Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 20 luglio 2020, n. 152
Pensioni di invalidità, Beneficiari, Mutilati ed invalidi
civili totalmente inabili al lavoro, Determinazione del relativo importo
mensile, pari, per l’anno 2020, a euro 286,81, Denunciata violazione dei
principi di eguaglianza e di ragionevolezza, del diritto al mantenimento in
favore di ogni cittadino inabile al lavoro, anche in relazione agli obblighi
internazionali, Richiesta di rideterminazione dell’importo, Inammissibilità
della questione, Maggiorazioni sociali dei trattamenti pensionistici,
Invalidi civili totalmente inabili al lavoro, Soggetti di età pari o superiore
a sessanta anni, anziché di età superiore a diciotto anni, Irragionevole
disparità di trattamento con i beneficiari dell’assegno sociale e violazione
del diritto al mantenimento in favore di ogni cittadino inabile al lavoro,
Illegittimità costituzionale nei sensi e nel termine di cui in motivazione, Legge 30 marzo 1971, n. 118, art.
12, primo comma; legge 28
dicembre 2001, n. 448, art. 38, comma 4, Costituzione, artt. 3, 38, primo
comma, 10, primo comma, e 117, primo comma, questi ultimi due in relazione
agli artt. 4 e 28 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle
persone con disabilità, e agli artt.
26 e 34 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea.
Ritenuto in fatto
1.- Nel corso
di un giudizio civile – promosso, tramite il (padre) suo tutore, da una donna
di anni 47, affetta da tetraplegia spastica prenatale, invalida al lavoro al
100 per cento, la quale lamentava che la pensione di inabilità da lei percepita
(ex art. 12 della legge 30 marzo
1971, n. 118, recante «Conversione in legge del decreto-legge
30 gennaio 1971, n. 5, e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi
civili») fosse «largamente insufficiente a garantirle il soddisfacimento dei
bisogni primari della vita», per cui chiedeva condannarsi il convenuto Istituto
nazionale della previdenza sociale (INPS) a pagarle la pensione di inabilità
«in misura non inferiore» al minimo previsto dall’art. 38 della legge 28 dicembre 2001,
n. 448, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)» ovvero «in misura non
inferiore all’assegno sociale», di cui all’art. 3, comma 6, della legge 8
agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e
complementare) e, «comunque, in misura tale da assicurarle il proprio decoroso
mantenimento» – la Corte d’appello di Torino, sezione lavoro, adita in sede di
gravame avverso la sentenza del Tribunale sfavorevole alla ricorrente, ha
sollevato, con l’ordinanza in epigrafe, questioni di legittimità
costituzionale:
1) del predetto art. 12, primo comma, della legge
n. 118 del 1971, «nella parte in cui attribuisce al soggetto totalmente
inabile, affetto da gravissima disabilità e privo di ogni residua capacità
lavorativa, una pensione di inabilità […] insufficiente a garantire il
soddisfacimento delle minime esigenze vitali, in relazione agli artt. 3, 38, comma
1, 10, comma 1, e 117,
comma 1, Cost.»;
2) dell’art.
38, comma 4, della legge n. 448 del 2001, «nella parte in cui subordina il
diritto degli invalidi civili totali, affetti da gravissima disabilità e privi
di ogni residua capacità lavorativa, all’incremento previsto dal comma 1 al
raggiungimento del requisito anagrafico del 60° anno di età, in relazione agli artt. 3 e 38, comma 1,
Cost.».
1.1.- In
punto di rilevanza, la Corte torinese premette che risulta documentalmente provato
che l’appellante, in conseguenza della patologia di cui soffre, «è costretta a
vivere su una sedia a rotelle, è totalmente dipendente da terzi per il
compimento di tutti gli atti della vita (lavarsi, vestirsi, alimentarsi,
coricarsi, ecc.), dispone di limitatissime funzioni intellettive, comunicative
e relazionali, non essendo neppure in grado di parlare ed esprimere i propri
bisogni».
Sottolinea,
quindi, come la stessa – a parte l’indennità di accompagnamento, che assolve
però a funzione (compensativa) diversa da quella di sostentamento – di non
altro, a tal fine, disponga che della pensione di inabilità, ammontante, nel
2018, ad euro 282,55 per tredici mensilità, oltre alla maggiorazione di euro
10,33 mensili di cui all’art. 70,
comma 6, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria
2001)».
E un tale complessivo importo – ne inferisce il
Collegio rimettente – non è certamente sufficiente a garantire all’appellante
«il soddisfacimento dei più elementari bisogni di vita».
1.2.- Da qui, dunque, sempre secondo il giudice a
quo, la non manifesta infondatezza, della (prima) questione di legittimità
costituzionale dell’art. 12,
primo comma, della legge n. 118 del 1971, per contrasto:
a) con l’art.
38, primo comma, Cost., poiché «[l]a necessità di contemperare il diritto dei
cittadini inabili privi dei mezzi necessari per vivere e, come nel caso, anche
della benché minima capacità di guadagno, di conseguire dallo Stato quanto
necessario per soddisfare le esigenze elementari della vita con le
disponibilità finanziarie e con il principio, pure di rilievo costituzionale,
[…] di assicurare l’equilibrio di bilancio» non potrebbe spingersi fino al
punto di ritenere conformi al precetto costituzionale evocato disposizioni,
come quella denunciata, che «assicurino ai soggetti in questione provvidenze in
concreto del tutto inidonee a garantire l’effettivo soddisfacimento delle
minime esigenze vitali»;
b) con l’art. 3 Cost., atteso che – stante la riconosciuta
“assimilabilità” (in ragione della comune funzione assistenziale)
della pensione di inabilità all’assegno sociale (ammontante all’epoca ad euro
458 mensili), di cui all’art. 3,
comma 6, della legge n. 335 del 1995 – sarebbe irragionevole e
discriminante il «trattamento di ammontare sensibilmente inferiore» riservato
al soggetto inabile;
c) con gli artt. 10,
primo comma, e 117, primo comma, Cost., in
relazione agli artt. 4 e 28 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti
delle persone con disabilità, adottata il 13 dicembre 2006, ratificata dallo
Stato italiano con legge 3 marzo 2009, n. 18,
e cui ha aderito anche l’Unione europea (decisione del Consiglio n. 2010/48 del
26 novembre 2009), e agli artt.
26 e 34 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, alla quale il
Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, entrato in vigore l’1 dicembre 2009,
«ha conferito il medesimo valore giuridico dei trattati». Atteso che la norma
impugnata risulterebbe inevitabilmente non in linea con gli obblighi di
protezione sociale dei disabili assunti dall’Italia sul piano internazionale e
comunitario, come considerati nelle richiamate fonti interposte.
