L’insubordinazione e l’aggressione verbale giustificano il licenziamento in tronco del dipendente anche se attuati dopo la fine dell’orario di lavoro.
Nota a Cass. 1 luglio 2020, n. 13411
Paolo Pizzuti
“La nozione di insubordinazione, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale”. Sicché anche il carattere extralavorativo di un comportamento, realizzatosi in locali aziendali, ma fuori dell’orario di lavoro, non ne preclude in via generale la sanzionabilità in sede disciplinare, ove la condotta si ripercuota sull’esecuzione diligente della prestazione lavorativa da parte del dipendente.
Questo, l’importante principio sancito dalla Corte di Cassazione 1 luglio 2020, n. 13411 (conforme ad App. Trento, n. 55/2018; nello stesso senso, Cass. n. 7795/2017), relativamente al caso di un lavoratore che si era rivolto ad una dipendente (responsabile amministrativo dell’azienda) in merito ad aspetti che afferivano all’osservanza di disposizioni interne dettate dal datore di lavoro circa l’uso di beni aziendali. Ne era scaturito un diverbio privo di vie di fatto, caratterizzato da una palese minaccia verbale accompagnata da un atteggiamento intimidatorio, con cui il dipendente affermava di voler chiedere “conto” della condotta della responsabile amministrativa fuori dell’azienda. Come rilevato dai giudici del merito, “la serietà della minaccia, per come percepita dalla persona offesa, era palesemente idonea ad incutere timore” e “la condotta di prevaricazione aveva turbato la serenità della dipendente, oltretutto gerarchicamente sovraordinata”.
Dalla vicenda era perciò desumibile “il completo disinteresse manifestato dal dipendente al rispetto di regole di correttezza nei rapporti interpersonali, situazione che integrava una “grave infrazione alla disciplina del luogo di lavoro”. Il lavoratore, inoltre, aggravando l’illiceità della condotta sotto il profilo soggettivo aveva registrato la conversazione, rivelando così “la consapevolezza e l’intenzionalità dello scontro verbale e la volontà dì provocarlo per procurarsi una qualche prova di condotta non corretta della collega”. Il lavoratore inoltre aveva una serie di precedenti disciplinari (anche per fatti specifici di insubordinazione e di diverbio e minacce), considerati dall’azienda, nel contesto del giudizio di proporzionalità, come uno dei parametri di valutazione della gravità dell’illecito contestato.
Nello specifico, la Corte precisa che:
a) la violazione dei doveri del prestatore riguarda non soltanto la diligenza in rapporto alla natura della prestazione, ma anche l’inosservanza delle disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore o dai suoi collaboratori (art. 2104 c.c.);
b) gli artt. 2104, 2105 e 2106 c.c. “non vanno interpretati restrittivamente e non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari che concorrono a qualificare il rapporto di lavoro”;
c) nel caso di specie, non vale l’argomentazione per cui il ccnl contemplava il licenziamento senza preavviso solo per il diverbio litigioso, seguito da vie di fatto. Ciò, poiché:
– la normativa collettiva costituisce solo uno dei parametri cui far riferimento ai fini del giudizio sussuntivo della fattispecie concreta nella clausola generale di cui all’art. 2119 c.c. (recesso per giusta causa);
– anche quando la condotta corrisponde in astratto alla fattispecie tipizzata contrattuale, occorre sempre che essa sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, mediante un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo (v. Cass. n. 19023/2019, n. 14063/2019, in questo sito con nota di S. GIOIA, Licenziamento per giusta causa e tipizzazione del ccnl, e n. 28492/2018);
– la condotta sanzionata dal ccnl di riferimento concerne, in via generale, la commissione di “gravi infrazioni alla disciplina o alla diligenza nel lavoro o che provochi all’azienda grave nocumento morale o materiale o che compia azioni delittuose in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro”;
– “l’indagine giudiziale deve essere diretta non solo a verificare se il fatto addebitato sia o meno riconducibile alle disposizioni della contrattazione collettiva che consentono l’irrogazione del licenziamento, ma anche, attraverso una valutazione in concreto, se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di ledere in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza” (v. Cass. 18195/2019, annotata in questo sito da V. DI BELLO, Licenziamento, condotta del lavoratore e giudizio di merito);
– nel giudizio di proporzionalità della sanzione rientra anche la recidiva, posto che “la reiterazione di infrazioni analoghe rivela, dal punto di vista soggettivo, una scarsa consapevolezza degli obblighi del dipendente nei confronti dei colleghi e dei preposti, e dal punto di vista oggettivo, una situazione idonea a turbare la serenità aziendale”. Nella fattispecie, dal momento che iI licenziamento era intervenuto a sanzionare l’ennesimo episodio di insubordinazione e aggressione verbale, …il fatto commesso non poteva essere estrapolato dal contesto complessivo della contestazione disciplinare, né dalla valutazione globale che della gravità dello stesso.