Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 luglio 2020, n. 15228

Licenziamento per giusta causa, Mancata applicazione del
principio “ne bis in idem” relativamente all’irrogazione di due sanzioni per lo
stesso fatto, Sospensione cautelativa, funzionalmente fatta valere con gli
effetti tipici di una sospensione disciplinare

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza in data 19 luglio 2018, la Corte
d’Appello di Milano, in riforma della decisione resa dal Tribunale di Como in
sede di opposizione e in accoglimento del reclamo della società, ha dichiarato
la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato a M.B. dalla G.
S.p.A. con comunicazione del 09/01/2017, condannando lo stesso alla rifusione
delle spese di lite. In particolare, il giudice di secondo grado ha posto in
risalto la correttezza dell’operato della società, sia in punto di rilevanza
dell’addebito contestato al fine del venir meno in modo tranchant del vincolo
fiduciario, sia in ordine alla congruità della contestazione, del termine a
difesa e della correttezza della intervenuta sospensione cautelativa operata.

2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso
M.B., affidandolo a quattro motivi.

2.1. Resiste, con controricorso, a G. S.p.A.

2.2. Entrambe le parti hanno presentato memorie.

 

Considerato in diritto

 

1.Con il primo motivo di ricorso si deduce la
violazione o falsa applicazione, in relazione all’art.
360 co.1, n. 3 cod. proc. civ dell’art. 7, comma 2 L n. 300/70,
nonché degli artt. 225 co. 1 n.
4 del CCNL per mancanza di preventiva contestazione dell’addebito e mancata
assegnazione al lavoratore del termine a difesa.

1.1. Con il secondo motivo si deduce la violazione o
falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi
nazionali di lavoro in relazione agli artt. 225 CCNL, 649 cod. proc. pen.e 39 cod.
proc. civ., per il mancato riconoscimento della natura disciplinare della
sanzione irrogata e la conseguente mancata applicazione del principio del ne
bis in idem relativamente all’irrogazione di due sanzioni per lo stesso fatto e
la conseguente mancata declaratoria di irregolarità della procedura
disciplinare ai sensi dell’art.
7 L. n. 300/70.

1.2. Con il terzo motivo si deduce la violazione
dell’articolo 342 cod. proc civ. in ordine al
mancato rilievo d’ufficio dell’inammissibilità dell’appello su alcuni punti
della sentenza di primo grado avente ad oggetto il danno all’immagine della
società e il carattere di novità delle contestazioni disciplinari effettuate
solo in sede di opposizione.

1.3. Con il quarto motivo si deduce la nullità della
sentenza ai sensi dell’articolo 360 comma 1,
n.4, per violazione degli articoli 2697 codice
civile e 115, 116
cod. proc. civ.

Il secondo motivo, da esaminarsi in via preliminare
per ragioni di ordine logico – sistematico, è fondato e deve essere accolto.
Sul punto, la Corte d’appello reputa essenzialmente irrilevante ai fini della
decisione la natura della sospensione dall’attività lavorativa – se cautelare o
disciplinare – definendo tale questione “priva di sostanza”. Osserva
infatti al riguardo il Collegio, che “l’azienda con la lettera di
contestazione aveva annunciato trattarsi di una sospensione cautelativa, di
fatto poi, a quanto pare, funzionalmente fatta valere con la denominazione e
gli effetti tipici di una sospensione disciplinare (dalla durata non inizialmente
fissata), così come si può desumere dalla dizione che figura sulla busta paga
comprensiva di una sintomatica trattenuta salariale; prescindendo dal tema
qualificatorio…”.

Orbene, appare evidente dalla lettura della
motivazione che la Corte non prende una posizione netta sulla natura della
sospensione in oggetto, argomentando sul presupposto della sua irrilevanza al
fine del decidere; talché, pur muovendo dall’iniziale denominazione offerta
dalla società e dalla sostanziale trasformazione dell’originaria sospensione
cautelare in sospensione disciplinare, prescinde dal procedere ad un effettivo
approfondimento di indagine in ordine a tale aspetto, ritenendo rilevante,
invece, esclusivamente la verifica relativa all’adeguatezza del termine a
difesa concesso per l’irrogazione del licenziamento.

Osserva infatti la Corte che al lavoratore sarebbe
spettato semmai di insorgere sugli effetti in secondo tempo manifestatisi,
senza che ciò potesse avere alcun riverbero comunque sul licenziamento
applicato, quale diretta conseguenza della contestazione iniziale e a
prescindere, cioè, dall’indebito innesto in corso d’opera di una possibile
altra sanzione. Essa rileva che la società aveva emesso l’atto di recesso
trascorsi oltre cinque giorni dalla ricezione da parte dell’interessato della
contestazione, assecondando così l’unico obbligo temporale che era legalmente
tenuta ad osservare e così consentendo alla parte di svolgere adeguatamente le
proprie difese, come la stessa aveva fatto, avvalendosi di un rappresentante
sindacale.