1.2.1.- Al fine della reductio ad legitimitatem del
denunciato primo comma dell’art.
12 della legge n. 118 del 1971 – conclude, quindi, la Corte rimettente –
«[s]i rinvengono d’altronde nell’ordinamento diverse disposizioni di legge che,
pur non individuando direttamente l’ammontare della pensione idoneo ad
assicurare al pensionato mezzi adeguati alle esigenze della vita, forniscono
ciononostante indicazioni significative in tal senso: […] ad esempio il nuovo
testo dell’art. 545, comma 7, c.p.c. […], che
ha stabilito l’impignorabilità delle somme dovute a titolo di pensione, di
indennità che tengono luogo di pensione o di altri assegni di quiescenza
“per un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno
sociale aumentato della metà” nonché il già citato art. 38 della legge n. 448 del 2001
che ha disposto, in presenza di determinati requisiti reddituali e di età,
l’incremento “al milione” di diversi trattamenti pensionistici dei
soggetti disagiati “fino a garantire un reddito proprio pari a 516,46 euro
al mese per tredici mensilità».
1.3.- Quanto
alla seconda questione sollevata, osserva poi la Corte torinese che l’art. 38, comma 4, della legge n. 448
del 2001 – «laddove subordina il diritto degli invalidi civili totali,
anche se in condizioni di gravissima disabilità e privi di ogni residua
capacità lavorativa, all’incremento in esso previsto al raggiungimento del
requisito di 60 anni di età» – violi, a sua volta, gli artt. 3 e 38,
primo comma, Cost.
2.- In questo
giudizio incidentale si è costituita la parte attrice appellante nel
procedimento principale. La cui pretesa – sottolinea, in premessa, il suo
difensore – «è propriamente quella di vedersi garantita quella “misura
minima essenziale”, sancita dalla Corte costituzionale nella propria
giurisprudenza, ossia l’erogazione di un importo che le consenta di vivere
decorosamente».
2.1.- Nell’aderire
alla prospettazione della Corte rimettente in ordine alla illegittimità
costituzionale dell’art. 12,
primo comma, della legge n. 118 del 1971, osserva, quindi, detta parte come
«[l]a scelta operata dal legislatore di trattare gli invalidi con meno favore
rispetto agli anziani [sia] ancora più grave quando si riferisce ad invalidi
assoluti, che dovrebbero evidentemente essere fatti oggetto di un trattamento
di maggior favore (e non viceversa, come invece accade)», e ciò renderebbe
manifesta la violazione dell’art. 3 Cost.
Ricorda poi,
con riferimento all’art. 38 Cost., come, nella
sua formulazione originaria, l’art.
12 della legge n. 118 del 1971 garantisse agli inabili un importo (lire
234.000 annue) ben superiore a quello (lire 156.000 annue) riconosciuto agli
ultrasessantacinquenni privi di reddito. E ciò in linea «con lo spirito dei
costituenti», ispiratore dell’art. 38, con cui
si sarebbe posta, invece, in contrasto la legislazione successiva.
Argomenta ancora, con riferimento al vulnus che la
disposizione censurata arrecherebbe ai parametri internazionali, come ciò sia
in particolare evidenziato dal Report pubblicato il 6 ottobre 2016 dal Comitato
per l’applicazione in Italia della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti
dei disabili, nel quale «il Comitato si dichiara preoccupato dalla mancanza di
standard minimi di assistenza sociale (“Minimum Standards of Social
Assistance”) nel nostro paese e raccomanda di velocizzare il processo di
adozione e attuazione dei suddetti standard».
Sostiene,
infine, che il denunciato art.
12 della legge n. 118 del 1971 – attuando un trattamento sfavorevole nei
confronti di appartenenti ad una categoria protetta (quella appunto dei
disabili) – violi, con ciò, anche il «principio di non discriminazione», che
«è, invero, uno dei cardini della costruzione comunitaria, sia sul piano
economico che su quello sociale, ed è sancito sia nella carta di Nizza (art. 21) che nella Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo (art.
14)».
2.2.- La difesa della parte costituita condivide
anche le censure rivolte dal Collegio rimettente all’art. 38, comma 4, della legge n. 448
del 2001, per il profilo del (non ragionevole) requisito anagrafico cui è
subordinato l’incremento (cosiddetto “incremento al milione”) ivi
previsto, «in quanto il percettore della pensione di inabilità con età
inferiore ai 60 anni si trova in una situazione di inabilità lavorativa che non
è certo meritevole di minor tutela rispetto a quella in cui si troverebbe al
compimento del sessantesimo anno di età».
3.- Si è costituito anche l’INPS, che, in via
preliminare, ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate che, a suo
avviso, tenderebbero a «ottenere una risposta che rientra nella sfera propria
del legislatore», prospettando una «radicale trasformazione delle norme
censurate».
3.1.- Nel merito, la questione relativa all’art. 12 della legge n. 118 del 1971,
sempre secondo la difesa dell’Istituto, sarebbe manifestamente infondata perché
basata sull’erroneo presupposto che la pensione di inabilità sia assimilabile
all’assegno sociale di cui all’art.
3, comma 6, della legge n. 335 del 1995 e alla pensione sociale di cui all’art. 26 della legge 30 aprile
1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia
di sicurezza sociale). Ciò che contrasterebbe, invece, con l’«evidente
disomogeneità» dei trattamenti comparati, «ulteriormente avvalorata dalla
diversa modulazione dei limiti di reddito che, nel trattamento assistenziale
dell’assegno sociale, sono meno favorevoli di quelli previsti per
l’attribuzione del beneficio di invalidità, rilevando anche quello del coniuge
e alla [recte: dalla] diversità delle componenti del reddito prese in esame ai
fini della sussistenza del requisito utile al diritto». Mentre la preferenza,
che la rimettente lamenta irragionevolmente accordata ai cittadini di anni
superiori ai (65 poi) 67, sarebbe giustificata dal fatto che la vecchiaia
costituisce un’autonoma condizione bisognosa di tutela nel disposto dell’art. 38 Cost.
3.2.-
Analoghi motivi di infondatezza sussisterebbero, ad avviso dell’INPS, con
riguardo alla questione che ha ad oggetto la cosiddetta “integrazione al
milione”, di cui all’art. 38,
comma 4, della legge n. 448 del 2001, trattandosi di «maggiorazione sociale
[che] nasce come forma particolare di incremento ed è misura di natura
assistenziale autonoma e distinta dalla pensione (quindi non comparabile con
l’istituto della integrazione al minimo) la quale continua ad essere regolata e
corrisposta in base alla propria normativa».
