Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 luglio 2020, n. 14968

Licenziamento, Illegittimità, Accertamento, Anticipazioni
del TFR, Irregolarità, Duona fede dalla lavoratrice

 

Rileva che

 

K.I. S.r.l. propose reclamo avverso la sentenza n.
195 del 6 marzo 2018, con la quale il giudice del lavoro di Frosinone aveva
respinto l’opposizione avverso l’ordinanza cautelare dello stesso Tribunale, di
accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimato alla signora A.M.I.
con lettera del 25 maggio 2016 ed ordinato la reintegrazione della lavoratrice
del suo posto di lavoro. Il Tribunale aveva motivato il rigetto
dell’opposizione, avendo ritenuto la legittimità del comportamento osservato
dalla dipendente in base all’istruttoria orale e documentale espletata. La
società con unico motivo di gravame, articolato in più punti, aveva censurato
la sentenza impugnata sia per aver malamente valutato gli esiti
dell’istruttoria condotta, sia per non averle consentito l’espletamento della
perizia grafica e chimica sul documento allegato al numero 2 della produzione
di parte attrice, con la quale alla lavoratrice era stato riconosciuto il bonus
di € 7000 annui sul t.f.r. a decorrere dalla data di assunzione e sul quale il
giudice aveva fondato la propria decisione in relazione alla questione
dell’intervenuto riconoscimento di 21 anticipazioni sullo stesso t.f.r.; la
Corte d’Appello di Roma con sentenza n. 2707 in data 15 / 20 giugno 2018, in
accoglimento del reclamo proposto dalla società, riformava l’impugnata pronuncia,
accertando la legittimità del licenziamento intimato e per l’effetto rigettando
integralmente la domanda della I., quindi condannata al pagamento delle spese
relative all’intero giudizio, all’uopo liquidate per la fase cautelare, per il
giudizio di opposizione e per quello di reclamo;

dalla lettura della contestazione disciplinare
emergeva che parte datoriale aveva inteso contestare, quanto alle anticipazioni
del t.f.r., per un ammontare complessivo di 158.499,86 euro, non soltanto
l’illegittima percezione ma anche il fatto che nella cartella personale non era
risultata registrata alcuna istanza della lavoratrice, né alcuna autorizzazione
alla fruizione delle 21 anticipazioni, cosa confermata dai superiori diretti,
che avrebbero dovuto ricevere le richieste e quindi autorizzarle. Dunque, alla
dipendente era stato contestato non soltanto di aver percepito somme non dovute
a titolo di anticipazione sul t.f.r., ma anche di avere ottenuto dette
anticipazioni illegittimamente, senza che fosse rinvenuta nella sua cartella
personale tutta la documentazione relativa al procedimento. La Corte capitolina
osservava, altresì, che la I. aveva prodotto con il ricorso introduttivo la
lettera datata 16 dicembre 2002 (doc. n. 2), con la quale assumeva esserle
stato attribuito il bonus annuale sopra indicato, e della quale, tuttavia, non
aveva fatto menzione alcuna nel corso del procedimento disciplinare. Tanto meno
detta nota era stata in precedenza prodotta. La sentenza reclamata aveva
recepito le difese della lavoratrice, ritenendo che parte datoriale non avesse
contestato di aver contribuito alla redazione della lettera, asseritamente
falsificata, del 16 dicembre 2002. La missiva non era stata sottoscritta dalla
incolpata e le firme su di essa apposte erano state riconosciute dagli autori
nel corso del processo; il trattamento più favorevole attribuito alla lettera
non era pertanto riconducibile alla dipendente, ma alla società, di modo che il
licenziamento era stato ritenuto illegittimo;

la Corte di merito ha rilevato che la suddetta
lettera del 16 dicembre 2002 aveva effettivamente attribuito la somma annuale
di € 7000 a titolo di integrazione del t.f.r., con effetto retroattivo fin dal
momento dell’assunzione, ma che in essa tuttavia non era contenuta alcuna
autorizzazione preventiva a richiedere tutte le 21 anticipazioni. Parte
datoriale aveva contestato non soltanto la richiesta dell’ottenimento di 21
anticipazioni del t.f.r., in misura superiore al dovuto, ma anche e soprattutto
che nella cartella personale non era stato riscontrato alcun documento
comprovante la formulazione di apposita richiesta di anticipazione e di
rilascio della prescritta autorizzazione da parte dei superiori competenti
(circostanza questa mai contestata, quindi ritenuta pacifica tra le parti.

