Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Ordinanza 30 luglio 2020, n. 182

Requisito del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di
lungo periodo, Erogazione agli stranieri dell’assegno di natalità e
dell’assegno di maternità, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
(CDFUE), Esatta interpretazione delle disposizioni rilevanti del diritto
dell’Unione europea che incidono sul diritto nazionale

 

Considerato in diritto

 

1. – Questa Corte è chiamata a pronunciarsi sulla
compatibilità dell’art. 1, comma
125, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità
2015)» e dell’art. 74 del decreto
legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni
legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità,
a norma dell’articolo 15 della
legge 8 marzo 2000, n. 53), con gli artt. 3,
31, 117, primo
comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 33 e 34 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000
e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (da ora, anche: Carta).

La Corte di cassazione dubita della legittimità
costituzionale delle previsioni citate, nella parte in cui stabiliscono il
requisito del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo per
l’erogazione agli stranieri, rispettivamente, dell’assegno di natalità e
dell’assegno di maternità.

2. – Pur tenendo conto delle peculiarità delle
prestazioni esaminate e del diverso regime applicabile a ciascuna di esse,
l’omogeneità delle censure rende opportuna una trattazione unitaria dinanzi a
questa Corte, che inquadri entrambe le questioni nel più ampio orizzonte delle
prestazioni sociali agli stranieri, anche alla luce delle indicazioni offerte
dal diritto dell’Unione europea. I giudizi, pertanto, devono essere riuniti,
per essere trattati congiuntamente.

3. – Si deve premettere che la Corte di cassazione
menziona, a sostegno delle censure, parametri di matrice nazionale e, in pari
tempo, molteplici previsioni della CDFUE, che ha lo stesso valore giuridico dei
trattati, alla stregua dell’art.
6, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea (TUE), nella versione
consolidata successiva al Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007,
entrato in vigore il 1° dicembre 2009.

3.1. – Questa Corte ha ribadito anche di recente la
propria competenza a sindacare gli eventuali profili di contrasto delle
disposizioni nazionali con i principi enunciati dalla Carta (ordinanza n. 117
del 2019, punto 2. del Considerato in diritto).

Quando è lo stesso giudice rimettente a sollevare
una questione di legittimità costituzionale che investe anche le norme della
Carta, questa Corte non può esimersi dal valutare se la disposizione censurata
infranga, in pari tempo, i princìpi costituzionali e le garanzie sancite dalla
Carta (sentenza n. 63 del 2019, punto 4.3. del Considerato in diritto).
L’integrarsi delle garanzie della Costituzione con quelle sancite dalla Carta
determina, infatti, «un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli
strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni
preclusione» (sentenza n. 20 del 2019, punto 2.3. del Considerato in diritto).

In quanto giurisdizione nazionale ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona
del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2
agosto 2008, n. 130, questa Corte – come di recente ha affermato
nell’interpellare la Corte di giustizia – esperisce il rinvio pregiudiziale
«ogniqualvolta ciò sia necessario per chiarire il significato e gli effetti
delle norme della Carta; e potrà, all’esito di tale valutazione, dichiarare
l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, rimuovendo così la
stessa dall’ordinamento nazionale con effetti erga omnes» (ordinanza n. 117 del
2019, punto 2. del Considerato in diritto).

Il rinvio pregiudiziale si colloca «in un quadro di
costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale
le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di
giustizia […], affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a
livello sistemico (art. 53 della
CDFUE)» (sentenza n. 269 del 2017, punto 5.2. del Considerato in diritto).
L’intervento chiarificatore che si richiede alla Corte di giustizia è funzionale,
altresì, alla garanzia di uniforme interpretazione dei diritti e degli obblighi
che discendono dal diritto dell’Unione.

3.2. – Pertanto si ritiene necessario, prima di
decidere sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di
cassazione, interrogare la Corte di giustizia sull’esatta interpretazione delle
disposizioni rilevanti del diritto dell’Unione europea che incidono sul diritto
nazionale.

Questa Corte ravvisa, infatti, una connessione
inscindibile tra i princìpi e i diritti costituzionali evocati dalla Corte di
cassazione e quelli riconosciuti dalla Carta, arricchiti dal diritto
secondario, tra loro complementari e armonici. Spetta dunque a questa Corte
salvaguardarli in una prospettiva di massima espansione.