4.- E’
altresì intervenuto in questo giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri.
L’Avvocatura
generale dello Stato, che lo rappresenta e difende, ha nell’ordine eccepito:
–
l’inammissibilità delle questioni sollevate «per invasione della sfera
riservata alla discrezionalità del legislatore»;
–
l’inammissibilità, per incertezza del petitum (non essendone chiaro il verso
caducatorio o manipolativo) e per mancata indicazione del rapporto (di
alternatività o di subordinazione) tra le suddette questioni;
–
l’infondatezza di entrambe le questioni nel merito.
4.1.- Quanto
alle censure rivolte alla disposizione relativa alla pensione di inabilità,
sostiene, infatti, l’Avvocatura che la rimettente non avrebbe indicato in modo
chiaro quale sarebbe l’importo ragionevole ed adeguato di tale emolumento,
stante l’incerta ed erronea evocazione di plurimi tertia comparationis, facenti
riferimento «all’assegno sociale per gli ultrasessantacinquenni (nel 2019, euro
458 mensili), al nuovo art. 545, comma 7, c.p.c.
(che prevede l’impignorabilità delle somme dovute a titolo di pensione,
indennità a titolo di pensione o di altri assegni di quiescenza per un
ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale
aumentato della metà – quindi all’incirca di euro 687 mensili), all’incremento
della stessa pensione di inabilità previsto per gli ultrasessantenni (euro
516,46 per 13 mensilità) o alla maggiorazione al milione [di lire] per i
titolari di assegno o pensione sociale giunti al settantesimo anno d’età (per
il 2020, euro 648,26 per 13 mensilità)».
L’ordinanza di rimessione avrebbe poi, comunque,
errato nel porre a raffronto tre misure di carattere assistenziale, quali la
pensione di inabilità, l’assegno sociale e la maggiorazione sociale, introdotte
per rispondere a distinte situazioni di fragilità sociale non comparabili tra
loro.
Non avrebbe, inoltre, tenuto conto della globalità
delle misure approntate dal legislatore a tutela della disabilità, con la
previsione di forme di sostegno, anche non economico, atte a garantire un
effettivo diritto al mantenimento e un’assistenza materiale adeguata rispetto
alle minime esigenze di vita dei soggetti non autosufficienti.
4.2.- Quanto
alla seconda questione, il Presidente del Consiglio sottolinea come il
censurato art. 38 della legge n. 448
del 2001 – prevedente, con decorrenza dal primo gennaio 2002, una
particolare maggiorazione in favore dei pensionati ultrasettantenni titolari di
prestazioni previdenziali e assistenziali di importo inferiore al milione delle
vecchie lire – già rechi una disposizione di favore per i soggetti totalmente
invalidi, ai quali la maggiorazione può essere concessa con un anticipo di ben
10 anni rispetto a tutti gli altri titolari di prestazioni previdenziali e
assistenziali.
Andrebbe, infine, adeguatamente considerata l’esigenza
di contemperare i valori costituzionali, in tesi incisi, con il principio di
bilancio, che costituisce anch’esso un valore costituzionale. Né una simile
comparazione potrebbe, in ogni caso, prescindere dall’entità delle risorse che
il bilancio riserva alla tutela della disabilità nel suo complesso, ivi incluse
tutte le prestazioni di carattere assistenziale e sanitario.
5.- Fuori termine, hanno presentato opinione, a
titolo di amici curiae, la formazione sociale senza scopo di lucro ULCES –
Unione per la lotta contro l’emarginazione sociale; la Fondazione Promozione
sociale onlus; la Federazione italiana P. – W. – Sezione Piemonte; L.S. –
Associazione genitori ragazzi handicappati Collegno e Grugliasco e la redazione
della rivista P. assistenziali, edita dall’Associazione promozione sociale Aps.
6.- Nell’imminenza dell’udienza, sia la difesa della
parte appellante nel giudizio a quo, sia l’Avvocatura dello Stato hanno
depositato ulteriori memorie.
6.1.- Nel contestare partitamente le argomentazioni
dell’INPS e del Governo la difesa della disabile, tra l’altro, sostiene che:
– non sarebbe condivisibile la tesi dell’asserita
diversità della pensione di inabilità rispetto all’assegno sociale, poiché
«[c]iò che conta, al fine dello scrutinio di costituzionalità sotto il profilo
della ragionevolezza, è che entrambi gli emolumenti sono diretti a soddisfare
il bisogno di persone che non sono in grado di procurarsi da sole i mezzi per
vivere. E’ irrilevante, invece, che le rispettive platee dei destinatari siano
state eventualmente individuate con diversi criteri reddituali»;
– analoghe
considerazioni varrebbero per l’integrazione al minimo;
– non fondato
sarebbe, poi, l’argomento per cui la Convenzione di New York porrebbe obiettivi
di risultato ma non mirerebbe a garantire al disabile una propria autonomia
economica, non essendo sostenibile che «una pensione (quella di inabilità)
manifestamente insufficiente al sostentamento della persona, inferiore agli
standard internazionali e per di più sensibilmente inferiore rispetto ad
analoghi emolumenti dell’ordinamento nazionale, sia coerente con la tutela del
disabile sotto l’aspetto della protezione delle effettive condizioni di
esistenza, della dignità e della non discriminazione.
L’inadeguatezza della pensione di inabilità lascia
il disabile in una miserabile condizione di povertà»;
– errata
sarebbe anche la tesi per cui il mantenimento del disabile sia a carico della
famiglia e, solo in via sussidiaria, a carico dello Stato, poiché «la
disabilità non deve essere considerata come una “disgrazia familiare”
ma come l’oggetto di un intervento pubblico a tutela di una situazione di
inferiorità e bisogno elevata a diritto soggettivo fondamentale».
6.2.-
L’Avvocatura dello Stato, a sua volta, ribadisce che «l’intervento additivo
richiesto dal rimettente attiene alla sfera della discrezionalità del
legislatore perché rientra nell’ambito della generale politica sociale ed
esclusivamente ad esso legislatore spetta la scelta delle varie soluzioni
possibili».