L’apposita procedura per l’anticipazione del t.f.r.
(domanda del lavoratore interessato e successive autorizzazione, come da
testimonianze acquisite) non risultava essere mai stata seguita dalla I..
Inoltre, le anticipazioni corrisposte non risultavano essere state mai
contabilizzate e neppure indicate nella documentazione fiscale. Era, inoltre,
inverosimile la buona fede dedotta dalla lavoratrice, secondo cui la violazione
delle normative interne era stata determinata dal comportamento colposo
ascrivibile alla società e giammai alla sua persona, avuto riguardo alle
mansioni affidate alla reclamata come da descritto mansionario. Di conseguenza,
secondo la Corte capitolina, la lavoratrice era in grado di comprendere
esattamente l’irregolarità delle anticipazioni ottenute, anche alla luce della
dedotta riscontrata mancanza della documentazione giustificativa, proprio alla
luce del profilo professionale posseduto e delle attività ad essa delegate. E
questa era una circostanza che, indipendentemente dal fatto della veridicità o
meno del bonus sul t.f.r., connotava di rilevante gravità il comportamento
omissivo della I., la quale peraltro risultava anche essere consulente del
lavoro. In conclusione, alla luce della vistosa anomalia della procedura con la
quale la lavoratrice aveva conseguito le contestate anticipazioni, tenuto conto
delle sue particolari competenze professionali, dei compiti ordinariamente a
lei affidati, la I. era certamente a conoscenza delle gravi irregolarità
commesse o comunque in grado di rendersene conto immediatamente. Peraltro,
risultava documentato in atti che quantomeno su alcune anticipazioni concesse
non erano state effettuate neppure le ritenute fiscali. Inoltre, una volta
riscontrate le irregolarità, alla I. era stato chiesto di fornire spiegazioni
sull’accaduto, per cui la stessa aveva risposto che tutto era regolare e che
avrebbe potuto dare i necessari chiarimenti. Significativa al fine di valutare
lo stato soggettivo rilevante della dipendente era pure la circostanza riferita
dal teste Abruzzesi, che aveva dichiarato di aver assistito ad un altro
incontro nel quale la lavoratrice, alla presenza dei signori M., Z. e R., aveva
rinnovato la richiesta di ulteriori anticipazioni del t.f.r., aggiungendo che
non riusciva a comprendere il motivo per cui le veniva negata, visto che non
aveva mai avuto un anticipo di t.f.r.. Detta circostanza dimostrava,
ulteriormente, la sussistenza della malafede in capo alla lavoratrice, la quale
avesse o meno diritto all’ingente t.f.r. riconosciutole, aveva comunque
percepito uno spropositato numero di anticipazioni, per quasi € 150.000, senza
che fosse stata mai rispettata la procedura prevista a/l’interno della società
per la richiesta e senza che sussistessero in atti le previste autorizzazioni
dei superiori, mancando infine le evidenze fiscali di quanto anticipato. Tutto
ciò rendeva irrilevante l’accertamento della falsità della lettera di dicembre
2002 e tutte le posizioni relative alla possibilità previste in società di
riconoscere aumenti di t.f.r. a favore dei lavoratori. La perizia grafica era
peraltro inammissibile, secondo la Corte d’Appello, giacché la sottoscrizione
di un documento poteva essere disconosciuta soltanto da chi l’aveva apposta.
Per altro verso, alla dipendente era stato altresì contestato di aver percepito
indennità secondo la legge n. 104 del 1992 e di
aver percepito, nei giorni di permesso goduti, anche la retribuzione. Secondo
il Tribunale, il rilievo disciplinare era infondato, tenuto conto della prassi
in seno all’azienda, per cui la lavoratrice prestava comunque la propria
attività nei giorni di permesso ricevendo la relativa retribuzione. Tuttavia,
ad avviso della Corte d’Appello, l’osservazione non aveva pregio, visto che in
nessuna delle deposizioni raccolte era emersa la sussistenza di una pretesa
della società avente ad oggetto lo svolgimento di prestazioni lavorative
durante i giorni di permesso in questione. Inoltre, il teste R. aveva
dichiarato non che la lavoratrice aveva sempre percepito la retribuzione
durante i giorni di permesso, ma che ciò era avvenuto solo qualche volta e su
apposita autorizzazione del medesimo testimone. Peraltro, i comportamenti in
questione assumevano anche rilevanza penale, poiché la lavoratrice aveva
percepito contemporaneamente la retribuzione ed il corrispettivo del permesso,
pagato dal datore di lavoro quale adiectus solutionis causa, portato poi in
detrazione sulle somme dovute all’Inps. D’altronde, alla luce delle mansioni
svolte dalla I., dell’esperienza da costei acquisita, della qualità di
consulente di lavoro, ella avrebbe dovuto rendersi conto della illiceità di una
simile prassi, illiceità non esclusa dalla circostanza che in essa fosse
coinvolto un superiore accondiscendente.