In un campo segnato dall’incidenza crescente del
diritto dell’Unione, non si può non privilegiare il dialogo con la Corte di
giustizia, in quanto depositaria del «rispetto del diritto nell’interpretazione
e nell’applicazione dei trattati» (art.
19, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea). Il divieto di
discriminazioni arbitrarie e la tutela della maternità e dell’infanzia,
salvaguardati dalla Costituzione italiana (artt. 3,
primo comma, e 31 Cost.), devono, difatti,
essere interpretati anche alla luce delle indicazioni vincolanti offerte dal
diritto dell’Unione europea (ex artt. 11 e 117, primo comma, Cost.). Sulla portata e sulla
latitudine di tali garanzie, che si riverberano sul costante evolvere dei
precetti costituzionali, in un rapporto di mutua implicazione e di feconda
integrazione, si concentrano le questioni pregiudiziali che in questa sede si
ritiene di sottoporre al vaglio della Corte di giustizia.

4. – Occorre, in primo luogo, ricostruire nei suoi
tratti salienti la disciplina nazionale applicabile e le disposizioni
pertinenti del diritto dell’Unione europea, che con la disciplina nazionale si
intersecano.

5. – Quanto al diritto nazionale, si devono svolgere
le seguenti precisazioni.

5.1. – Per quel che attiene all’assegno di natalità,
vengono anzitutto in rilievo le disposizioni dell’art. 1, comma 125, della legge n.
190 del 2014.

La norma censurata dispone che, per ogni figlio nato
o adottato tra il 1° gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017, «è riconosciuto un
assegno di importo pari a 960 euro annui erogato mensilmente a decorrere dal
mese di nascita o adozione». Tale assegno «è corrisposto fino al compimento del
terzo anno di età ovvero del terzo anno di ingresso nel nucleo familiare a
seguito dell’adozione» e persegue la finalità «di incentivare la natalità e
contribuire alle spese per il suo sostegno».

L’assegno è corrisposto dall’Istituto nazionale
della previdenza sociale (INPS) «a condizione che il nucleo familiare di
appartenenza del genitore richiedente l’assegno sia in una condizione economica
corrispondente a un valore dell’indicatore della situazione economica
equivalente (ISEE), stabilito ai sensi del regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 5
dicembre 2013, n. 159, non superiore a 25.000 euro annui».

Allorché «il nucleo familiare di appartenenza del
genitore richiedente l’assegno sia in una condizione economica corrispondente a
un valore dell’ISEE, stabilito ai sensi del citato regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n.
159 del 2013, non superiore a 7.000 euro annui», l’importo annuo di 960,00
euro è raddoppiato.

L’assegno è stato concesso anche «per ogni figlio
nato o adottato dal 1° gennaio 2018 al 31 dicembre 2018» per il più circoscritto
periodo di un anno, «fino al compimento del primo anno di età ovvero del primo
anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell’adozione» (art. 1, comma 248, della legge 27
dicembre 2017, n. 205, recante «Bilancio di previsione dello Stato per
l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020»).

La prestazione è stata estesa a «ogni figlio nato o
adottato dal 1° gennaio 2019 al 31 dicembre 2019», sempre per la durata di un
anno, «fino al compimento del primo anno di età ovvero del primo anno di
ingresso nel nucleo familiare a seguito dell’adozione», e con una maggiorazione
del venti per cento per ogni figlio successivo al primo (art. 23-quater, comma 1, del
decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, recante «Disposizioni urgenti in
materia fiscale e finanziaria», convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2018, n. 136).

Da ultimo, l’assegno di natalità è stato
riconosciuto a beneficio di «ogni figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2020 al
31 dicembre 2020», sempre «fino al compimento del primo anno di età ovvero del
primo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell’adozione». La
prestazione, così delineata, consiste in un importo variabile in rapporto alle
condizioni economiche del nucleo familiare: «a) 1.920 euro qualora il nucleo
familiare di appartenenza del genitore richiedente l’assegno sia in una
condizione economica corrispondente a un valore dell’indicatore della
situazione economica equivalente (ISEE), stabilito ai sensi del regolamento di
cui al decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri 5 dicembre 2013, n. 159, non superiore a 7.000 euro annui; b)
1.440 euro qualora il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente
l’assegno sia in una condizione economica corrispondente a un valore dell’ISEE
superiore alla soglia di cui alla lettera a) e non superiore a 40.000 euro; c)
960 euro qualora il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente
l’assegno sia in una condizione economica corrispondente a un valore dell’ISEE
superiore a 40.000 euro». L’ammontare dell’assegno è aumentato del venti per
cento per ogni figlio successivo al primo (art. 1, comma 340, della legge 27
dicembre 2019, n. 160, recante «Bilancio di previsione dello Stato per
l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022»).