Torna a sottolineare l’erroneità della censura
fondata dalla Corte rimettente «solo sull’aspetto quantitativo della
prestazione di invalidità civile, […] perdendo di vista la globalità delle
misure approntate dal legislatore a tutela della disabilità». Conclude che
l’esigenza di completezza della tutela «è destinata a soccombere “di
fronte alla limitatezza delle disponibilità finanziarie che è possibile
destinare nel quadro di una programmazione generale degli interventi di
carattere assistenziale” (cfr. Corte cost. 248/11, Corte cost. 111/05)».
7.- L’INPS ha depositato memorie fuori termine.
Considerato in diritto
1.- Con
l’ordinanza in epigrafe – emessa nel corso del giudizio di cui si è riferito
nel Ritenuto in fatto – la Corte d’appello di Torino, sezione lavoro, ha
sollevato duplice questione di legittimità costituzionale:
a) dell’art. 12, primo comma, della legge
30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del decreto-legge
30 gennaio 1971, n. 5, e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi
civili), «nella parte in cui attribuisce al soggetto totalmente inabile,
affetto da gravissima disabilità e privo di ogni residua capacità lavorativa,
una pensione di inabilità […] insufficiente a garantire il soddisfacimento
delle minime esigenze vitali, in relazione agli artt.
3, 38, comma 1, 10,
comma 1, e 117, comma 1, Cost.»;
b) dell’art.
38, comma 4, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, recante «Disposizioni
per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge
finanziaria 2002)», «nella parte in cui subordina il diritto degli invalidi
civili totali, affetti da gravissima disabilità e privi di ogni residua
capacità lavorativa, all’incremento previsto dal comma 1 al raggiungimento del
requisito anagrafico del 60° anno di età, in relazione agli artt. 3 e 38, comma 1,
Cost.».
2.-
Pregiudiziale al vaglio di legittimità costituzionale delle disposizioni così
censurate è l’esame delle plurime eccezioni di inammissibilità delle
correlative questioni, formulate dall’Avvocatura generale dello Stato e (la
prima di esse anche) dalla difesa dell’INPS.
2.1.- Eccepisce in primo luogo, infatti,
l’Avvocatura dello Stato che quanto richiesto dalla rimettente a questa Corte –
e cioè di «intervenire a modificare la misura della pensione di inabilità
ovvero ad eliminare il requisito anagrafico per l’applicazione delle
maggiorazioni previste dall’art. 38,
comma 4, della L. 448/01» – «esorbiti dal mero controllo di conformità alla
Costituzione, invadendo il campo delle scelte e della discrezionalità del
legislatore».
E, sulla
stessa linea, sostiene la difesa dell’INPS, che «entrambe le questioni tendono
ad ottenere una risposta che rientra nella sfera propria del legislatore».
2.1.1.- Questa eccezione – in quanto rivolta alla
prospettazione stessa delle questioni, per sostenerne (in via pregiudiziale
appunto) l’ostatività ex se ad una delibazione delle formulate censure – è, in
tali termini, non fondata.
La Corte
rimettente non contesta, infatti, la discrezionalità del legislatore
nell’individuazione delle misure necessarie – e, in questo caso, nell’importo
della pensione – a tutela dei disabili.
Denuncia, invece, con riguardo al disposto del primo
comma dell’art. 12 della legge
n. 118 del 1971, che l’importo pensionistico ivi previsto, per la sua
inadeguatezza ad assicurare al disabile anche il «minimo vitale», vada al di là
del limite delle garanzie, essenziali e insopprimibili, dovute a tale categoria
di soggetti: limite non valicabile dal legislatore. E, sotto tale profilo,
chiede di sindacare la citata disposizione, alla luce anche di maggiori importi
di (a suo avviso) omogenee forme di sussidio, indicati come «grandezze predate»
agli effetti dell’intervento richiesto a questa Corte. Ciò che dunque esclude
l’inammissibilità, prima facie, della questione.
Allo stesso
modo, per quanto attiene all’art. 38
della legge n. 448 del 2001, la rimettente non revoca in dubbio la
pertinenza di tale disposizione all’area della discrezionalità legislativa, ma
dell’esercizio di tale discrezionalità chiede un controllo, nella prospettiva
di una asserita manifesta irragionevolezza della scelta normativa che ne è
conseguita.
2.2.- La sola
Avvocatura dello Stato contesta, poi, ancora, l’ammissibilità delle questioni
sollevate, sotto il duplice profilo dell’asserito carattere
“ancipite” ed “incerto” del suo petitum.
Sostiene, infatti, che il Collegio a quo abbia posto
due questioni di legittimità costituzionale, aventi ad oggetto «disposizioni
eterogenee», in termini di irrisolta alternatività e senza chiarire il verso –
meramente ablativo o manipolativo – dell’intervento richiesto a questa Corte
sulle disposizioni censurate.
Neppure tali
ulteriori eccezioni sono suscettibili di accoglimento.
2.2.1.- Per
costante indirizzo di questa Corte, «l’alternatività del petitum che rende
ancipite, e pertanto inammissibile, la questione di legittimità costituzionale
è quella che non può essere sciolta per via interpretativa, e che si configura,
quindi, come un’alternatività irrisolta» (da ultimo sentenze
n. 75 e n. 58 del 2020; ordinanza n. 104 del 2020).
Nel caso in
esame, la motivazione complessiva dell’ordinanza di rimessione – pur non
recando una formale e testuale qualificazione delle due questioni sollevate,
rispettivamente, come “principale” (la prima) e
“subordinata” (la seconda) – fa, comunque, emergere, con chiara
evidenza, il nesso sequenziale che ne caratterizza la prospettazione, nel senso
che la questione relativa all’art.
38, comma 4, della legge. n. 448 del 2001 è logicamente subordinata al
rigetto di quella sollevata, in via prioritaria, con riguardo all’art. 12, primo comma, della legge
n. 118 del 1971. Il che, appunto, esclude l’asserito carattere ancipite del
petitum.
2.2.2.- Neppure è ravvisabile l’eccepita incertezza
in ordine all’intervento richiesto dalla Corte torinese.
Infatti, dagli argomenti utilizzati dall’ordinanza
si evince chiaramente che, sia per l’art. 12 della legge n. 118 del 1971,
sia per l’art. 38 della legge n. 448
del 2001, il giudice a quo non invoca la pura cancellazione di dette norme
dall’ordinamento, bensì la loro modificazione, rispettivamente, nel senso
dell’aumento dell’importo riconosciuto a titolo di pensione di inabilità ovvero
nel senso di eliminare il requisito anagrafico per l’applicazione del
cosiddetto “incremento al milione” ai soggetti totalmente invalidi.