2. Tale ricostruzione, rilevante ai fini della
legittimità della contestazione dell’illecito disciplinare e del rapporto fra
questa e l’atto espulsivo, deve, tuttavia, reputarsi manchevole in punto di
diritto, alla luce della possibilità di incorrere in una violazione del
principio del ne bis in idem.

In particolare, l’applicazione del principio di
consunzione (in cui si compendia, appunto, la massima del «ne bis in idem»
ricavabile dal testuale disposto degli artt. 90
cod. pen. e 649 cod. proc. pen.) al
procedimento disciplinare privatistico, ha portato al consolidato orientamento
di questa Corte secondo cui il datore di lavoro, una volta esercitato
validamente il potere disciplinare nei confronti dei prestatore di lavoro in
relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può
esercitare, una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere ormai
consumato, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni
eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva (Cass. n. 17912 del 2016; Cass. n. 22388 del 2014; Cass.
n. 7523 del 2009; Cass. n. 3039 del 1996; Cass. n. 3871 del 1986).

In particolare, è stato sempre confermato il divieto
di esercitare due volte il potere disciplinare per un stesso fatto, sotto il
profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica (ex plurimis:
Cass. n. 26815 del 2018; Cass. n. 3855 del 2017;
Cass. n. 20429 del 2016; Cass. n. 16472 del 2015).

Si è così consolidato il principio in base al quale:
“L’avvenuta irrogazione al dipendente di una sanzione conservativa per
condotte di rilevanza penale esclude che, anche a seguito del passaggio in
giudicato della sentenza penale di condanna per i medesimi fatti, possa essere
intimato ii licenziamento disciplinare, non essendo consentito (in linea con
quanto affermato dalla Corte EDU, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens ed
altri contro Italia, che ha affermato la portata generale, estesa a tutti i
rami del diritto, del principio del divieto di “ne bis in idem”), per
il principio di consunzione del potere disciplinare, che una identica condotta
sia sanzionata più volte a seguito di una diversa valutazione o configurazione
giuridica” (Cass. n. 22388 del 2014; Cass. n. 17912 del 2016; Cass. 24752 del 2017; da ultimo v. Cass. n. 28927 del 2019).

Si afferma, quindi, che, in tema di licenziamento,
qualora il datore di lavoro abbia esercitato validamente il potere disciplinare
nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti,
complessivamente considerati, non può esercitare, una seconda volta, per quegli
stessi fatti, singolarmente considerati, il detta potere, ormai consumato anche
sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica,
essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente
applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva (Cass. n. 26815 del
23/10/2018).

3. Orbene, nel caso di specie, la Corte d’appello
non ha ritenuto rilevante stabilire se, stricto sensu, ed in base ad una
valutazione in fatto, che solo li giudice di merito può compiere, la sanzione
applicata dovesse configurarsi come disciplinare o cautelativa, reputando tale
aspetto irrilevante ai fini dei decidere. Il Collegio, infatti, pur dando
rilievo alla definizione che della sospensione viene offerta ab initio dalla
società, sembra voler affermare, poi, che la sospensione medesima si fosse
modificata, nella sua effettiva attuazione, in una sanzione disciplinare, ma
non approfondisce il punto – in quanto reputato irrilevante rispetto al suo
iter motivazionale – come si evince dalla locuzione “prescindendo dal tema
classificatorio.

4. Ritiene questa Corte che tale omissione si sia
riverberata in una violazione del combinato disposto degli art. 649 cod. proc. civ., e 7 L. n, 300/70 avendo inibito
al giudice di secondo grado di stabilire se effettivamente si corresse ii
-ischio di una violazione del principio dei ne bis in idem.

E’ evidente, infatti, che in presenza di una
valutazione di merito secondo cui la sospensione della attività lavorativa – e
della retribuzione venga configurata quale vera e propria sanzione
disciplinare, come sembrerebbe emergere nel caso di specie dalla detrazione
della retribuzione, in base ad una successiva verifica potrebbe dirsi consumato
il potere disciplinare del datore di lavoro e, pertanto, ricorrente il lamentato
vizio atto ad inficiare la legittimità del licenziamento irrogato.

E’ tale accertamento ad essere difettato nel caso di
specie, avendo omesso la Corte di verificare, in concreto ed in modo certo, se
la prima sospensione dovesse qualificarsi in termini di sospensione cautelare
ovvero disciplinare, con le conseguenze anzidette.

Il presente accertamento dovrà, essere, quindi,
compiuto dalla Corte territoriale in sede di rinvio.

5. Alla luce delle suesposte argomentazioni i
secondo nativo di ricorso deve essere accolto e gli altri vanno ritenuti
assorbiti.

5.1. La causa va rinviata alla Corte d’Appello di
Milano, in diversa composizione, che dovrà pronunziarsi tenendo conto dei
principi sopra enunciati e provvederà, altresì, alla liquidazione delle spese relative
ai giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il secondo motivo di ricorso, assorbiti gli
altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la
causa alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione, anche in ordine alle
spese relative al giudizio di legittimità.

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