Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 luglio 2020, n. 15929

Classificazione del datore di lavoro, Doppio inquadramento,
Settore industriale, agli effetti degli sgravi, Settore commerciale, ai fini
previdenziali e contributivi, Recupero della maggiore contribuzione dovuta per
le imprese industriali, Eccezione di integrale compensazione

Fatti di causa

La società G. s.p.a. chiese il 29.3.1990 al Pretore
di Latina l’applicazione in suo favore del doppio inquadramento, cioè in quello
del settore industriale, agli effetti degli sgravi, e nell’altro commerciale,
ai fini previdenziali e contributivi, contestando la compensazione tra opposte
pretese contributive operata dall’Inps e chiedendone la condanna al pagamento
della somma di lire 7.746.298.903, corrispondenti agli sgravi che a suo
giudizio ancora le spettavano, oltre interessi di mora e maggior danno ex art. 1224 cod. civ.

Il Tribunale (succeduto al Pretore), con sentenza
non definitiva, condannò l’Inps al pagamento della somma di lire 2.726.653.019,
mentre con sentenza definitiva quantificò gli accessori in euro 14.069.359.

La Corte d’appello di Roma (sentenza n. 3108/06),
investita dall’impugnazione dell’Inps, accolse il gravame e respinse la domanda
di primo grado della società.

Proposto ricorso per cassazione dalla società G.
s.p.a., la Corte Suprema respinse il primo motivo, osservando che il giudicato
si era formato sul diritto agli sgravi sul presupposto della natura industriale
dell’attività svolta dalla casa di cura e non già sul doppio inquadramento,
mentre accolse il secondo motivo, rilevando che la Corte d’appello aveva
erroneamente ritenuto essere legittima la retroattività al 1974 dell’atto di
riclassificazione del datore di lavoro, per cui dichiarò assorbiti gli altri
motivi e cassò l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto, con rinvio
del giudizio alla stessa Corte in diversa composizione.

Riassunto il giudizio ad opera della società e
costituitosi il contraddittorio, la Corte d’appello di Roma (sentenza del
10.5.2016) ha rigettato la domanda della G. s.p.a.

La Corte territoriale ha spiegato che ai fini
contributivi la nuova classificazione della G. s.p.a. tra le imprese
industriali doveva retroagire al 27.1.1983, data della richiesta di reinquadramento
a decorrere dalla quale l’Inps era legittimato a recuperare la maggiore
contribuzione dovuta per le imprese industriali, oltre che la fiscalizzazione
degli oneri sociali e gli altri sgravi indebitamente erogati, spettando gli
stessi alle sole imprese del commercio.

Inoltre, tali maggiori somme dovute dalla società
dovevano essere compensate col credito dalla stessa vantato, in quanto doveva
tenersi conto del pagamento parziale eseguito dall’Inps e dei conguagli operati
di volta in volta dalla G. s.p.a

Per la cassazione della sentenza ricorre la società
G. s.p.a. con un solo motivo in via principale e con otto motivi in via
subordinata, illustrati da memoria, cui resiste l’Inps con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Col primo motivo formulato in via principale la
ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1242 e 2909 cod.
civ., nonché degli artt. 324, 329, 346 e 394 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 4 cod. proc. civ., per
avere la Corte di merito erroneamente affermato che non esisteva un giudicato
interno.

In pratica la ricorrente evidenzia che nel giudizio
d’appello l’Inps si era lamentato dell’omessa pronunzia sulla questione
dell’inquadramento retroattivo preteso da essa società, nonché della falsa
applicazione dell’art. 1224 cod. civ. in merito
al danno differenziale e agli interessi, ma non aveva mai censurato la
statuizione relativa alla sorte capitale, così come non aveva impugnato, per
quel che concerneva gli interessi ed il danno differenziale, la statuizione
della sentenza definitiva di primo grado n. 2445/02 che aveva accertato
l’inesistenza della pretesa compensazione, con la conseguenza che si era
formato un giudicato interno in relazione al quantum della pretesa dell’ente di
previdenza.