3.- Con la questione proposta in via principale il
Collegio a quo dubita, come detto, della legittimità costituzionale della
disposizione di cui al primo comma dell’art. 12 della legge n. 118 del 1971,
nella parte in cui attribuisce al soggetto totalmente inabile, affetto da
gravissima disabilità e privo di ogni residua capacità lavorativa, una pensione
di inabilità di importo pari, nell’anno 2018, ad euro 282,55, nell’anno 2019,
ad euro 285,66 e, nell’anno 2020, ad euro 286,81.
Tale
disposizione si porrebbe, infatti, in contrasto con gli artt. 3, 38, primo
comma, nonché con gli artt. 10,
primo comma, e 117, primo comma, Cost., questi
ultimi in relazione agli artt. (evocati solo in motivazione all’ordinanza di
rimessione) 4 e 28 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle
persone con disabilità, adottata il 13 dicembre 2006, ratificata dallo Stato
italiano con legge 3 marzo 2009, n. 18, e cui
ha aderito anche l’Unione europea (decisione del Consiglio n. 2010/48 del 26
novembre 2009), e agli artt. 26
e 34, in particolare terzo
comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE),
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre
2007, essendone l’effetto quello di disconoscere agli inabili al lavoro il
diritto ad un mantenimento adeguato, in ragione della misura insufficiente
della pensione di inabilità loro spettante, irragionevolmente inferiore
rispetto alla misura riconosciuta a titolo di assegno sociale e a titolo di
incremento della pensione di invalidità civile per gli ultrasessantenni e,
comunque, inidonea a liberare l’inabile dalla condizione di bisogno in cui
versa ed a garantirne condizioni di vita almeno dignitose.
3.1.- La norma così denunciata testualmente dispone
che «[a]i mutilati ed invalidi civili di età superiore agli anni 18, nei cui
confronti […] sia accertata una totale inabilità lavorativa, è oncesso a
carico dello Stato e a cura del Ministero dell’interno [ora: dell’INPS], una
pensione di inabilità di lire 234.000 annue [attualmente di euro 3.728,53] da
ripartire in tredici mensilità […]».
Il limite di
reddito personale per potere usufruire della pensione è pari, per il 2020, ad
euro 16.982,49 ed è riferito al titolare della pensione e non anche al coniuge.
Al compimento dell’età anagrafica per la maturazione
del diritto all’assegno sociale, l’importo della pensione di inabilità civile
viene adeguato all’importo dell’assegno sociale e il soggetto non è più
sottoposto alla verifica della sussistenza dei requisiti sanitari.
3.2.- Nel motivare il sospetto di illegittimità
costituzionale della riferita disposizione, nei vari profili della sua
prospettazione (come più ampiamente in narrativa indicati), il Collegio
rimettente muove, in ogni caso, dall’assunto che il trattamento pensionistico
riconosciuto al soggetto totalmente invalido «non è certamente sufficiente, per
comune esperienza, a garantire il soddisfacimento dei più elementari bisogni
della vita, come alimentarsi, vestirsi e reperire una abitazione». E perviene,
conclusivamente, a chiedere a questa Corte di individuare un importo diverso e
costituzionalmente adeguato della suddetta pensione, anche alla luce delle
provvidenze di più elevato importo (in particolare, l’assegno sociale di cui
all’art. 3, comma 6, della legge
8 agosto 1995, n. 335, recante «Riforma del sistema pensionistico
obbligatorio e complementare»), predisposte dal legislatore in favore di
soggetti versanti in analoghe condizioni di bisogno economico ed utilizzabili
come misure di riferimento.
3.3.- E’ condivisibile quanto esposto in premessa
dal giudice a quo.
L’importo mensile della pensione di inabilità, di
attuali euro 286,81, è innegabilmente, e manifestamente, insufficiente ad
assicurare agli interessati il “minimo vitale” e non rispetta,
dunque, il limite invalicabile del nucleo essenziale e indefettibile del
«diritto al mantenimento», garantito ad «ogni cittadino inabile al lavoro»
dall’art. 38, primo comma, Cost.
La semplice
comparazione con gli importi riconosciuti per altre provvidenze, avvinte da
analoga matrice assistenziale e prospettate come grandezze di raffronto,
conferma che la misura della pensione di inabilità non è idonea a soddisfare la
soglia (non già del solo minimo “adeguato” riconosciuto ai lavoratori
dall’art. 38, secondo comma, Cost., ma) dello
stesso minimo vitale per far fronte alle esigenze primarie e minute della
quotidianità – ossia alle pure esigenze alimentari – quale nucleo indefettibile
di garanzie spettanti agli inabili totali al lavoro.
Detti valori
di comparazione sono rappresentati: a) dall’assegno sociale per gli
ultrasessantasettenni, pari nel 2020 ad euro 459,83 mensili; b)
dall’impignorabilità relativa delle somme dovute a titolo di pensione,
indennità a titolo di pensione o di altri assegni di quiescenza, di cui al
novellato art. 545, settimo comma, cod. proc. civ.,
per un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno
sociale aumentato della metà, pari, sempre nell’anno 2020, ad euro 689,74
mensili; c) dall’incremento della stessa pensione di inabilità previsto per gli
ultrasessantenni, pari attualmente ad euro 651,51 per tredici mensilità; d)
dalla cosiddetta maggiorazione al milione per i titolari di assegno o pensione
sociale giunti al settantesimo anno di età, pari sempre per l’anno 2020 ad euro
648,26 per tredici mensilità; e) dal reddito cittadinanza, quale misura
assistenziale temporanea, il cui ammontare corrisponde all’attualità ad euro
500,00 mensili, oltre euro 280,00 per eventuali voci accessorie.
3.4.- Non rileva in contrario che agli invalidi
civili «che si trovano nell’impossibilità di deambulare senza l’aiuto
permanente di un accompagnatore o, non essendo in grado di compiere gli atti
quotidiani della vita, abbisognano di un’assistenza continua» sia concessa
anche l’indennità di accompagnamento di cui all’art. 1 della legge 11 febbraio
1980, n. 18 (Indennità di accompagnamento agli invalidi civili totalmente
inabili), la cui misura mensile ammonta ad euro 520,29 per l’anno 2020. Diversa
è, infatti, la funzione cui, rispettivamente, assolvono la pensione di
inabilità e l’indennità di accompagnamento, le quali sono rispettivamente volte
(la prima) a sopperire alla condizione di bisogno di chi, a causa
dell’invalidità, non è in grado di procacciarsi i necessari mezzi di sostentamento,
e (la seconda) a consentire ai soggetti non autosufficienti (in ambito
familiare e senza aggravio per le strutture pubbliche) condizioni esistenziali
compatibili con la dignità della persona umana (sentenza n. 346 del 1989).