Pertanto, la Corte di merito riteneva che anche
soltanto questi due illeciti disciplinari, rivelatisi fondati, fossero di per
sé idonei a determinare il recesso per giusta causa. L’aver conseguito, senza
presentare domande e senza alcuna autorizzazione, 21 anticipazioni del t.f.r., a
prescindere poi dalla accertamento dell’effettività del diritto, e l’avere
usufruito contemporaneamente, ancorché su autorizzazione illecita del
superiore, del permesso ai sensi della legge n.
104/1992 e della retribuzione, tenuto conto delle mansioni svolte e della
particolare competenza acquisita, anche come consulente del lavoro, connotava
il comportamento tenuto di una rilevante gravità e denotava soprattutto un dolo
di elevata intensità, ovvero quantomeno una gravissima ed inescusabile
negligenza. Tali comportamenti risultavano, quindi, idonei a ledere il vincolo
fiduciario del rapporto contrattuale in questione anche per l’avvenire,
legittimando così il recesso in tronco. Le anzidette considerazioni
comportavano l’assorbimento di ogni ulteriore motivo di reclamo, donde
l’accoglimento del gravame con l’accertamento della legittimità del recesso
intimato alla I.;

quest’ultima quindi ha proposto ricorso per
cassazione avverso la sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello come da atto
del 30 luglio 2018, affidato a quattro motivi, cui ha resistito la S.r.l. K.I.
del 3 settembre 2018. In seguito, entrambe le parti hanno depositato memorie
illustrative in vista dell’adunanza del collegio in camera di consiglio,
fissata per il 23 ottobre 2019.

 

Considerato che

 

con il primo motivo la ricorrente ai sensi
dell’articolo 360 n. 3 c.p.c. ha denunciato violazione e falsa applicazione
degli articoli 2119 e 2120 c.c., nonché 33 della legge n. 104 del 1992,
criticando l’impugnata sentenza per il vizio di erronea sussunzione dei fatti
accertati nell’ambito della nozione legale di giusta causa concernente una
clausola generale o norma elastica, censurabile quindi in sede di legittimità.
Secondo la ricorrente, la Corte di merito avrebbe precisato che l’addebito non
riguardava la percezione di somme indebite, ovvero somme percepite a titolo di
anticipazione del trattamento di fine rapporto per un credito effettivamente
maturato, bensì anticipazioni di tale emolumento illegittime per carenza di
richiesta di autorizzazione. Inoltre, la stessa Corte d’Appello aveva giudicato
irrilevante la richiesta di accertamento della falsità della lettera del 2002,
con la quale si assumeva assegnato l’emolumento di € 7000 annui a titolo di
integrazione del t.f.r., richiesta avanzata dalla società, laddove in forza di
tale provvedimento aziendale si spiegava la misura delle anticipazioni percepite
dalla lavoratrice, mentre la società aveva tentato di far accertare una pretesa
falsità per giungere ad affermare che le somme incamerate fosse indebite. Il
giudice di merito aveva ritenuto irrilevante la circostanza, poiché il fatto
contestato non riguardava l’aver incamerato somme non maturate, ma di averle
incamerate in modo illegittimo senza seguire la procedura aziendale. Dunque, la
contestazione della parte provata e valutata dalla Corte di merito concerneva
l’aver ottenuto 21 anticipazioni del t.f.r. senza che esistesse la
documentazione amministrativa corrispondente e senza autorizzazione in effetti
la contestazione riguarda gravissime anomalie concernenti la percezione di
ingenti somme a titolo di anticipazioni sul t.f.r., indennità sostitutiva ferie
non godute, ex festività e r.o.l., arretrati anni precedenti, indennità per
permessi ex I. n. 104-92.

Si imputava, quindi, all’incolpata di aver
complessivamente percepito 21 anticipazioni t.f.r. per un ammontare pari a €
158.499,86 come da dettagliata elencazione delle singole anticipazioni e degli
importi ottenuti per ciascuna di esse, nonché l’omessa contabilizzazione a fini
fiscali e previdenziali: <<Lei ha conseguentemente percepito
anticipazioni t.f.r. misura pari a più del doppio di quanto invece
complessivamente maturato nel corso del rapporto secondo quanto emergente dalla
c.u. 2016, attestanti un ammontare dovuto complessivo di 79.025,00 euro;
anticipazioni di cui, peraltro, non risulta riportato l’erogazione del CUD 2014
riferito al periodo di imposta in cui lei ha percepito l’ultima anticipazione;
nella sua cartella personale non risulta raccolta e nella documentazione
aziendale non risulta registrata alcuna autorizzazione a supporto della
erogazione degli anticipi da lei di volta in volta percepiti a titolo di
anticipazione sul t.f.r. e i suoi superiori diretti che avrebbero dovuto
ricevere ed autorizzare le erogazioni di concerto con la direzione del
personale ci hanno confermato di non aver mai ricevuto alcuna sua richiesta, né
autorizzato alcun anticipazioni t.f.r. in suo favore.