2. Il motivo è infondato in quanto la Corte
territoriale, dopo aver illustrato il contenuto dei quesiti posti al consulente
tecnico d’ufficio e dopo aver premesso che la società li aveva contestati sulla
base del rilievo che l’INPS non aveva posto in discussione i criteri di calcolo
seguiti dal Tribunale, ha chiaramente spiegato che in realtà l’istituto di
previdenza, nel medesimo appello, aveva espressamente censurato la decisione di
prime cure sotto il profilo del mancato accoglimento della sua eccezione di
integrale compensazione, in tal modo devolvendo al giudice di secondo grado la
questione dell’esatta quantificazione dei rispettivi crediti delle partì e
riaprendo al riguardo la cognizione sull’intera statuizione. La stessa Corte ha
poi ben spiegato che, non essendosi formato alcun giudicato interno sul quantum
(a maggior ragione dopo l’intervenuta sentenza di cassazione con rinvio),
nemmeno potevano ritenersi definitivamente stabiliti i criteri
giuridico-contabili da impiegare per l’esatta determinazione dei crediti
controversi, tanto più che il giudicato interno non poteva formarsi altro che
su capi autonomi della sentenza, tali da integrare una decisione del tutto
indipendente, senza poter cadere su questioni meramente strumentali alla
verifica della consistenza del diritto.

3. Col secondo motivo (primo degli otto motivi
formulati in via subordinata) la ricorrente deduce la violazione e falsa
applicazione degli artt. 1219 e 1224 cod. civ. in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per
avere la Corte d’appello capitolina erroneamente affermato che gli interessi
legali sulla sorte a credito di G. per mancato sgravio (dal 1968 in poi) non
potevano decorrere prima dell’introduzione del giudizio (29 marzo 1990) perché
mancava la costituzione in mora e i crediti erano illiquidi. Sostiene la
ricorrente che i suoi crediti per mancati sgravi erano, invece, liquidi ed esigibili
in quanto l’Inps avrebbe potuto calcolare in qualsiasi momento gli sgravi
contributivi non concessi, essendo in possesso delle denunzie contributive dal
1968 al 1990, con la conseguenza che non trovava applicazione la regola della
costituzione in mora prevista dall’art. 1224 cod.
civ.

4. Il motivo è infondato.

Invero, come ha correttamente posto in rilievo la
Corte territoriale con argomentazione logico-giuridica immune da rilievi di
legittimità e basata su fatti adeguatamente valutati, il credito della società
era illiquido alla data di proposizione della domanda giudiziale del 29.3.1990
in quanto la sua quantificazione – presupponendo, tra l’altro,
l’identificazione degli sgravi conseguenti al reinquadramento nel settore
dell’industria (esito che a sua volta richiedeva l’acquisizione di documenti e
la collaborazione del creditore), nonché la determinazione del montante
contributivo oggetto di recupero da parte dell’Inps (anche per effetto della
caducata spettanza della fiscalizzazione e degli altri benefici legati
esclusivamente al settore del commercio) – non era riconducibile a semplici
operazioni di calcolo matematico.

5. Col terzo motivo la ricorrente denunzia la
violazione e falsa applicazione degli artt. 1219
e 1224 cod. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., per avere la Corte
di merito erroneamente affermato che gli interessi legali e il danno differenziale
– maturati in suo favore sulla sorte per i mancati sgravi – non potevano
decorrere prima dell’introduzione del giudizio (29 marzo 1990), perché mancava
la costituzione in mora che, invece, si era avuta attraverso le raccomandate
del 9.10.1978 inviate all’Inps, con la conseguenza che da questa data doveva
decorrere il calcolo degli interessi legali e del danno differenziale.

6. Attraverso il quarto motivo la ricorrente
ripropone la questione oggetto della precedente censura sotto la diversa
prospettazione dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi
dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ.,
vale a dire la mancata considerazione del valore di messa in mora scaturente
dall’invio delle suddette raccomandate all’Inps.

