non ricadendo
la questione devoluta con tale motivo nell’ambito dell’art. 1394 cod. civ., in tema di conflitto di
interessi, ma dell’art. 1398, in tema di
rappresentanza senza potere, il percorso logicoargomentativo seguito dalla
Corte era da considerarsi del tutto inappropriato, in quanto fondato sul
riferimento ad una regola diversa rispetto a quella di cui era stata dedotta la
violazione; per avere inoltre la Corte erroneamente tratto dal riconoscimento
di efficacia della comunicazione del 27 novembre 2013 un’attribuzione di
efficacia anche alla nota del 5 dicembre 2013, non essendo peraltro mai
intervenuta la ratifica di tale ulteriore manifestazione di potere negoziale e,
d’altra parte, essendo onere della lavoratrice dimostrare che tale potere era
invece esistente;

– che con il terzo motivo viene denunciata la
violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod.
civ. in relazione agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e di ogni altra norma e
principio in tema di esercizio del potere di apprezzamento della prova per
avere la Corte di appello ritenuto che il documento in data 5/12/2003, sul
quale aveva fondato la propria decisione, fosse attendibile, trascurando,
tuttavia, di considerare plurimi elementi logici e fattuali che, ove esaminati,
avrebbero condotto a conclusioni diverse;

osservato

che il primo motivo è infondato;

– che, come precisato da Corte
cost. n. 78/2015, l’opposizione prevista dalla I.
28 giugno 2012, n. 92 “non verte sullo stesso oggetto dell’ordinanza
opposta (pronunciata su un ricorso ‘semplificato’, e sulla base dei soli atti
di istruzione ritenuti, allo stato, indispensabili), né è tantomeno
circoscritta alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando
eventualmente commessi dal giudice della prima fase, ma … può investire anche
diversi profili soggettivi (stante anche il possibile intervento di terzi),
oggettivi (in ragione dell’ammissibilità di domande nuove, anche in via
riconvenzionale, purché fondate sugli stessi fatti costitutivi) e procedimentali,
essendo previsto che in detto giudizio possano essere dedotte circostanze di
fatto ed allegati argomenti giuridici anche differenti da quelli già addotti e
che si dia corso a prove ulteriori. Il che, appunto, esclude che la fase
oppositoria (nell’ambito del giudizio di primo grado) – in cui la cognizione si
espande in ragione non solo del nuovo apporto probatorio, ma anche delle
ulteriori considerazioni svolte dalle parti, quantomeno in sede di discussione
e nelle eventuali note difensive – possa configurarsi come la riproduzione
dell’identico itinerario logico decisionale già seguito per pervenire
all’ordinanza opposta. La quale – in esito alla fase di opposizione – è
destinata, comunque, ad essere assorbita nella statuizione definitiva che
conclude il primo grado del giudizio: decisione, quest’ultima, che può ben
condurre ad un esito differente (rispetto a quello dell’ordinanza opposta) in
virtù del nuovo materiale probatorio apportato al processo e del suo
ampliamento soggettivo od oggettivo (nei limiti consentiti), anche alla luce
della pressoché totale assenza di preclusioni e decadenze per le parti
nell’ambito della prima fase”;

– che, sulla scorta di tale ricostruzione, è stato
conseguentemente precisato da questa Corte che nel rito di cui alla I. n. 92/2012 “il giudizio di primo grado è
unico a composizione bifasica, con una prima fase ad istruttoria sommaria,
diretta ad assicurare una più rapida tutela al lavoratore, ed una seconda fase,
a cognizione piena, che della precedente costituisce una prosecuzione, sicché
non costituisce domanda nuova, inammissibile per mutamento della causa petendi,
la deduzione di ulteriori motivi di invalidità del licenziamento
impugnato” (Cass. n. 27655/2017); ed altresì precisato che nel rito in
esame “l’eccezione di decadenza dall’impugnativa del licenziamento può
essere proposta per la prima volta nella fase di opposizione, che non ha natura
impugnatoria ma si pone in rapporto di prosecuzione, nel medesimo grado di
giudizio, con la fase sommaria, tanto che il ricorso che la introduce deve
contenere gli elementi indicati dall’art. 414 cod.
proc. civ., ossia quelli idonei a delimitare il tema della decisione nel
giudizio di cognizione ordinaria” (Cass. n.
25046/2015);