Questa Corte si interroga anche sulle proroghe
dell’assegno di natalità, disposte da norme successive rispetto a quella
denunciata dalla Corte di cassazione. Pur nel susseguirsi delle diverse
discipline, che denotano il carattere non strutturale della provvidenza,
permane inalterato – per i cittadini non appartenenti all’Unione europea – il
requisito del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo,
censurato dal rimettente. L’assegno di natalità, nella versione originaria e
nelle proroghe successivamente disposte dal legislatore, è riconosciuto,
difatti, «per i figli di cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione
europea o di cittadini di Stati extracomunitari con permesso di soggiorno di
cui all’articolo 9 del testo
unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998,
n. 286, e successive modificazioni, residenti in Italia».

Il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di
lungo periodo, di cui all’art. 9
del d.lgs. n. 286 del 1998, è a tempo indeterminato, è rilasciato dal
questore entro novanta giorni dalla richiesta e presuppone il «possesso, da
almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità» e la
dimostrazione della «disponibilità di un reddito non inferiore all’importo
annuo dell’assegno sociale e, nel caso di richiesta relativa ai familiari, di un
reddito sufficiente secondo i parametri indicati nell’articolo 29, comma 3, lettera
b) e di un alloggio idoneo che rientri nei parametri minimi previsti dalla
legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica ovvero che
sia fornito dei requisiti di idoneità igienico-sanitaria accertati dall’Azienda
unità sanitaria locale competente per territorio».

Il richiedente, inoltre, deve preventivamente
superare una prova di conoscenza della lingua italiana e non deve essere
pericoloso per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato.

5.2. – L’assegno di maternità è disciplinato dall’art. 74 del d.lgs. n. 151 del 2001.

L’assegno spetta per ogni figlio nato dal 1° gennaio
2001, o per ogni minore in affidamento preadottivo o in adozione senza
affidamento dalla stessa data, «alle donne residenti, cittadine italiane o
comunitarie o in possesso di carta di soggiorno», oggi permesso di soggiorno UE
per soggiornanti di lungo periodo.

L’assegno è concesso alle donne che non beneficiano
della indennità di maternità connessa a rapporti di lavoro subordinato o
autonomo o allo svolgimento di una libera professione (artt. 22, 66 e 70 del d.lgs. n. 151 del 2001) e
presuppone il possesso, in capo al nucleo familiare di appartenenza della
madre, di risorse economiche non superiori «ai valori dell’indicatore della
situazione economica (ISE), di cui al decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 109, tabella 1, pari a lire 50 milioni annue
con riferimento ai nuclei familiari con tre componenti».

6. – Nell’odierno giudizio, sono numerose le
disposizioni rilevanti del diritto dell’Unione europea.

6.1. – La Corte di cassazione ha evocato, tra le
molteplici previsioni della Carta, anche l’art. 34. Quest’ultimo garantisce
il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale, come quella per la
tutela della maternità (paragrafo 1), e il diritto di «[o]gni persona che
risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione […] alle prestazioni
di sicurezza sociale e ai benefici sociali», in conformità alle previsioni del
diritto dell’Unione e alle legislazioni e alle prassi nazionali (paragrafo 2).

6.2. – Con riferimento alle prestazioni di sicurezza
sociale spettanti ai cittadini dei paesi terzi, la direttiva
2003/109/CE del Consiglio del 25 novembre 2003, relativa allo status dei
cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo e trasposta
con il decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3
(Attuazione della direttiva 2003/109/CE
relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo
periodo), garantisce ai soggiornanti di lungo periodo lo stesso trattamento dei
cittadini nazionali per quel che riguarda, in particolare, le «prestazioni
sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della
legislazione nazionale» (art. 11,
paragrafo 1, lettera d).

6.3. – Quanto alla direttiva
2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011,
relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico,
essa interviene a estendere tali prestazioni agli stranieri titolari del
permesso unico di lavoro.

