Il professionista sanitario che assista un familiare disabile ha diritto al lavoro da remoto purché tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione.
Nota a Trib. Roma (ord.) 20 giugno 2020, n. 12525
Sonia Gioia
Per gli addetti alle professioni e alle attività sanitarie nel settore della sanità pubblica, l’interesse all’integrità psico-fisica deve trovare “un necessario e equilibrato contemperamento con le esigenze di servizio pubblico reso dalle strutture in cui vengono svolte tali attività, essendo esse destinate alla tutela di un bene di pari valore costituzionale come la salute della collettività”.
Pertanto, laddove la tutela delle condizioni psico-fisiche dei professionisti sanitari possa entrare in conflitto con le esigenze di rendere un servizio pubblico, occorre operare “una valutazione in concreto, basata sulle circostanze della singola fattispecie, sulle modalità con le quali assicurare l’uno senza pregiudicare l’altro”.
È quanto stabilito dal Tribunale di Roma (ord. 20 giugno 2020, n. 12525), che ha riconosciuto ad un’assistente socio- sanitario, assegnata ad una task force per fronteggiare l’emergenza da Coronavirus, il diritto di svolgere le proprie mansioni, concernenti la gestione dei rapporti con i cittadini, in modalità di lavoro agile, al fine di salvaguardare la salute propria e del figlio portatore di handicap grave.
Al riguardo, nell’operare un bilanciamento tra la tutela dell’interesse collettivo e quello individuale alla cura della salute, il giudice, entrando nel merito di scelte attinenti all’esercizio delle prerogative datoriali, ha ritenuto che il diniego dell’azienda sanitaria alla richiesta di accesso al lavoro agile (c.d. smart working) non fosse sorretto da “concrete ed effettive” esigenze di servizio, dal momento che la lavoratrice poteva espletare le proprie funzioni di interlocuzione con i cittadini anche da remoto. A nulla rilevando, a tal fine, né la temporaneità dell’assegnazione alla task force aziendale né la circostanza che alla prestatrice, in ragione della qualifica di assistente socio – sanitario, potessero essere eventualmente attribuiti compiti diversi e ulteriori, quali le visite on site per le indagini epidemiologiche presso le strutture socio- sanitarie e residenziali.
Pertanto, il Tribunale, sostenendo che, nel caso di specie, le esigenze familiari della prestatrice erano prevalenti sulle necessità del servizio sanitario nonché sull’interesse datoriale (pur meritevole di tutela) di avvalersi della prestazione lavorativa presso i propri locali, ha ordinato all’azienda sanitaria di consentire all’operatrice lo svolgimento delle proprie mansioni in modalità di lavoro agile, non sussistendo motivi di incompatibilità con le peculiarità dell’attività d’impiego. Ciò, in applicazione dell’art. 39, co. 1, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. decreto Cura Italia), convertito con modificazioni in L. 24 aprile 2020, n. 27, il quale prevede che, fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da Covid-19, i lavoratori dipendenti portarti di handicap grave (di cui all’art. 3, co. 3, L. 5 febbraio 1992, n. 104) o che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona con disabilità, hanno diritto di svolgere le proprie mansioni in smart working, “a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione”.
Sull’applicazione della disciplina emergenziale del lavoro agile, v. anche, in questo sito, Trib. Grosseto, sez. lav., ord. 23 aprile 2020, n. 502, con nota di M.N. BETTINI, “Diritto allo smart working e Covid-19”, e Trib. Bologna, decreto 23 aprile 2020, con nota di F. GIROLAMI, “Lavoratore disabile e diritto al lavoro agile”.