Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 luglio 2020, n. 15112

Infortunio sul lavoro, Risarcimento dei danni patrimoniale,
biologico, morale ed esistenziale, Adozione delle cinture di sicurezza,
Responsabilità, Accertamento

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 10 aprile 2016 la Corte
d’appello di Bologna, in accoglimento dell’appello proposto dalla I.F. s.r.l.
in liquidazione ed in riforma della decisione di primo grado, ha respinto la
domanda avanzata da G.C. nei confronti della società, volta ad ottenere il
risarcimento dei danni patrimoniale, biologico, morale ed esistenziale
conseguenti all’infortunio occorsogli per effetto di una caduta mentre era
intento a movimentare pannelli della lunghezza di due metri e della larghezza
di cinquanta centimetri su una scala a pioli, asseritamente ad una altezza di
circa tre metri ed in assenza di sistemi di contenimento.

1.1. In particolare, il giudice di secondo grado,
pur richiamando le considerazioni della consulenza medica espletata, che aveva
ritenuto le lesioni – consistenti in fratture, trauma cranico e contusioni –
compatibili con la caduta da una altezza di circa tre metri o almeno due, ha
poi escluso la responsabilità della datrice, non reputando possibile onerare la
stessa di una cautela, quale l’adozione delle cinture di sicurezza,
espressamente richiesta soltanto per una altezza superiore rispetto a quella
calcolata dal tecnico – pari a 70/80 centimetri da terra – in ordine alla quale
riteneva raggiunta la prova nel caso di specie.

2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso
G.C., affidandolo a cinque motivi.

2.1. Resiste, con controricorso, la I.F. s.r.l. in
liquidazione.

2.2. La Milano Assicurazioni S.p.A., ritualmente
intimata, non ha spiegato attività difensiva.

 

Considerato in diritto

 

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la
lesione dell’art. 2087 cod. civ. allegandosi,
in particolare, l’irrilevanza della violazione di disposizioni normative
specifiche, essendo, invece, sufficiente che l’evento si verifichi perché non
sono stati adottati gli accorgimenti occorrenti per l’integrità dei lavoratori.

1.1. Con il secondo ed il terzo motivo si deduce,
rispettivamente, la violazione dell’art. 16 e dell’art. 10 D.P.R. n. 164/1956 in
ordine all’obbligatoria utilizzazione di cinture di sicurezza o altri presidi
antinfortunistici in occasione di attività lavorative da svolgersi ad altezza
superiore a due metri.

1.2. Con il quarto motivo si censura la decisione
impugnata per omesso esame di fatti determinanti per il giudizio, con riguardo
alle altezze ed alla dinamica dell’evento.

1.3. Con il quinto motivo, formulato in via
subordinata, si deduce la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.
nonché la omessa motivazione con riguardo alle risultanze istruttorie.

2. Il primo motivo è fondato e deve essere accolto.

2.1. Va premesso, al riguardo, che, secondo quanto
previsto dall’art. 2087 del codice civile, il
datore di lavoro, nell’esercizio dell’impresa, deve adottare tutte le cautele
necessarie per tutelare l’integrità fisica e la personalità dei lavoratori. A
tal fine, egli deve tenere conto sia della particolarità del lavoro che
dell’esperienza e della tecnica.

La norma in questione si pone come principio
generale che trova una migliore esplicazione nella normativa speciale in
materia di prevenzione e assicurazione degli infortuni sul lavoro, ma i cui
confini sono tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori
di lavoro; essa ha valore integrativo rispetto a tale legislazione e
costituisce una norma di chiusura del sistema antinfortunistico.

L’art. 2087 cod. civ.
va ribadito, quindi, impone all’imprenditore, in ragione della sua posizione di
garante dell’incolumità fisica del lavoratore, di adottare tutte le misure atte
a salvaguardare chi presta la propria attività lavorativa alle sue dipendenze.

Come noto, le misure da adottare vanno distinte tra
:1) quelle tassativamente imposte dalla legge; 2) quelle generiche dettate
dalla comune prudenza; 3) quelle ulteriori che in concreto si rendano
necessarie.

Secondo consolidata giurisprudenza di legittimità
(cfr., fra le più recenti, Cass. n. 26495 del 19/10/2018) la norma in esame non
contempla una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del datore di
lavoro, con la conseguenza di ritenerlo responsabile ogni volta che il
lavoratore abbia subito un danno nell’esecuzione della prestazione lavorativa,
occorrendo sempre che l’evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di
obblighi di comportamento, concretamente individuati, imposti da norme di legge
e di regolamento o contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica e dall’esperienza
(ex plurimis, Cass. n. 3785 del 2009; Cass. n. 6018 del 2000, Cass. n. 1579 del
2000).