6.3.1. – Tale direttiva ha quale base giuridica l’art. 79, paragrafo 2, lettere a) e
b), TFUE e deve essere ricondotta all’art. 34 della Carta. Essa – come
chiarisce il considerando n. 8 – «non dovrebbe riguardare i cittadini di paesi
terzi che hanno acquisito lo status di soggiornanti di lungo periodo ai sensi
della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del
25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano
soggiornanti di lungo periodo», in quanto tali cittadini, muniti di un tipo
specifico di permesso di soggiorno, possono rivendicare uno «status più privilegiato».

La direttiva 2011/98/UE
si prefigge di «garantire l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che
soggiornano regolarmente nel territorio degli Stati membri» (considerando n.
2), di dare ulteriore impulso a «una politica di immigrazione coerente» e di
«ridurre la disparità di diritti tra i cittadini dell’Unione e i cittadini di
paesi terzi che lavorano regolarmente in uno Stato membro» (considerando n.
19), creando, anche per tale via, i presupposti dell’integrazione economica dei
cittadini di paesi terzi.

In questa prospettiva si inquadra la scelta di
«definire un insieme di diritti al fine, in particolare, di specificare i
settori in cui è garantita la parità di trattamento tra i cittadini di uno
Stato membro e i cittadini di paesi terzi che non beneficiano ancora dello
status di soggiornanti di lungo periodo», in modo da «creare condizioni di
concorrenza uniformi minime nell’Unione» e da «riconoscere che tali cittadini
di paesi terzi contribuiscono all’economia dell’Unione con il loro lavoro e i
loro versamenti di imposte» (considerando n. 19).

Lo scrutinio di questa Corte concerne il diritto
alla parità di trattamento nel settore della sicurezza sociale, come definito
«dal regolamento (CE) n. 883/2004 del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al
coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale» (considerando n. 24 della
direttiva). Gli Stati, nell’organizzare i rispettivi regimi di sicurezza
sociale e nel fissare «le condizioni per la concessione delle prestazioni di
sicurezza sociale nonché l’importo di tali prestazioni e il periodo durante il
quale sono concesse» (considerando n. 26), devono osservare tali prescrizioni.

6.3.2. – In questo contesto si colloca l’art. 12 della direttiva,
richiamato dalla Corte di cassazione nel sollevare le questioni di legittimità
costituzionale. A tale disposizione hanno fatto riferimento sia le Corti
d’appello che hanno pronunciato le sentenze impugnate, sia tutte le parti dei
giudizi, anche se con valutazioni contrastanti.

I «cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi
in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto
dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso
di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento
(CE) n. 1030/2002» (art. 3,
paragrafo 1, lettera b) e «i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in
uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale»
(art. 3, paragrafo 1, lettera
c) beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato
membro in cui soggiornano per quanto concerne, in particolare, «i settori della
sicurezza sociale definiti nel regolamento
(CE) n. 883/2004» (art. 12, paragrafo 1, lettera e).

L’art.
3, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 883/2004, nel delimitarne l’àmbito
di applicazione ratione materiae, stabilisce che le previsioni dello stesso si
applichino a tutte le legislazioni relative ai settori di sicurezza sociale
riguardanti «le prestazioni di maternità e di paternità assimilate» (lettera b)
e «le prestazioni familiari» (lettera j), che l’art. 1, lettera z), del
medesimo regolamento definisce come «tutte le prestazioni in natura o in denaro
destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli
assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati
nell’allegato I».

6.3.3. – L’art. 12, paragrafo 2, lettera
b), della direttiva dispone che il diritto alla parità di trattamento nel
settore della sicurezza sociale possa essere limitato dagli Stati membri e che,
tuttavia, non possa essere ristretto «per i lavoratori di paesi terzi che svolgono
o hanno svolto un’attività lavorativa per un periodo minimo di sei mesi e sono
registrati come disoccupati».

Con riguardo ai sussidi familiari, gli Stati membri
possono, inoltre, decidere di non applicare il principio di parità di
trattamento «ai cittadini di paesi terzi che sono stati autorizzati a lavorare
nel territorio di uno Stato membro per un periodo non superiore a sei mesi, ai
cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi a scopo di studio o ai
cittadini di paesi terzi cui è consentito lavorare in forza di un visto».