7. Il terzo ed il quarto motivo, che possono essere
esaminati congiuntamente essendo tra loro connessi, denotano profili di
inammissibilità e di infondatezza per le seguenti ragioni:- Anzitutto, la
ricorrente non investe in modo specifico la parte della motivazione
dell’impugnata sentenza in cui la Corte territoriale pone in rilievo il fatto
che lo stesso CTU di primo grado – i cui seguiti criteri, secondo la G.,
avrebbero dovuto essere ritenuti vincolanti nella sede di gravame – aveva fatto
coincidere la decorrenza degli accessori con la data di introduzione del
processo (sia pure individuandola, erroneamente, nel 27.3.1985, anziché nel
29.3.1990), ma si limita a richiamare le lettere raccomandate del 9.10.1978,
senza riprodurne il contenuto, onde consentire la verifica della loro idoneità
a fungere da atti di costituzione in mora, e senza specificare se una tale
questione fu sottoposta ai giudici del merito, in qual modo e in quale fase del
giudizio, non essendo sufficiente affermare, nella presente sede di
legittimità, che le stesse lettere erano state depositate insieme al ricorso
introduttivo del 29.3.1990, tanto più che la Corte di merito si è riferita
proprio a quest’ultimo atto nell’individuare la decorrenza degli accessori.
Oltretutto, a tal riguardo la Corte d’appello ha aggiunto che non si perveniva
a diversa conclusione neanche a voler inquadrare l’azione in esame nella
fattispecie della ripetizione dell’indebito oggettivo di cui all’art. 2033 cod. civ., posto che anche in tal caso
gli accessori decorrevano dalla domanda giudiziale, dovendosi escludere la mala
fede dell’Inps all’atto della ricezione della maggiore contribuzione in quanto
nei corrispondenti periodi la società G. era iscritta al settore del commercio.

8. Inoltre, la prospettazione della suddetta
questione come vizio di motivazione incontra il limite derivante
dall’intervento nel sistema della modifica dell’art.
360 c.p.c., n. 5 che ha comportato un’ulteriore sensibile restrizione
dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, del controllo sulla
motivazione di fatto. Infatti, con la sentenza n.
8053 del 7/4/2014 delle Sezioni Unite di questa Corte, si è precisato che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.,
riformulato dall’art. 54 del dl.
22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto
2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile
per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o
secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia
carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito
diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle
previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6,
e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il
ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato
omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti
esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato
oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua
“decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi
istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto
decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso
in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di
tutte le risultanze probatorie. Si è, in tal modo, avuta la riduzione al minimo
costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di
legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è
solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante
e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della
sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si
esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella
mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella
motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni
inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile.

Ma è evidente che nella specie la valutazione della
decorrenza degli interessi legali e del danno differenziale non è affetta da
alcuna di queste ultime anomalie, avendo il giudice d’appello espresso in modo
chiaro e comprensibile i motivi a sostegno del suo convincimento.

9. Col quinto motivo è dedotta la violazione e falsa
applicazione degli artt. 1219, secondo comma,
n. 2 e 1224 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per
avere la Corte di merito erroneamente affermato che gli interessi legali e il
danno differenziale sulla sorte a credito di G. per mancati sgravi non potevano
decorrere prima dell’introduzione del giudizio (29 marzo 1990) perché mancava
la costituzione in mora, mentre quest’ultima, secondo la ricorrente, non era
necessaria in quanto l’Inps debitore aveva dichiarato per iscritto di non voler
eseguire l’obbligazione.

Sostiene al riguardo la ricorrente che l’Inps aveva
risposto alle raccomandate del 9.10.1978, volte al conseguimento degli sgravi,
respingendole con nota del 23.1.1979, per cui gli interessi legali ed il danno
differenziale avrebbero dovuto essere calcolati almeno da tale data.

10. Attraverso il sesto motivo la ricorrente
denunzia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ.,
rappresentato dalla nota Inps del 23.1.1979 di cui alla precedente censura,
assumendo che se la Corte di merito avesse considerato quest’ultimo atto
sarebbe pervenuta ad un diverso convincimento sulla individuazione della data
di decorrenza degli accessori di legge, vale a dire dal momento della
manifestazione della volontà dell’ente di rigettare le richieste degli sgravi e
non da quello dell’introduzione del giudizio del 29.3.1990.