Tanto implica che, mentre la pensione di inabilità
civile rientra tra le provvidenze destinate al sostentamento della persona,
nonché alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili per il contesto
familiare in cui il disabile si trova inserito (sentenza
n. 40 del 2013), l’indennità di accompagnamento, in quanto diretta a
consentire ai soggetti non autosufficienti condizioni esistenziali compatibili
con la dignità della persona umana ex artt. 2 e
38, primo comma, Cost., costituisce una
provvidenza specifica, funzionalmente diversa ed “aggiuntiva”
rispetto alle prestazioni assistenziali connesse alle invalidità. Essa, dunque,
non può essere negata per il fatto che, a determinare il richiesto stato di
invalidità civile assoluta, concorrano menomazioni – come la cecità parziale –
che danno diritto ad autonome prestazioni, in quanto contrasta con il principio
di eguaglianza concedere o meno una prestazione assistenziale a soggetti che ne
siano parimenti bisognevoli, a seconda che fruiscano o meno di provvidenze
preordinate ad altri fini (sentenza n. 346 del 1989). Il che è confermato anche
dalla Corte regolatrice, per la quale l’indennità di accompagnamento ha
presupposti diversi rispetto alla pensione di inabilità, essendo finalizzata
all’assistenza della persona non autosufficiente, senza riferimento alla
capacità lavorativa (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 21 gennaio 2005, n. 1268; sezione lavoro,
sentenza 28 agosto 2000, n. 11295), e destinata a svolgere una funzione di
sostegno alla famiglia, così da agevolare la permanenza in essa di soggetti
bisognevoli di continuo ontrollo, evitandone il ricovero in istituti pubblici
di assistenza, con conseguente diminuzione della spesa sociale (Corte di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 23 dicembre 2011, n. 28705).
3.5.- Ciò dunque rilevato – quanto alla manifesta
inadeguatezza dell’emolumento pensionistico in questione rispetto all’esigenza
di garantire i mezzi necessari per vivere alle persone totalmente inabili al
lavoro – non può, però, chiedersi a questa Corte anche una diretta e autonoma
rideterminazione del correlativo importo, poiché un tale intervento
manipolativo invaderebbe l’ambito della discrezionalità, che – nel rispetto del
«limite invalicabile» di non incidenza sul nucleo essenziale e indefettibile
del diritto in gioco – resta, comunque, riservata al legislatore, cui compete
l’individuazione delle misure necessarie a tutela dei diritti delle persone
disabili (ex plurimis, sentenze n. 275 del 2016,
n. 80 del 2010, n.
251 del 2008). Attesa anche la pluralità di soluzioni prospettate come
possibili dalla Corte rimettente, in correlazione alle varie (per di più solo
latamente omogenee) grandezze di riferimento, la scelta tra le quali è pur
sempre demandata alla discrezionalità del legislatore (sentenze n. 166 del 2017, n. 88 del 1992 e n. 769
del 1988).
In
particolare, la misura della pensione di inabilità non può essere equiparata
all’importo dell’assegno sociale, attesa l’eterogeneità strutturale e
funzionale dei sussidi posti a confronto. Infatti, l’assegno sociale
costituisce una prestazione assistenziale, erogata agli ultrasessantacinquenni
(ora sessantasettenni), istituita in attuazione dell’art.
38 Cost. per far fronte al «particolare stato di bisogno derivante dall’indigenza,
risultando altre prestazioni – assistenza sanitaria, indennità di
accompagnamento – preordinate a soccorrere lo stato di bisogno derivante da
grave invalidità o non autosufficienza, insorte in un momento nel quale non vi
è più ragione per annettere significato alla riduzione della capacità
lavorativa, elemento che, per contro, caratterizza le prestazioni assistenziali
in favore dei soggetti infrasessantacinquenni» (sentenze
n. 12 del 2019 e n. 400 del 1999).
E nello stesso senso la pregressa pensione sociale –
sostituita appunto dall’assegno sociale – consiste in una prestazione di natura
assistenziale, che mira a soccorrere i cittadini anziani sprovvisti dei mezzi
necessari per vivere (sentenza n. 31 del 1986).
3.6.- La questione sollevata in via principale
(ancorché non in limine, ma in esito all’effettuato scrutinio di legittimità
costituzionale della norma denunciata) è, pertanto, inammissibile, per il
profilo ostativo della discrezionalità legislativa, cui restano, appunto,
riservate le variabili della sua reductio ad legitimitatem.
4.- Stante il
mancato accoglimento della questione che precede, viene di conseguenza in esame
quella sollevata in via subordinata dalla Corte rimettente, avente ad oggetto
l’art. 38, comma 4, della legge n.
448 del 2001.
4.1.- Il
citato art. 38 nel suo complesso:
– prevede, al
comma 1, che le «maggiorazioni sociali dei trattamenti pensionistici», ivi di
seguito elencati, siano incrementate, «a favore dei soggetti di età pari o
superiore a settanta anni», «fino a garantire un reddito proprio pari a euro
516,46 al mese [cosiddetto “incremento al milione” di lire]»;
– aggiunge,
al comma 4, che il beneficio incrementativo di cui al comma 1 è concesso anche
ai «soggetti di età pari o superiore a sessanta anni che risultino invalidi
civili totali […]»;
– precisa, al
comma 5, che « l’incremento di cui al comma 1 è concesso in base alle seguenti
condizioni: a) il beneficiario non possieda redditi propri su base annua pari o
superiori a euro 6.713,98; b) il beneficiario non possieda, se coniugato e non
effettivamente e legalmente separato, redditi propri per un importo annuo pari
o superiore a euro 6.713,98, né redditi, cumulati con quello del coniuge, per
un importo annuo pari o superiore a euro 6.713,98 incrementati dell’importo
annuo dell’assegno sociale; c) qualora i redditi posseduti risultino inferiori
ai limiti di cui alle lettere a) e b), l’incremento è corrisposto in misura
tale da non comportare il superamento dei limiti stessi; d) per gli anni
successivi al 2002, il limite di reddito annuo di euro 6.713,98 è aumentato in
misura pari all’incremento dell’importo del trattamento minimo delle pensioni a
carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, rispetto all’anno precedente»;
– esclude, al
comma 6, che il reddito della casa di abitazione venga in rilievo ai fini della
concessione della maggiorazione.
4.1.1.- L’art.