…quando in occasione della elaborazione dei dati
per la predisposizione del mod. C.U. 2016 … sono state rilevate le
squadrature e discordanze nei dati relativi agli anticipi e agli accantonamenti
dei t.f.r. …, interpellata sul problema dall’attuale direttore del personale
… Lei ha più volte cercato di minimizzare, sostenendo che si trattasse di
sole discordanze formali o derivanti dalla trasmigrazione dei dati nel nuovo
sistema informativo di elaborazione delle paghe; da ultimo, in data 2 maggio
2016, quando ha chiesto verbalmente dapprima all’attuale direttore del
personale, in forza soltanto dall’aprile 2015, dr. S. Z., e quindi su invito di
quest’ultimo, direttamente all’amministratore delegato, dr. A. M.,
l’autorizzazione all’erogazione di un’ennesima anticipazione di t.f.r. per un
ammontare di 10.000,00 netti, ha candidamente sostenuto, con entrambi, di non
averne del resto mai fruito in precedenza. …>>). Dunque, secondo parte
ricorrente, la sentenza impugnata andrebbe cassata in quanto sulla base dei
dati fattuali accertati non è possibile ricondurre il “fatto
contestato” alla nozione legale di giusta causa di licenziamento.
L’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare l’articolo 2119 c.c. era viziata sotto il profilo
della correttezza del metodo seguito nell’applicazione la clausola generale,
poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri
e principi desumibili dall’ordinamento generale, ad iniziare dai principi
costituzionali e dalla disciplina particolare, anche collettiva in cui la
fattispecie concreta si colloca. Quindi, il vizio consisteva nell’aver ritenuto
imputabili alla ricorrente gli addebiti che le erano stati mossi. In effetti,
nessuna delle due condotte addebitate ed accertate poteva integrare un
inadempimento imputabile. La motivazione della Corte di merito non teneva conto
dell’articolo 2120, che disciplina l’istituto
dell’anticipazione del t.f.r., laddove non è imposta alcuna forma scritta ad
substantiam né ad probationem. Di conseguenza, secondo la ricorrente, sussiste
la violazione dell’articolo 2120 c.c.
allorquando la Corte di merito aveva ritenuto sussistente una giusta causa di
licenziamento perché sarebbe mancata la documentazione amministrativa relativa
alla domanda e all’autorizzazione delle anticipazioni. Non si poteva imputare
alla ricorrente la carenza di un atto a lei estraneo, che doveva essere
rilasciato e firmato dai suoi superiori. Di certo, allorquando essa lavoratrice
si trovava la anticipazione la busta paga non poteva che ritenere che l’atto
fosse stato emesso. Peraltro, i limiti imposti dall’articolo
2120 c.c. (otto anni di anzianità, massimo 70% dell’importo…
giustificazioni per l’erogazione e possibilità di averla una sola volta) erano
pienamente disponibili e derogabili dalle parti in melius per il lavoratore,
contemplando del resto l’art. 2120, co. 11, c.c.
la possibilità di condizioni di miglior favore da parte di contratti collettivi
o da patti individuali.