D’altro canto, ai fini dell’accertamento della
responsabilità datoriale, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a
causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare
l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro,
nonché il nesso tra l’uno e l’altro, mentre grava sul datore di lavoro – una
volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l’onere di
provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver
adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno
medesimo (ex plurimis, Cass. n. 24742 del 2018; Cass. n. 14865 del 2017; Cass.
n. 2038 del 2013; Cass. n. 3788 del 2009; Cass. n. 12467 del 2003; di recente,
in motivazione, Cass. n. 12808 del 2018).

2.1. E’ evidente, pertanto, in base alla
giurisprudenza di questa Corte, che il mero fatto di lesioni riportate dal
dipendente in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa non
determina di per sé l’addebito delle conseguenze dannose al datore di lavoro,
occorrendo la prova, tra l’altro, della nocività dell’ambiente di lavoro (cfr.,
tra le altre, Cass. n. 2038 del 2013) oltre che del nesso causale fra i due
elementi costitutivi della fattispecie.

Orbene, va rimarcato, al riguardo, che la
responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi
di comportamento imposti da norme di legge ma anche suggeriti dalle conoscenze
sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe sul lavoratore che
lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla
salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività
dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, e, posta tale
prova, sussiste per il datore di lavoro l’onere di dimostrare di avere adottato
tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la
malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi
intesi nel senso più ampio.

Sebbene, infatti, l’ambito dell’art. 2087 cod. civ. riguardi una responsabilità
contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici,
nondimeno, va rilevato che (V. sul punto, Cass. n. 3786 del 2009 e Cass. n.
13956 del 2012), pur non configurando la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 cod. civ. un’ipotesi di responsabilità
oggettiva, essa, tuttavia, non è circoscritta alla violazione di regole
d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, sanzionando anche,
alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa
predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l’integrità
psicofisica dei lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta
realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare
sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (si
veda, altresì, Cass. n. 24742 del 2018).

Va infine osservato che il datore di lavoro è
responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia se ometta di adottare
le idonee misure protettive, sia se non accerti e vigili che di queste misure
venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente (Cass. n. 5695 del 2015;
Cass. n. 27127 del 2013; Cass. n. 9661 del 2012; Cass. n. 5493 del 2006).

3. Orbene, nel caso di specie, la Corte si è
limitata ad affermare che il ricorrente, per trasferire i pannelli di legno al
collega posto sul primo pianerottolo della scala in costruzione, ad una quota
di circa metri due dal suolo, era presumibile si trovasse, come ritenuto dal
tecnico incaricato, ad una altezza non superiore a cm 70/80, atteso che una
posizione di lavoro di molto superiore ad 1 m sarebbe stata del tutto
incongrua; d’altra parte, ha aggiunto il Collegio, l’incertezza del quadro
probatorio non può che riflettersi “a danno della parte onerata”.

Ha concluso quindi ritenendo impossibile onerare la
pregressa datrice di una cautela quale la cintura di sicurezza espressamente
richiesta sul solo presupposto di una altezza della posizione di lavoro (due
metri) della quale, nella specie, non sussisteva la prova certa.

3.1. Ritiene il Collegio che tale motivazione non
consenta di reputare correttamente applicati i principi dettati in sede di
legittimità in tema di obblighi di protezione gravanti sul datore di lavoro ai
sensi dell’art. 2087 cod. civ.

Invero, prescindendo dall’altezza della posizione ih
cui stava lavorando il C. e, quindi, dalla sussistenza dell’obbligo di dotare
il dipendente di cinture od altri dispositivi di protezione secondo quanto
previsto dagli artt. 10 e 16 del DPR n. 164 del 1956,
va ancora sottolineato che al lavoratore è sufficiente allegare, oltre al
verificarsi dell’evento dannoso nell’esercizio dell’attività lavorativa, la
nocività dell’ambiente ed il nesso di causalità fra tale nocività e il danno.

Nel caso di specie, risulta incontestata la
movimentazione di pannelli tramite l’utilizzo di una scala, scala che non
dovrebbe essere deputata ad attività che richiedano un movimento su di essa,
quale, appunto, il trasporto di pannelli, come nella specie, che il CTU
definisce di circa metri due di lunghezza e cinquanta di larghezza e cui
ricollega un peso di circa 25 chilogrammi ciascuno.

E’ consolidato l’orientamento di questa Corte
secondo cui l’obbligo di sicurezza di cui all’art.
2087 c.c. – che riveste il carattere di norma di chiusura del sistema
protettivo (cfr., ex alils, Cass. n. 4840 del 2006,
Cass. n. 12138/2003) – impone comunque
all’imprenditore di adottare tutte le misure che secondo l’esperienza e la
tecnica siano in grado di tutelare e garantire l’integrità psico fisica del
lavoratore, restandone quindi esclusi solo gli atti e comportamenti abnormi di
quest’ultimo (cfr., fra le altre, Cass. n. 7125
del 2016).

Orbene, la stessa utilizzazione della scala per
spostare i pannelli in questione, in difetto di qualsivoglia allegazione da
parte della società datrice in ordine ad una imprevedibile azione del
dipendente, deve ritenersi attività non adeguata e pericolosa ove non garantita
da particolari sistemi di protezione ed ancoraggio.

Tale utilizzazione, infatti, che il datore di lavoro
avrebbe dovuto dimostrare ascriversi all’imprevedibile opinamento del C.,
essendo egli tenuto ad accertare e vigilare che non vengano svolte attività
pericolose o che, per il caso di svolgimento delle stesse delle misure di
protezione venga fatto effettivamente uso da parte del lavoratore (fra le
altre, Cass. n. 5695 del 2015) deve ritenersi per sé stessa idonea ad integrare
la nozione di ambiente nocivo che la giurisprudenza di legittimità reputa
allegazione indispensabile al fine della possibilità di configurare una
responsabilità del datore di lavoro. Risulta, infatti, circostanza pacifica fra
le parti quella della utilizzazione della scala per tale funzione e nulla è
stato allegato in contrario dalla società datrice.

Tale allegazione parte ricorrente ha effettuato nel
proprio primo atto difensivo deducendo non solo il fatto dell’uso della scala
per la movimentazione di carichi pesanti, ma, in particolar modo, la mancata
adozione delle cinture ovvero di altri sistemi di sicurezza a garanzia della
stabilità e della conseguente integrità fisica del lavoratore.

Rispetto a tale ambito, la Corte territoriale non si
pronunzia, limitandosi ad arguire una generica “idoneità della scala in
sé, in quanto provvista di sistemi di sicurezza ed assicurata in modo da
garantirne la stabilità” in quanto aspetto non controverso e, comunque,
rimesso alla genericità ed alle imprecisioni delle risultanze testimoniali.

Il Collegio ha ritenuto, quindi, non ipotizzabile
una violazione degli obblighi di protezione di cui all’art. 2087 cod. civ. obliterando completamente il
principio secondo cui, comunque, a fronte di una attività pericolosa di per sé
– quale l’utilizzazione di una scala per ragioni difformi rispetto all’uso
normale cui la stessa è destinata – il datore di lavoro deve approntare tutte
le cautele idonee ad evitare danni al dipendente, fino ad inibirne lo stesso
utilizzo.

Va infatti ribadito il principio secondo cui, pur
non configurando la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 cod. civ. un’ipotesi di responsabilità
oggettiva, essa, tuttavia, non può essere limitata alle ipotesi di violazione
di regole d’esperienza o di regole tecniche già conosciute e preesistenti,
atteso che deve essere sanzionata la stessa omessa predisposizione di tutte le
misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica del lavoratore nel
luogo di lavoro, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore (sul
punto, ex multis, Cass. n. 24742 del 2018).

Tale valutazione risulta del tutto omessa, in uno
all’assenza di deduzione di una prassi volta a disattendere eventuali direttive
inibitorie dell’utilizzazione di una scala non per il semplice innalzamento
verso l’alto, bensì per movimentare pesi, con evidente incremento significativo
della pericolosità (che sarebbe stata sintomatica di un controllo in merito al
rispetto delle misure di prevenzione da parte del dipendente e, quindi,
dell’atipicità della condotta concretamente tenuta), talché la decisione
impugnata appare difforme rispetto ai principi di questa Corte, poiché essa ha
sostanzialmente escluso che l’utilizzazione non conforme ai canoni d’uso della
scala costituisse attività nociva e non imponesse, quindi, l’adozione di
cautele più incisive, confacenti alla singolare situazione di pericolosità,
ovvero la stessa inibizione dell’uso della scala non conforme rispetto a quello
ordinario, in difetto dell’adozione di appositi sistemi di sicurezza, onde
prevenire danni gravi alla persona quali quelli subiti dal C.

4. Alla luce delle suesposte argomentazioni, il
primo motivo deve essere accolto e gli altri vanno reputati assorbiti.

La sentenza deve essere cassata e la causa rinviata
alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, anche in ordine alle
spese relative al giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli
altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la
causa alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, anche in ordine
alle spese relative al giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 luglio 2020, n. 15112
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