6.3.4. – Con il decreto
legislativo 4 marzo 2014, n. 40 (Attuazione della direttiva 2011/98/UE relativa a una procedura
unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini
di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a
un insieme comune di diritti per i lavoratori di Paesi terzi che soggiornano
regolarmente in uno Stato membro), lo Stato italiano ha disciplinato il
permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e
lavorare nel territorio di uno Stato membro e non si è avvalso in maniera
espressa della facoltà di introdurre le deroghe indicate dalla direttiva.
Quanto all’art. 12, paragrafo
1, lettera e), della direttiva, lo Stato italiano ha ritenuto di non farne
oggetto di una specifica disposizione di recepimento.

6.4. – La Corte di giustizia ha affrontato il tema
della compatibilità del diritto nazionale con le prescrizioni dell’art. 12 della direttiva 2011/98/UE
con riguardo all’assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori,
disciplinato dall’art. 65 della
legge del 23 dicembre 1998, n. 448, recante «Misure di finanza pubblica per
la stabilizzazione e lo sviluppo», e concesso agli stranieri a condizione che
siano titolari di un permesso per soggiornanti UE di lungo periodo (sentenza 21 giugno 2017, nella causa C-449/16,
Kerly Del Rosario Martinez Silva).

La Corte di giustizia ha affermato che l’assegno in
esame è riconducibile alle prestazioni di sicurezza sociale, perché attribuito
in base a criteri obiettivi che prescindono da ogni valutazione individuale o
discrezionale delle esigenze personali, e perché costituisce «una prestazione
in denaro destinata, attraverso un contributo pubblico al bilancio familiare,
ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli» (punto 24.).

La Corte di giustizia, anche in considerazione del
mancato esercizio della facoltà di deroga da parte dello Stato italiano, ha
ritenuto che «l’articolo 12 della
direttiva 2011/98 deve essere interpretato nel senso che esso osta a una
normativa nazionale come quella oggetto del procedimento principale, in base
alla quale il cittadino di un paese terzo, titolare di un permesso unico ai
sensi dell’articolo 2, lettera
c), di tale direttiva, non può beneficiare di una prestazione come l’ANF
[assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori], istituito dalla legge n. 448/1998» (punto 32.).

6.5. – Non ha attinenza alcuna con le questioni qui
sollevate la causa pendente dinanzi alla Corte di giustizia (causa C-302/19).
La Corte di cassazione ha chiesto se sia compatibile con l’art. 12 della direttiva 2011/98/UE
una legislazione nazionale che, nel computo degli appartenenti al nucleo
familiare, al fine del calcolo del diverso istituto dell’assegno per il nucleo
familiare, esclude i familiari del lavoratore titolare del permesso unico ed
appartenente a Stato terzo, qualora gli stessi risiedano presso il paese terzo
d’origine.

7. – Alla luce del quadro normativo che si è
tratteggiato, questa Corte ritiene necessario sollecitare alla Corte di
giustizia un chiarimento sulle seguenti disposizioni del diritto dell’Unione,
che incidono sulla soluzione delle questioni di legittimità costituzionale
devolute all’esame di questa Corte e che sono state oggetto del contraddittorio
fra le parti lungo tutto il dipanarsi dei giudizi.

7.1. – Occorre chiedere alla Corte di giustizia se
l’art. 34 della Carta debba
essere interpretato nel senso che nel suo àmbito di applicazione rientrino
l’assegno di natalità e l’assegno di maternità, in base all’art. 3, paragrafo 1, lettere b) e j),
del regolamento (CE) n. 883/2004, richiamato dall’art. 12, paragrafo 1, lettera e),
della direttiva 2011/98/UE, e se, pertanto, il diritto dell’Unione debba
essere interpretato nel senso di non consentire una normativa nazionale che non
estende agli stranieri titolari del permesso unico di cui alla medesima
direttiva le provvidenze sopra citate, già concesse agli stranieri titolari di
permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.

7.1.1. – Quanto all’assegno di natalità, esso non è
riconducibile all’assegno speciale di nascita o di adozione menzionato
nell’Allegato I del regolamento indicato, in cui si elencano in maniera
tassativa le prestazioni escluse dall’ambito applicativo ratione materiae del
regolamento. Nessuna prestazione italiana vi figura.