39, comma 4, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, recante «Disposizioni
per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge
finanziaria 2003)» ha poi stabilito che «[i]l comma 1 dell’articolo 38 della legge 28 dicembre
2001, n. 448, si interpreta nel senso che l’incremento delle pensioni in
favore dei soggetti disagiati, comprensivo della eventuale maggiorazione
sociale, non può superare l’importo mensile determinato dalla differenza fra
l’importo di 516,46 euro e l’importo del trattamento minimo, ovvero della
pensione sociale, ovvero dell’assegno sociale».
Il comma 8
dello stesso art. 39 della legge n.
289 del 2002, a sua volta, ha disposto che «[l]a lettera d) del comma 5
dell’articolo 38 della legge 28
dicembre 2001, n. 448, si interpreta nel senso che, per gli anni successivi
al 2002, sono aumentati in misura pari all’incremento dell’importo del
trattamento minimo delle pensioni a carico del Fondo pensioni lavoratori
dipendenti, rispetto all’anno precedente, il limite di reddito annuo di
6.713,98 euro e l’importo di 516,46 euro di cui al comma 1 del predetto
articolo». Infine, l’art. 5, comma
5, del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81 (Disposizioni urgenti in materia
finanziaria), convertito, con modificazioni, in legge
3 agosto 2007, n. 127, ha disposto che «[c]on effetto dal 1° gennaio 2008,
l’incremento delle pensioni in favore di soggetti disagiati di cui all’articolo 38, commi da 1 a 5, della
legge 28 dicembre 2001, n. 448, è concesso secondo i criteri ivi stabiliti,
tenuto conto anche di quanto previsto dall’articolo 39, commi 4, 5 e 8, della
legge 27 dicembre 2002, n. 289, fino a garantire un reddito proprio pari a
580 euro al mese per tredici mensilità e, con effetto dalla medesima data,
l’importo di cui al comma 5, lettere a) e b), del medesimo articolo 38 è
rideterminato in 7.540 euro. Per gli anni successivi al 2008 il limite di
reddito annuo di 7.540 euro è aumentato in misura pari all’incremento
dell’importo del trattamento minimo delle pensioni a carico del Fondo pensioni
lavoratori dipendenti, rispetto all’anno precedente».
4.1.2.- Pertanto, alla stregua dei riferiti criteri
di aggiornamento, l’importo della maggiorazione sociale per gli invalidi civili
che godono della pensione di inabilità, per effetto del raggiungimento della
soglia anagrafica di sessanta anni, è pari, per l’anno 2019, ad euro 649,45 e,
per l’anno 2020, ad euro 651,51, per tredici mensilità; mentre i limiti
reddituali che consentono di usufruire del beneficio sono rispettivamente: per
l’anno 2019 euro 8.442,85 per il pensionato solo ed euro 14.396,72 per il
pensionato coniugato e per l’anno 2020 euro 8.469,63 per il pensionato solo ed
euro 14.447,42 per il pensionato coniugato.
4.2.- Secondo il Collegio a quo, la condizione
anagrafica (raggiungimento del sessantesimo anno di età) stabilita, sub comma 4
dall’art. 38 della legge n. 448 del
2001, per la concessione dell’incremento agli invalidi civili totali,
sarebbe irragionevole «allorché l’invalido, come nel caso ben prima del
compimento del 60° anno di età, si trovi in ragione delle patologie sofferte in
condizioni di gravissima disabilità e privo della benché minima capacità di
guadagno».
Ed
ulteriormente irragionevole e discriminatoria sarebbe la disposizione
denunciata laddove ai titolari di assegno (o pensione) sociale concede
l’incremento in questione per il solo raggiungimento del settantesimo anno di
età «anche se esenti da patologie invalidanti» mentre «un soggetto totalmente
inabile di età compresa fra 18 e 59 anni che si trovi per di più in condizioni
di gravissima disabilità […] viene a percepire una pensione di invalidità
pari a poco più della metà».
4.3.- La
questione è fondata, in relazione ad entrambi i parametri costituzionali
evocati dal rimettente, nei sensi e nel termine di seguito riportati.
Il censurato requisito anagrafico di sessanta anni è
effettivamente irragionevole, in quanto il soggetto totalmente invalido di età
inferiore si trova in una situazione di inabilità lavorativa che non è certo
meritevole di minor tutela rispetto a quella in cui si troverebbe al compimento
del sessantesimo anno di età.
Inoltre, se è
ragionevole che, nei confronti di altri percettori di assegni (o pensioni)
sociali, la situazione di maggior bisogno e la correlata necessità di ulteriore
sostegno economico, in assenza di loro compromissioni invalidanti, sia
correlata all’ingresso in una fascia di età avanzata, non ragionevole è invece
che la stessa correlazione (sia pure rispetto ad una inferiore fascia
anagrafica) sia mantenuta anche con riguardo ai titolari di pensione di
inabilità, totalmente incapaci al lavoro, la cui condizione di precarietà,
fisica ed economica, è certamente preesistente e non può ritenersi inverata
solo al compimento del sessantesimo anno di età.
Le
minorazioni fisio-psichiche, tali da importare un’invalidità totale, non sono,
infatti, diverse nella fase anagrafica compresa tra i diciotto anni (ovvero
quando sorge il diritto alla pensione di invalidità) e i cinquantanove,
rispetto alla fase che consegue al raggiungimento del sessantesimo anno di età,
poiché la limitazione discende, a monte, da una condizione patologica
intrinseca e non dal fisiologico e sopravvenuto invecchiamento. E così, con
riferimento al caso da cui origina la questione, la difficoltà deriva dalla
iagnosticata tetraplegia spastica neonatale, essendo l’interessata incapace,
non solo a svolgere i più elementari atti quotidiani della vita (come lavarsi,
vestirsi, alimentarsi), ma anche a comunicare con l’esterno, condizione questa
dipendente dalla menomazione pregressa e non dal superamento di determinate
soglie anagrafiche. E ciò diversamente dalle condizioni che legittimano
l’incremento dell’assegno sociale al raggiungimento del settantesimo anno di
età per gli aventi diritto all’assegno sociale ai sensi dell’art. 38, comma 1, della legge n. 448
del 2001: in questa evenienza è ragionevole ritenere che lo stato di
bisogno di una persona sana si aggravi fisiologicamente con l’anzianità, ossia
con il raggiungimento del settantesimo anno di età.
4.3.1.- Decisivo e assorbente è poi, comunque, il
rilievo che l’assegno riconosciuto agli inabili, ex art. 12 della legge n. 118 del 1971,
è, per quanto innanzi detto, largamente insufficiente a garantire loro i mezzi
necessari per vivere. Per cui l’avere (la norma censurata) escluso i titolari
di tale inadeguato assegno, in età compresa dai diciotto ai cinquantanove anni,
dalla platea dei soggetti beneficiari del cosiddetto “incremento al
milione” innesca un ulteriore profilo di contrasto – in particolare del
suo comma 4 – con gli artt. 3 e 38, primo comma, Cost.
4.4.- Va,
pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 38, comma 4, della legge n. 448
del 2001, nella parte in cui, con riferimento agli invalidi civili totali,
dispone che i benefici incrementativi di cui al comma 1 sono concessi «ai
soggetti di età pari o superiore a sessanta anni» anziché «ai soggetti di età
superiore a diciotto anni».
5.-
L’estensione del beneficio incrementativo agli invalidi civili – che ne
consegue – è ovviamente subordinata alle più stringenti condizioni reddituali
di cui alle lettere a) e b) del comma 5 dello stesso art. 38 della legge n. 448 del 2001
e spetta nei limiti di cui alla lettera c) della medesima disposizione.
6.- La maggior spesa a carico dello Stato, che la
presente pronuncia comporta, non si risolve – come in tesi dell’INPS – in
«violazione dell’art. 81 della Costituzione», poiché, nella specie, vengono in
gioco diritti incomprimibili della persona.
Ciò, in linea
di principio e sia pur con più attenuata declinazione, è riconosciuto anche
dall’Avvocatura generale dello Stato, che ritiene «condivisibile l’affermazione
secondo cui il vincolo di bilancio non può avere prevalenza assoluta sugli
altri principi costituzionali»; e, in coerenza con tale premessa, auspica un
“contemperamento” dei valori costituzionali sottesi alla norma
denunciata «con il principio di bilancio costituente anch’esso un valore
costituzionale».
Questa Corte
ha già avuto del resto modo di chiarire che le scelte allocative di bilancio
proposte dal Governo e fatte proprie dal Parlamento, pur presentando natura
altamente discrezionale entro il limite dell’equilibrio di bilancio, vedono
naturalmente ridotto tale perimetro di discrezionalità dalla garanzia delle
spese costituzionalmente necessarie, inerenti all’erogazione di prestazioni
ociali incomprimibili (ex plurimis, sentenze n. 62 del 2020, n. 275 e n. 10 del
2016).
Ciò comporta
che il legislatore deve provvedere tempestivamente alla copertura degni oneri
derivanti dalla pronuncia, nel rispetto del vincolo costituzionale
dell’equilibrio di bilancio in senso dinamico (sentenze n. 6 del 2019, n. 10
del 2015, n. 40 del 2014, n. 266 del 2013, n. 250 del 2013, n. 213 del 2008).
7.- E nella prospettiva, appunto, del
“contemperamento dei valori costituzionali” – che viene qui in
rilievo non già nel contesto dello scrutinio di costituzionalità della norma
denunciata ed al fine dell’esito dello stesso, bensì nella fase successiva
relativa alla delimitazione diacronica degli effetti della decisione – la Corte
ritiene, in questo caso, di graduare gli effetti temporali del decisum,
facendoli decorrere (solo) dal giorno successivo a quello di pubblicazione
della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale. La tecnica decisoria della sentenza
con effetto “ex nunc”, che viene qui adottata, appartiene alla
giurisprudenza di questa Corte, a partire dalla sentenza
n. 10 del 2015 (nello stesso senso anche sentenze n. 246 del 2019, n. 74 e
n. 71 del 2018).
Nella prima citata pronuncia si è infatti chiarito
che «così come la decisione di illegittimità costituzionale può essere
circoscritta solo ad alcuni aspetti della disposizione sottoposta a giudizio –
come avviene ad esempio nelle pronunce manipolative – similmente la modulazione
dell’intervento della Corte può riguardare la dimensione temporale della
normativa impugnata, limitando gli effetti della declaratoria di illegittimità
costituzionale sul piano del tempo». E si è appunto precisato che «sono proprio
le esigenze dettate dal ragionevole bilanciamento tra i diritti e i principi
coinvolti» – vagliate alla luce di principi di stretta proporzionalità e di
effettività dei suddetti diritti – a determinare la scelta di una tale tecnica
decisoria. La quale «risulta, quindi, costituzionalmente necessaria allo scopo
di contemperare tutti i principi e i diritti in gioco, […] garantendo il
rispetto dei principi di uguaglianza e di solidarietà, che, per il loro
carattere fondante, occupano una posizione privilegiata nel bilanciamento con
gli altri valori costituzionali (sentenza n. 264
del 2012)».
8.- Peraltro,
l’estensione pro futuro del cosiddetto “incremento al milione” agli
invalidi civili totali è coerente anche con la logica del giudizio incidentale
poiché l’accoglimento ex nunc risponde comunque all’interesse della parte che
ha attivato il processo principale ed è dunque rilevante al fine della
decisione che dovrà adottare il giudice rimettente.
9.- Resta
ovviamente ferma la possibilità per il legislatore di rimodulare, ed
eventualmente di coordinare in un quadro di sistema, la disciplina delle misure
assistenziali vigenti, purché idonee a garantire agli invalidi civili totali
l’effettività dei diritti loro riconosciuti dalla Costituzione. Infatti,
l’eliminazione della barriera anagrafica che condiziona l’adeguamento della
misura della pensione di inabilità al soddisfacimento delle esigenze primarie
di vita, non costituendo una opzione costituzionalmente obbligata, resta
soggetta a un diverso apprezzamento da parte del legislatore, purché nel
rispetto del principio di proporzionalità (sentenze n. 40 del 2019 e n. 222 del
2018) e dell’effettività dei suddetti diritti.
P.Q.M.
1) dichiara, nei sensi e nel termine di cui in
motivazione, l’illegittimità costituzionale dell’art. 38, comma 4, della legge 28
dicembre 2001, n. 448, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)», nella parte in
cui, con riferimento agli invalidi civili totali, dispone che i benefici
incrementativi di cui al comma 1 sono concessi «ai soggetti di età pari o
superiore a sessanta anni» anziché «ai soggetti di età superiore a diciotto
anni»;
2) dichiara inammissibile la questione di
illegittimità costituzionale dell’art.
12, primo comma, della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge
del decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5, e nuove norme in favore dei mutilati
ed invalidi civili), sollevata, in riferimento agli artt.
3, 38, primo comma, 10, primo comma, e 117,
primo comma, Cost., dalla Corte d’appello di Torino, sezione lavoro, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
—
Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale 22
luglio 2020, n. 30.