11. Il quinto ed il sesto motivo sono all’evidenza
connessi, in quanto attraverso gli stessi viene prospettata sotto diverse
angolazioni la stessa questione, per cui possono essere esaminati
congiuntamente.

Orbene, anche tali motivi denotano aspetti di
infondatezza e di inammissibilità.

Anzitutto, dalla lettura della sentenza impugnata
non emerge che sia stata sottoposta all’esame della Corte territoriale la
questione della verifica della diversa decorrenza riconducibile alla data in
cui l’Inps respingeva con nota del 23.1.1979 le domande tese al conseguimento
degli sgravi, né tantomeno la ricorrente si premura di specificare, in omaggio
al principio di autosufficienza che governa il giudizio di legittimità, in
quali esatti termini ed in quale fase del giudizio di merito ebbe a sollevare
siffatta questione. Al contrario, dalla sentenza emerge che la società dedusse
che gli interessi ed il maggior danno avrebbero dovuto essere conteggiati non
dal 29.3.1990, bensì dal lontano 1968, e che il danno differenziale avrebbe
dovuto essere aggiunto all’interesse legale, anziché esserne depurato, per cui
nemmeno risulta che l’oggetto del dibattito avesse riguardato la citata nota
dell’Inps. Inoltre, la stessa Corte d’appello ha precisato con argomentazione
logico-giuridica immune da rilievi di legittimità – così come già evidenziato
in occasione della disamina del secondo motivo del presente ricorso – che alla
data di proposizione della domanda giudiziale (29.3.1990) il credito della G.
s.p.a. era illiquido perché la sua quantificazione non era riconducibile a
semplici operazioni di calcolo matematico e che, pertanto, gli interessi legali
ed il maggior danno spettavano, ex art. 1224 cod.
civ., solo dalla messa in mora, nella specie coincidente con l’avvio
dell’azione giudiziaria.

12. Infine, è inammissibile la prospettazione della
doglianza nella denunziata forma del vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. in quanto, come si è già
chiarito in occasione dell’esame del quarto motivo del presente ricorso, nel
sistema l’intervento di modifica di tale norma processuale comporta
un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di
legittimità, del controllo sulla motivazione di fatto, posto che si è affermato
(Cass. Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053)
essersi avuta, con la riforma dell’art. 360 c.p.c.,
n. 5, la riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in
sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile
in questa sede è solo quella che si tramuta in violazione di legge
costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè,
come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze
processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di
sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e
grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra
affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile, situazioni, queste, non riscontrabili, per le ragioni sopra
esposte, nella fattispecie.

13. Col settimo motivo la ricorrente denunzia la
violazione e falsa applicazione degli artt. 24
e 111 Cost., nonché degli artt. 115, 394, 414 nn. 4 e 5, 416
co. 2 e 3, 437, comma 2, cod. proc. civ., in
relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc.
civ., per avere la Corte d’appello erroneamente affermato che un fatto non
allegato dalle parti ma risultante dagli atti poteva fondare un’eccezione
rilevabile d’ufficio e che questo principio poteva essere applicato anche
retroattivamente perché non era imprevedibile e non ledeva il diritto di difesa
e della ragionevole durata del processo.