Né ricorre l’ipotesi dell’anticipo sugli assegni
alimentari, corrispondenti agli «anticipi recuperabili, intesi a compensare
l’incapacità di un genitore ad adempiere al proprio obbligo giuridico di
mantenere la sua prole, che è un obbligo derivante dal diritto di famiglia»
(considerando n. 36). L’assegno di natalità differisce da tale fattispecie,
esclusa dall’àmbito applicativo del regolamento, per la dirimente ragione che
non consiste in anticipi recuperabili e non si correla all’incapacità di un
genitore di adempiere agli obblighi di mantenimento della prole.

Poiché nessuna delle ipotesi tipiche di esclusione ricorre
nel caso in esame, si deve, dunque, accertare se la prestazione citata si possa
qualificare come prestazione familiare.

A questa Corte è nota la copiosa giurisprudenza
della Corte di giustizia, che annovera tra le prestazioni ricomprese ratione
materiae nell’àmbito applicativo del regolamento
(CE) n. 883/2004 tutte quelle prestazioni attribuite ai beneficiari,
«prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro
esigenze personali, in base ad una situazione definita ex lege» e riferibili
«ad uno dei rischi espressamente elencati nell’articolo 3, paragrafo 1, del
regolamento n. 883/2004» (fra le più recenti, sentenza
2 aprile 2020, nella causa C-802/18, Caisse pour l’avenir des enfants,
punto 36.). In tale valutazione, sono ininfluenti le denominazioni adottate dal
legislatore nazionale, le modalità di finanziamento delle singole prestazioni o
il meccanismo giuridico cui lo Stato membro fa ricorso per attuarle (sentenza 24 ottobre 2013, nella causa C-177/2012,
Lachheb, punto 32.), poiché occorre piuttosto considerare il contenuto e le
finalità delle prestazioni.

Quanto alle prestazioni familiari di cui al citato
art. 1, lettera z), del regolamento, la Corte di giustizia UE ha già precisato
che consistono in «un contributo pubblico al bilancio familiare, destinato ad
alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli» (fra le molte, la già
citata sentenza 21 giugno 2017, nella causa C-447/17, e sentenza del 19 settembre 2013, nelle cause C-216/12
e C-217/12, Hliddal e Bornand, punto 55.).

L’assegno di natalità, anche in ragione delle
rilevanti innovazioni che ha registrato nel volgere degli ultimi anni, presenta
tuttavia aspetti inediti rispetto alle prestazioni familiari già vagliate dalla
Corte di giustizia, come l’assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli
minori, esaminato nella sentenza 21 giugno 2017,
nella causa C-449/16. Proprio su tale peculiarità si fonda la scelta di
ricorrere alla Corte di giustizia con un procedimento in via pregiudiziale.

Il beneficio in esame, inizialmente riconosciuto per
tre anni e poi per un solo anno, è oggi ancorato a criteri oggettivi definiti
per legge, strutturato in termini universali e modulato in base a scaglioni di
reddito. Riconducibile al novero delle prestazioni di sicurezza sociale, esso
rivela una pluralità di funzioni, che potrebbero renderne incerta la
qualificazione come prestazione familiare.

Si coglierebbe, in primo luogo, una funzione
premiale, desumibile dallo stesso dettato normativo (art. 1, comma 125, della legge n.
190 del 2014), che enuncia «il fine di incentivare la natalità», e
segnalata dalla difesa dello Stato e dall’INPS. Tale finalità sarebbe
confermata dall’evoluzione della disciplina, che ha configurato in termini
universali la prestazione e ha previsto una maggiorazione per i figli
successivi al primo.

Peraltro, il fatto che la stessa formulazione
originaria della legge individuasse nel reddito del nucleo familiare il
presupposto di concessione dell’assegno parrebbe conferire rilievo alle condizioni
di disagio della famiglia beneficiaria, associando alla finalità di incentivare
la natalità quella di «contribuire alle spese per il suo sostegno». Tali
elementi potrebbero dare rilevanza alla ulteriore finalità di sostenere il
nucleo familiare in condizioni economiche precarie e di assicurare ai minori le
cure essenziali. Tale finalità potrebbe emergere anche dalle recenti modifiche
normative che, pur configurando l’assegno come provvidenza universale, ne
modulano l’importo in ragione delle diverse soglie di reddito e, dunque, del
diverso grado di bisogno.