Quanto, poi, ai permessi di cui all’articolo 33 della L. n. 104 del
1992, nessun artificio o raggiro era stato attuato in danno dell’I.N.P.S.,
giacché la ricorrente aveva fruito di permessi ed aveva assistito il disabile,
ma aveva anche percepito, talvolta, la retribuzione. Quindi, non vi era stata
alcuna condotta pregiudizievole in danno dell’Istituto previdenziale. Come
accertato dal giudice di merito, l’occasionale pagamento, non dovuto, della
retribuzione era avvenuto su ordine del capo del personale R., quindi proprio
su iniziativa della stessa società, cui erano di conseguenza riferibili gli
atti del suddetto preposto ai sensi degli articoli
1228 e 2049 c.c.. Del resto, essa
ricorrente non poteva che dar corso alle disposizioni impartite da un
collaboratore dell’imprenditore da cui gerarchicamente dipendeva; con il
secondo motivo, ex articolo 360 n. 3 c.p.c., è
stata denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 e 2106 c.c..
Era del tutto errata la misurazione del valore negativo che il fatto contestato
assumeva in relazione agli obblighi in concreto gravanti sul prestatore, anche
con riferimento alla sua posizione nell’organizzazione aziendale, ai compiti e
alle responsabilità affidati. Ribadito che i fatti contestati non erano
sussistenti per mancanza d’imputabilità, la ricorrente ha sostenuto che neanche
l’ellittico riferimento operato dalla sentenza impugnata ad un presunto
comportamento omissivo della stessa avrebbe potuto condure a ritenere
sussistente una giusta causa di recesso. Inoltre, secondo la ricorrente, in
effetti, in base a quanto ritenuto dalla Corte capitolina, la stessa
lavoratrice avrebbe dovuto segnalare l’irregolarità delle elargizioni disposte
in suo favore, con conseguente gravità di una tale condotta omissiva, però non
oggetto della contestazione disciplinare. Ad ogni modo, dette erogazioni erano
avvenute in base a decisione del direttore delle risorse umane R., ovvero del
direttore generale e del direttore di area. Di conseguenza, in totale assenza
di allegazione e prova di un ipotetico patto scellerato tra le anzidette figure
in danno dei soci della convenuta, l’atto dei superiori in ordine ai
trattamenti retributivi di miglior favore verso la dipendente non poteva che
essere ascritto nell’alveo dei trattamenti premianti. Dunque, era del tutto
insussistente l’asserito comportamento omissivo. Comunque, alla luce del
doveroso richiamo alle regole della morale o del costume imposte dalla clausola
generale in questione, risultava del tutto incoerente la valutazione operata
dal giudice di merito rispetto agli standard esistenti nella realtà sociale,
laddove la Corte distrettuale aveva ritenuto gravemente omissivo il
comportamento della ricorrente per non aver segnalato di aver ricevuto del
trattamento di miglior favore della società tramite i suoi superiori. A tutto
voler concedere la condotta rilevata dal giudice poteva essere passibile di una
sanzione di minore gravità, poiché non poteva rompere in modo irreparabile il
nesso fiduciario alla base del rapporto. Sarebbe, quindi, bastata una sanzione
conservativa per assolvere alla funzione punitiva;

con il terzo motivo ex articolo
360 n. 4 c.p.c. è stata denunciata la nullità della sentenza, ovvero del
procedimento circa l’omessa pronuncia per violazione dell’articolo 112 c.p.c.. Nel caso in esame la fattispecie
costitutiva del diritto di licenziare la lavoratrice trovava ostacolo nel fatto
principale impeditivo allegato dalla diretta interessata, costituito dalla
insussistenza della giusta causa dovuta alla mancata imputabilità della
condotta inadempiente. Così risultava integrato il vizio di cui all’articolo 360 n. 4 c.p.c., quale error in
procedendo determinante la nullità della pronuncia da poter far valere in sede
d’impugnazione ai sensi dell’articolo 161, co. 1,
c.p.c.;

con il quarto motivo, infine, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. la ricorrente ha lamentato
violazione e falsa applicazione dell’articolo 2119
c.c. nonché dell’articolo 2120 dello stesso
codice, e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro. Nel caso di
specie il contratto collettivo nazionale di lavoro, applicato pacificamente e
riportato dalla società in occasione del reclamo, all’articolo 72 prevedeva a
titolo di indicazione la multa ovvero la sospensione da infliggersi anche per
l’ipotesi di ingiustificato ritardo nell’inizio del lavoro ovvero della
sospensione o della sua anticipata cessazione ovvero dell’abbandono del proprio
posto di lavoro ovvero per il caso di disattenzione che provochi danni alle
macchine o al materiale o determini sprechi oppure ritardi nell’esecuzione del
lavoro ovvero ne pregiudichi la riuscita. In sostanza, secondo la ricorrente,
nel caso in cui si fosse ritenuto che ella avesse determinato alla società
degli sprechi, non sarebbe stata riconducibile alla nozione della giusta causa
la condotta osservata, ma al più ad un lievissimo inadempimento passibile di
sanzione conservativa. La Corte di merito, invece, aveva omesso di valutare la
fattispecie concreta in base ad una doverosa verifica della contrattazione
collettiva al fine di ritenere sussistente o meno la presenza di una giusta
causa di recesso ex articolo 2119 c.c. ;

tanto premesso, le anzidette doglianze vanno
disattese, tenuto conto soprattutto di quanto, complessivamente e
motivatamente, accertato dalla Corte di merito in relazione alla condotta di
cui all’ampia e dettagliata contestazione disciplinare mossa alla ricorrente,
tra l’altro iscritta all’albo dei consulenti del lavoro, con conseguente
approfondita conoscenza della materia da parte della stessa incolpata,
inquadrata dal 2002 con la qualifica di taxes & fixed assets coordinator e
divenuta per giunta quadro direttivo da gennaio 2010, ragion per cui tra le
mansioni di competenza figurava il dover provvedere all’emissione e alla
relativa trasmissione telematica dei modelli riepilogativi richiesti dalla
normativa previdenziale e fiscale, curare inoltre i rapporti con gli istituti
bancari per l’accredito degli stipendi e di qualsiasi emolumento relativo a
tutto il personale aziendale. Pertanto, dall’articolata contestazione ed in
buona parte riprodotta contestazione, la Corte capitolina ha desunto che gli
addebiti riguardavano “non solo la illegittima percezione” delle 21
anticipazioni di t.f.r., “ma ANCHE” la mancata registrazione di
relative istanze e di corrispondenti autorizzazioni, circostanze confermate
altresì dai superiori della I., competenti a riceverle e, quindi, concederle.
Inoltre, la Corte di merito ha accertato l’esistenza di apposita procedura per
la concessione di anticipazione sul t.f.r. maturato, alla cui osservanza erano
tenuti i dipendenti, tuttavia mai seguita dalla reclamata, per la quale nemmeno
risultava contabilizzata alcuna somma, nemmeno indicata nella corrispondente
documentazione fiscale. La Corte distrettuale ha inoltre escluso la buona fede
in proposito addotta dalla lavoratrice (la quale in sede disciplinare aveva fornito
vaghe giustificazioni), sicché, avuto riguardo al mansionario ed alle
specifiche competenze professionali della reclamata, costei era pienamente in
grado di comprendere l’irregolarità delle anticipazioni ottenute, nel senso
evidentemente che queste non potevano essere confuse con gli ordinari
emolumenti stipendiali dovuti. E al riguardo la Corte di merito, richiamando
anche dichiarazione testimoniale ha evidenziato come la I. si occupasse tra
l’altro della quadratura delle buste paga di tutti i dipendenti e quindi anche
della sua. Pertanto, ella era certamente in grado delle gravi irregolarità
commesse (evidentemente dalla stessa, ancorché con l’eventuale concorso di
altri), o comunque in grado di rendersene conto, tanto più poi che la I., in
seguito alle discordanze rilevate ed alle conseguenti richieste di spiegazioni,
si era limitata ad assicurarne la regolarità per cui avrebbe potuto fornire
chiarimenti, mentre in altra occasione aveva dichiarato di non comprendere il
motivo per cui le veniva rifiutata la richiesta, non avendo mai avuto un
anticipo di t.f.r.. Tanto, dunque, induceva la Corte di merito nel
convincimento della mala fede della lavoratrice, avendo costei in ogni caso
percepito uno spropositato numero di anticipazioni per complessivi 150mila euro
circa.

La Corte capitolina, altresì, ha chiarito come nella
vicenda in esame fosse del tutto irrilevante la veridicità o meno della
controversa missiva datata 16 dicembre 2002, asseritamente di provenienza
datoriale, prodotta dalla lavoratrice soltanto in sede giudiziale (nemmeno
menzionata nel corso del procedimento disciplinare), in base alla quale aveva
la ricorrente in qualche modo giustificato il proprio operato, osservando che
comunque detta lettera non conteneva alcuna preventiva autorizzazione
preventiva in ordine a tutte le ventuno anticipazioni, in numero quindi
giudicato spropositato, per giunta senza alcun riscontro documentale e
contabile, nemmeno a fini fiscali, ciò che di per sé era idoneo a sorreggere la
giusta causa (peraltro, dalla complessiva lettura della sentenza impugnata ben
si comprende che, contrariamente a quanto invece opinato con il ricorso de quo,
attesa soprattutto la evidenziata irrilevanza circa la falsità o genuinità
della suddetta missiva, la Corte di merito non ha in alcun modo ritenuto il
diritto della sig.ra I. alla maturazione del t.f.r. per l’ammontare di
158.499,86).

Di conseguenza, l’accertata reiterata percezione
dell’abnorme numero di anticipazioni, senza apposite richieste da parte della
diretta interessata e senza nemmeno conseguenti concessioni da parte datoriale,
in base alla rilevata procedura, in difetto altresì di pertinente
contabilizzazione e documentazione (fatti riscontrati dalla datrice di lavoro
soltanto all’esito di apposita ed approfondita indagine interna), ben può
integrare gli estremi della giusta causa ex art.
2119 c.c. così da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria, del
rapporto di lavoro, siccome incidente negativamente sull’indefettibile elemento
fiduciario, vieppiù in considerazione delle delicate mansioni svolte nello
specifico dalla dipendente. Ed analogamente va detto per quanto concerne
l’indebita contemporanea percezione, sebbene non sistematica, della
retribuzione e delle indennità per i permessi goduti ex L. n. 104/1992, non rilevando sul punto tanto gli
estremi di una possibile condotta truffaldina, connotata da artifizi e raggiri
da parte della dipendente direttamente nei riguardi dell’ente previdenziale, quanto
piuttosto l’indebito ed oggettivo cumulo di tali emolumenti, tra loro
incompatibili, con conseguente esposizione debitoria della società datrice di
lavoro, anticipatrice dell’indennizzo per conto dell’Istituto erogatore a mezzo
compensazioni, perciò non dovute nei limiti in cui la lavoratrice risultava
comunque ugualmente retribuita. Opportunamente e correttamente, poi, la Corte
di merito non ha mancato di osservare che la reclamata, per giunta nella sua
qualità di consulente del lavoro, ben avrebbe dovuto rendersi conto della
illiceità di una simile prassi, d’altro canto non scriminata dal coinvolgimento
di un superiore accondiscendente, ciò che avrebbe potuto al più comportare una
corresponsabilità, però non integrante alcuna esimente favorevole alla
dipendente in ordine al comportamento tenuto. Per completezza, inoltre, deve
richiamarsi l’art. 2120 c.c., soprattutto
laddove è previsto che l’anticipazione del t.f.r. (non superiore al 70% su
quanto maturato alla data della richiesta) può essere ottenuta una sola volta
nel corso del rapporto di lavoro, mentre nella specie non risultano in atti
condizioni di miglior favore previste da contratti di lavoro o da patti
individuali, ex ultimo comma dello stesso articolo, che nel caso in esame
abbiano eventualmente derogato alla suddetta disciplina;

nei sensi di cui sopra, pertanto, vanno anche
disattese le doglianze formulate con il secondo motivo di ricorso, avendo la
Corte ben chiarito (cfr. in part. il punto 28 della sentenza impugnata, pgg. 7
e 8) le ragioni della ritenuta giusta causa di recesso in relazione
all’accertato illegittimo comportamento tenuto dall’attuale ricorrente nella
vicenda di cui è causa. Ne deriva che le contrarie censure, oltre che
infondate, appaiono inammissibili siccome involgenti pure apprezzamenti di
merito riservati, invece esclusivamente alla Corte d’Appello competente al
riguardo (cfr. del resto Cass. lav. n. 13534 del
20/05/2019, secondo cui l’attività di integrazione del precetto normativo
di cui all’art. 2119 c.c. – norma c.d.
elastica- compiuta dal giudice di merito ai fini della individuazione della
giusta causa di licenziamento, non può essere censurata in sede di legittimità
se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di
sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in
virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto
agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà
sociale. V. altresì Cass. lav. n. 7305 del 23/03/2018, secondo cui l’attività
di integrazione del precetto di cui alla norma elastica ex art. 2119 c.c., compiuta dal giudice di merito –
ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – non può
essere censurata in sede di legittimità allorquando detta applicazione
rappresenti la risultante logica e motivata della specificità dei fatti
accertati e valutati nel loro globale contesto, mentre rimane praticabile il
sindacato di legittimità ex art. 360, n. 3, c.p.c.
nei casi in cui gli “standards” valutativi, sulla cui base è stata
definita la controversia, finiscano per collidere con i principi
costituzionali, con quelli generali dell’ordinamento, con precise norme
suscettibili di applicazione in via estensiva o analogica, o si pongano in
contrasto con regole che si configurano, per la costante e pacifica
applicazione giurisprudenziale e per il carattere di generalità assunta, come
diritto vivente. In senso conforme Cass. lav. n.
16037 del 17/08/2004, precisando che in relazione alle norme che si dicono
“elastiche” perché, al fine di sanzionare sotto il profilo
disciplinare fatti omissivi o commissivi posti in essere da soggetti
appartenenti a determinate categorie o tenuti ad osservare determinati
comportamenti nei confronti di altri soggetti, rimandano, quanto alla
definizione della illiceità della condotta, a modelli o clausole di contenuto
generale per l’impossibilità di identificare in via preventiva ed astratta
tutti i possibili comportamenti materiali costituenti l’illecito, il
collegamento della previsione normativa astratta al caso concreto impone
accertamenti di fatto che si compenetrano strettamente con valutazioni di
natura giuridica. Ne consegue, tenuto conto del tradizionale criterio
distintivo tra giudizio di fatto e giudizio di legittimità, che l’applicazione
delle norme elastiche non può essere censurata in sede di legittimità
allorquando detta applicazione rappresenti la risultante logica e motivata
della specificità dei fatti accertati e valutati nel loro globale contesto,
mentre rimane praticabile il sindacato di legittimità ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ. nei sensi identici
a quanto poi ribadito dalla succitata pronuncia di Cass. n. 7305/18);