In pratica la ricorrente lamenta che la Corte
territoriale avrebbe erroneamente affermato che l’inquadramento del 20 novembre
1987 ai fini contributivi doveva retroagire al 27 gennaio 1983, data in cui la
società aveva chiesto il reinquadramento, anche se questo fatto non era stato
mai allegato dalle parti ma risultava dagli atti. A tal riguardo la stessa
difesa evidenzia che solo nel giudizio di rinvio l’Inps aveva chiesto per la
prima volta, in maniera inammissibile, che le differenze contributive a suo
favore, da compensare poi coi crediti della G. s.p.a., fossero calcolate a
partire dal 1° gennaio 1983, per effetto della domanda amministrativa di
inquadramento proposta il 24 gennaio 1983, e non dal 20 novembre 1987, data
della successiva comunicazione dello stesso ente di previdenza. La medesima si
lamenta, altresì, del fatto che le Sezioni Unite della Cassazione, la cui sentenza n. 10531/2013 è stata richiamata dalla
Corte d’appello di Roma al fine di giustificare la rilevabilità d’ufficio delle
eccezioni in senso lato, avrebbero compiuto un c.d. “overruling”
processuale rispetto al precedente orientamento giurisprudenziale in base al
quale i fatti fondanti l’eccezione in senso lato devono essere allegati
tempestivamente dalle parti. Tra l’altro, secondo tale assunto difensivo,
proprio i principi affermati dalle Sezioni Unite in materia di overruling
processuale (sent. n. 15144/2011) consentono di ritenere che deve essere
tutelato l’affidamento delle parti sul precedente orientamento in base al
principio del giusto processo, per cui nella presente controversia, iniziata
allorquando l’overruling del 2013 non si era ancora verificato, non potrebbero
trovare nemmeno applicazione con efficacia retroattiva i principi scaturenti
dall’improvviso cambiamento di indirizzo giurisprudenziale.

14. Il motivo è infondato.

Anzitutto, la Corte di merito ha correttamente posto
in rilievo che la retroattività dell’inquadramento della G. s.p.a. tra le
imprese industriali a decorrere dall’epoca della sua domanda amministrativa è
stata espressamente sancita dalla sentenza rescindente che fa stato in sede di
rinvio, non valendo in contrario la mancata allegazione da parte dell’Inps del
fatto storico dell’avvenuta presentazione di siffatta domanda, risalente al
27.1.1983, emergendo tale dato in modo inequivocabile dagli atti (il predetto
documento fu prodotto dalla stessa società col ricorso di primo grado).

15. Al riguardo la Corte di merito ha anche
richiamato l’insegnamento delle Sezioni Unite (Ord.
n. 10531/2013) in base al quale «Il rilievo d’ufficio delle eccezioni in
senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della
parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti
risultino documentati “ex actis”, in quanto il regime delle eccezioni
si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla
giustizia della decisione, che resterebbe svisato ove anche le questioni
rilevabili d’ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e
prova previsti per le eccezioni in senso stretto>>.

Inoltre, la stessa Corte
ha ben spiegato che nemmeno vale opporre che, con quest’ultima pronuncia, le
Sezioni Unite avrebbero operato un overruling processuale che sarebbe
inapplicabile nella presente causa, stante l’introduzione di quest’ultima in
epoca anteriore al suddetto cambiamento di indirizzo giurisprudenziale:
infatti, secondo il condivisibile convincimento del giudice d’appello, non
ricorrono nella fattispecie le condizioni per le quali il nuovo intervento di
nomofilachia del 2013 debba ritenersi privo di efficacia retroattiva, sia
perché la richiamata pronuncia non costituisce un mutamento di giurisprudenza
in senso proprio, avendo essa composto in realtà un contrasto tra indirizzi che
già preesistevano, tanto da essere stata preceduta da pronunzie  dello stesso segno (v. ad es. C. Sez. Un. n. 15661/05, C. Sez. 2 n. 21929/09 e
C. Sez. VI – 2 n. 409/12), sia perché l’indirizzo da ultimo affermatosi
non viola il principio dell’affidamento in guisa tale da incidere
sull’azionabilità della pretesa vantata dalla società, sia perché non arreca
lesione al diritto di difesa, né al valore della ragionevole durata del
processo, posto che nel caso in esame il giudicante ha fondato la propria
decisione su materiale probatorio ritualmente acquisito al processo.

16. Infine,
l’inapplicabilità nel nostro caso dell’ipotesi di overruling, invocata dalla
ricorrente, discende anche dalla considerazione che tale fenomeno ha per
oggetto una norma processuale, mentre nella fattispecie la questione risolta è
di carattere sostanziale, avendo dovuto la Corte territoriale individuare la
decorrenza dell’inquadramento della società tra le imprese industriali ai fini
degli invocati sgravi, cosa che ha fatto nel momento in cui ha accertato –
sulla base dei dati ritualmente acquisiti al processo – che tale decorrenza
coincideva con la data della domanda amministrativa di reinquadramento, il
tutto sulla scorta di quanto espressamente sancito nella sentenza rescindente
facente stato nel giudizio di rinvio.