Alla luce di tali considerazioni, il carattere
premiale non parrebbe esclusivo, a fronte del concorrente obiettivo di offrire
un contributo pubblico al bilancio della famiglia, secondo i tratti distintivi
delle prestazioni familiari di cui all’art. 1, lettera z), del regolamento
(CE) n. 883/2004.

7.1.2. – Quanto all’assegno di maternità, si chiede
alla Corte di giustizia se esso debba essere incluso nella garanzia dell’art. 34 CDFUE, letto alla luce del
diritto secondario, che mira ad assicurare «uno stesso insieme comune di
diritti, basato sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro»
a tutti i cittadini di paesi terzi che soggiornano e lavorano regolarmente
negli Stati membri, vincolando questi ultimi all’indicato obiettivo.

8. – In base all’art. 105 del regolamento di
procedura della Corte di giustizia del 25 settembre 2012, si richiede che il
presente rinvio pregiudiziale sia deciso con procedimento accelerato.

Dalle questioni sottoposte all’odierno vaglio di
questa Corte e ampiamente dibattute nella giurisprudenza, non è da escludere
che traggano origine numerosi ulteriori rinvii pregiudiziali da parte dei
giudici comuni.

L’ampiezza del contenzioso pendente attesta un grave
stato di incertezza sul significato da attribuire al diritto dell’Unione.
L’orientamento diffuso nella giurisprudenza di merito, che attribuisce
efficacia diretta alle previsioni dell’art. 12 della direttiva 2011/98/UE,
non è seguìto dall’amministrazione competente a erogare le provvidenze, mentre
la Corte di cassazione, chiamata a garantire l’uniforme interpretazione del
diritto nazionale, si è rivolta a questa Corte per ottenere una pronuncia con
effetti erga omnes.

L’incertezza, che è necessario dirimere in maniera
sollecita, è tanto più grave in quanto riguarda sia il settore nevralgico della
politica comune dell’immigrazione dell’Unione europea nello spazio di libertà,
sicurezza e giustizia, sia il tema della parità di trattamento tra cittadini
dei paesi terzi e cittadini degli Stati membri in cui soggiornano, che di tale
politica rappresenta elemento qualificante e propulsivo.

La risposta al quesito posto da questa Corte è
destinata a incidere sulla erogazione di prestazioni a tutela della maternità e
dei bisogni dei minori.

Visti gli artt. 267 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea, e 3 della legge 13 marzo 1958, n. 204,
recante «Ratifica ed esecuzione dei seguenti Accordi internazionali firmati a
Bruxelles il 17 aprile 1957: a) Protocollo sui privilegi e sulle immunità della
Comunità economica europea; b) Protocollo sullo Statuto della Corte di
giustizia della Comunità economica europea; c) Protocollo sui privilegi e sulle
immunità della Comunità europea dell’energia atomica; d) Protocollo sullo
Statuto della Corte di giustizia della Comunità europea dell’energia atomica
(stralcio: protocolli Euratom)».

 

P.Q.M.

 

Riuniti i giudizi,

1) dispone di sottoporre alla Corte di giustizia
dell’Unione europea, ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13
dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2
agosto 2008, n. 130, la seguente questione pregiudiziale:

se l’art.
34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE),
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre
2007, debba essere interpretato nel senso che nel suo ambito di applicazione
rientrino l’assegno di natalità e l’assegno di maternità, in base all’art. 3, paragrafo 1, lettere b) e j),
del regolamento (CE) n. 883/2004, del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale,
richiamato dall’art. 12,
paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, del Parlamento europeo
e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di
domanda per il rilascio di un permesso unico, e se, pertanto, il diritto
dell’Unione debba essere interpretato nel senso di non consentire una normativa
nazionale che non estende agli stranieri titolari del permesso unico di cui
alla medesima direttiva le provvidenze sopra citate, già concesse agli
stranieri titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo
periodo;

2) chiede che le questioni pregiudiziali siano
decise con procedimento accelerato;

3) sospende i giudizi sino alla definizione delle
suddette questioni pregiudiziali;

4) ordina la trasmissione di copia della presente
ordinanza, unitamente agli atti dei giudizi, alla cancelleria della Corte di
giustizia dell’Unione europea.

 

Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale 05
agosto 2020, n. 32.

 

Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Ordinanza 30 luglio 2020, n. 182
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