il terzo motivo, concernente il preteso error in
procedendo, è inammissibile per difetto del requisito di autosufficienza e di
specificità (in part. ai sensi e per gli effetti dell’art. 366, co. I, n. 6 c.p.c.), mancando in
particolare la compiuta riproduzione degli atti processuali di parte
ricorrente, relativi allenterò pregresso giudizio di merito, dai quali poter
desumere univoca rappresentazione dell’asserita mancanza d’imputabilità della
condotta inadempiente da parte della sig.ra I., avendo per contro la Corte di
merito ha in effetti accertato, mediante una complessiva valutazione delle
acquisite emergenze istruttorie, un reiterato comportamento trasgressivo di
rilevante gravità della lavoratrice, caratterizzato inoltre da significativo
elemento soggettivo, idoneo a ledere il vincolo fiduciario del rapporto
contrattuale in argomento, integrando quindi la giusta causa dell’intimato
licenziamento (invero, la Corte di merito con la motivazione dell’impugnata
sentenza non ha condiviso la ricostruzione della vicenda, nei sensi ritenuti
dal primo giudicante, il quale aveva fatto proprie le difese della lavoratrice,
secondo cui tra l’altro il trattamento più favorevole attribuito con la lettera
del 16 dicembre 2002 non era ad essa riconducibile, ma alla società, laddove
come pure osservato al punto 13 della sentenza impugnata, tuttavia nella
missiva non era contenuta alcuna preventiva autorizzazione a richiedere -né
evidentemente quindi ad ottenere – tutte le 21 anticipazioni, escludendo poi
come già detto la buona fede al riguardo della dipendente, accertando per
giunta che in base a quanto confermato dai superiori della predetta mancavano
le istanze da parte della diretta interessata nonché le conseguenti
autorizzazioni – v. in part. i punti 9 a pag. 4 e con riferimento alle conferme
tratte dall’istruttoria svolta al punto 24 di pag. 7 della medesima pronuncia
n. 2707/18). Di conseguenza, dalle complessive argomentazioni dell’impugnata
pronuncia ben si comprende come l’asserita eccezione della mancanza di
imputabilità sia stata, ancorché implicitamente, senz’altro disattesa dalla
Corte di merito (non escludendo peraltro il concorso di altri nei succitati
indebiti comportamenti, non perciò tuttavia integranti cause di giustificazione
favorevoli alla lavoratrice);

analoghe considerazioni si impongono, infine, per il
quarto e ultimo motivo di ricorso, laddove in primo luogo non risulta indicato
come, quando e dove sia stata dedotta dalla difesa della I., nel corso del
giudizio di merito, la menzionata contrattazione collettiva per la parte in cui
la stessa avrebbe contemplato i fatti di cui alla contestazione disciplinare
(ed in particolare quelli accertati dalla Corte d’Appello, da questa giudicati
rilevanti ai fini della decisione, con assorbimento di ogni ulteriore motivo di
reclamo) punendoli in via disciplinare con mere sanzioni conservative, comunque
non espulsive.

Peraltro, dal ricorso de quo e dall’indice della
produzione in calce allo stesso non è dato nemmeno comprendere se sia stato
prodotto ex art. 369, co. II, n. 4 c.p.c.il menzionato contratto collettivo nel
testo integrale, laddove poi anche la parziale riproduzione del suo art. 72
(pagg. 29 e 30), in cui si accenna a quella che sembra una mera elencazione
semplificativa (M titolo di indicazione”), senza riportarne la necessaria
premessa, con riferimento agli sprechi nemmeno si attaglia alla condotta,
dolosa o quantomeno gravemente colposa, accertata dalla Corte di merito circa
lo spropositato numero di anticipazioni del t.f.r. (a prescindere dal quantum
inerente al corrispondente maturato diritto) conseguito indebitamente (per le
ragioni in precedenza più volte ricordate) dalla lavoratrice unitamente alla
percezione contemporanea di taluni sussidi ex L. n.
104 e di retribuzioni, per la parte in cui risultavano tra loro
inconciliabili; pertanto, il ricorso va respinto, con conseguente condanna
della soccombente al rimborso delle relative spese;

atteso l’esito negativo dell’impugnazione,
sussistono inoltre i presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater del d.P.R. n.
115/02.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al
pagamento delle spese, che liquida, a favore della società controricorrente, in
euro #4500,00# per compensi professionali ed in euro #200,00# per esborsi,
oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 luglio 2020, n. 14968
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