– che, pertanto, esattamente la Corte di merito ha
ritenuto l’insussistenza di preclusioni nella formazione della prova in ragione
della produzione, nella prima fase, di un documento in copia e, in sede di opposizione,
del documento in originale, nonostante che nella fase sommaria la parte avesse
rinunciato ad avvalersene, dovendosi considerare che nel giudizio di
opposizione la parte conservi integra ogni opzione istruttoria, a prescindere
dalle scelte processuali in precedenza operate;

– che il secondo motivo è inammissibile, posto che
la sentenza impugnata, dopo di avere esaminato la questione della idoneità,
nella specie, del conflitto di interessi tra rappresentata e rappresentante a
produrre l’annullabilità del contratto, ha comunque preso in considerazione
l’atto del 5 dicembre 2013 anche sotto il profilo di una sua ratifica da parte
della società, in particolare accertando, con adeguata motivazione, come già il
precedente atto del 27 novembre 2013, con il quale l’orario di lavoro della S.
era stato ridotto sino al dicembre 2013, fosse stato “riconosciuto valido
ed efficace” e come non fossero emerse in giudizio ragioni per le quali
“a così breve distanza di tempo la riduzione dell’orario di lavoro in via
definitiva”, come disposta in data 5 dicembre 2013, dovesse ritenersi
“non conforme agli interessi societari” (cfr. sentenza, p. 5);

– che, d’altra parte, pur denunciando la violazione
e falsa applicazione degli artt. 1398 e 1399 cod. civ., la società ricorrente non indica
le affermazioni in diritto, contenute nella sentenza, in contrasto con le norme
regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita
dalla giurisprudenza di legittimità e dalla prevalente dottrina, così da
prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non
risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere il proprio compito di
verificare il fondamento della denunciata violazione (Cass. n. 16038/2013, fra
le molte conformi);

– che egualmente inammissibile è il terzo motivo,
con il quale viene riproposta la questione dell’attendibilità del documento in
data 5/12/2003, criticandosi l’apprezzamento di fatto svolto al riguardo dal
giudice di merito (cfr. sentenza impugnata, pp. 5-6);

– che, d’altra parte, quanto alle norme di diritto
di cui, con il motivo in esame, si assume la violazione e falsa applicazione,
si deve riaffermare il principio, secondo il quale la violazione del precetto
di cui all’art. 2697 cod. civ., censurabile per
cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n.
3, cod. proc. civ., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice
abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era
onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla
differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di
censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte
dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i
ristretti limiti del “nuovo” art. 360 n.
5 cod. proc. civ.: Cass. n.13395/2918), vizio, peraltro, nella specie
precluso dalla c.d. “doppia conforme” ai sensi dell’art. 348 ter, ultimo comma, cod. proc. civ.;
nonché il principio, secondo il quale, in tema di valutazione delle prove, il
principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 cod.
proc. civ., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito,
insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle
predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di
violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella
fattispecie di cui all’art. 360, comma 1, n. 4,
cod. proc. civ., bensì un errore di fatto, che deve essere censurato
attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque
nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5,
cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012,
convertito, con modif., dalla I. n. 134 del 2012
(Cass. n. 23940/2017);

Ritenuto

conclusivamente che il ricorso deve essere respinto;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano
come in dispositivo;

– che di esse va disposta la distrazione ex art. 93 cod. proc. civ. in favore dell’avv. F.P.,
come da sua dichiarazione e richiesta

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per
esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% e accessori di legge, somma di cui dispone la distrazione in favore dell’avv.
F. P..

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 luglio 2020, n. 14976
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