17. Con l’ottavo motivo è
dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1,  comma 5, della legge n. 33 del 1980 di
conversione del D.L n. 663 del 1979, in
relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc.
civ., per avere la Corte d’appello erroneamente affermato che lo speciale
regime degli accessori previsto da tale norma si applicherebbe solo alle
denunce contributive e non ai crediti del datore di lavoro per sgravi non
riconosciutigli, mentre la norma in esame riguarda qualsiasi credito del datore
di lavoro verso l’Inps.

19. Il motivo è infondato
in quanto nella sentenza impugnata non è affermato che il regime degli
accessori previsto dalla citata norma si applica solo alle denunzie
contributive e non ai crediti del datore di lavoro per sgravi non riconosciuti,
ma è, invece, ben spiegato che l’inapplicabilità della norma invocata dalla
società deriva dalla considerazione che la stessa presuppone la liquidità dei
crediti derivanti dai saldi attivi delle denunce contributive, ipotesi, questa,
non ricorrente nella fattispecie per le ragioni già illustrate in precedenza.

19. Col nono motivo
(ultimo dei motivi formulati in via subordinata) la ricorrente denunzia la
violazione e falsa applicazione degli artt. 24
e 111 Cost. e dell’art.
132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., per avere
la Corte d’appello erroneamente affermato che la società non aveva contestato
le risultanze contabili e la metodologia di calcolo del C.T.U., quando, invece,
nelle note autorizzate erano stati allegati i diversi conteggi e le
osservazioni del C.T.P.

20. Anche tale motivo è infondato, in quanto non
sussiste il lamentato vizio di omessa pronunzia, posto che la Corte
territoriale, dopo aver dato atto del deposito dell’elaborato peritale e delle
memorie difensive e dopo aver riportato il testo dei quesiti posti al
consulente d’ufficio e delle risposte dal medesimo fornite, ha chiarito che la
difesa della società non aveva contestato tali risultanze contabili, né a monte
la metodologia di calcolo che le aveva prodotte (incluso il rilievo dei tassi
bancari medi utilizzati per la determinazione del danno differenziale, che era
stato individuato dal CTU d’intesa col CTP), avendo, invece, contestato in
radice la bontà dei quesiti n. 3 e 4 (quelli sui conguagli nel periodo 1990 –
2002) ed assumendo che interessi e maggior danno avrebbero dovuto essere
conteggiati non dal 29.3.1990, bensì dal lontano 1968, con l’ulteriore deduzione
che il danno differenziale avrebbe dovuto aggiungersi all’interesse legale,
anziché esserne depurato (come da quesito, additato come errato). Tali
contestazioni sono state, però, ritenute infondate dalla Corte territoriale
che, come si è già illustrato in occasione della disamina del secondo motivo,
ha espressamente rilevato, con giudizio di merito immune da rilievi di
legittimità, che il credito della società era illiquido alla data di
proposizione della domanda giudiziale del 29.3.1990, in quanto la sua
quantificazione – presupponendo, tra l’altro, l’identificazione degli sgravi
conseguenti al reinquadramento nel settore dell’industria (esito che a sua
volta richiedeva l’acquisizione di documenti e la collaborazione del
creditore), nonché la determinazione del montante contributivo oggetto di
recupero da parte dell’Inps (anche per effetto della caducata spettanza della
fiscalizzazione e degli altri benefici legati esclusivamente al settore del
commercio) – non era riconducibile a semplici operazioni di calcolo matematico.

21. In definitiva, il ricorso va rigettato e le
spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la
soccombenza della ricorrente. Ricorrono, altresì, i presupposti per il
pagamento, da parte della medesima ricorrente, del contributo unificato ai
sensi dell’art. 13 del d.p.r. n.
115 del 2002, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

rigetta. Condanna la ricorrente al pagamento delle
spese nella misura di € 25.200,00, di cui € 25.000,00 per compensi
professionali, oltre spese generali al 1 5% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello
stesso art. 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 luglio 2020, n. 15929
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: