Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 luglio 2020, n. 15977
Sussistenza un rapporto di lavoro subordinato, Accertamento,
Differenza retributive, ipotesi di cessione d’azienda ex art. 2112 cc
Rileva che
con separati ricorsi, successivamente riuniti,
proposti nei confronti di Z. R. (quale titolare della omonima ditta) e della
s.r.l. Z. R. C., l’attrice C. R. chiedeva al giudice del lavoro di Ariano
Irpino di accertare la sussistenza un rapporto di lavoro subordinato intercorso
tra la stessa ricorrente e Z. R. dal 5 dicembre 2003 al 31 dicembre 2007 in
qualità di commessa addetta alle vendite e alla riscossione con il quinto
livello del c.c.n.l. del settore commercio e di conseguenza la condanna della
convenuta al pagamento di euro 44.419,78 per differenze retributive oltre
accessori, nonché accertarsi che dal 2 gennaio al 28 giugno 2008 la stessa
aveva intrattenuto rapporto di lavoro, avente le medesime caratteristiche del
precedente, alle dipendenze della Z. C., con la condanna altresì di
quest’ultima al pagamento della somma di euro 5735,95. Instaurato il
contraddittorio nei confronti delle convenute, queste si costituivano in
giudizio, resistendo alle pretese avversarie e contestando altresì la dedotta
subordinazione. Il giudice adito, espletata prova per testi ed acquisita la
documentazione prodotta dalle parti, accoglieva le domande con la condanna di
“parte resistente” al pagamento della somma complessiva di euro
50.155,00 oltre accessori e spese di lite. Avverso la relativa pronuncia,
pubblicata il 17 maggio 2011, proponeva tempestivo appello la società Z. C.
s.r.I., cui resisteva C. R., mentre non si costituiva Z. R.;
espletato sub procedimento relativo alla richiesta
di sospensiva della gravata sentenza (nel corso del quale la appellante società
corrispondeva alla C. banco judicis e salvo ripetizione all’esito
dell’impugnazione, la somma di euro 5735,95), la Corte d’Appello di Napoli con
sentenza n. 3236 in data 14 aprile – sei maggio 2015, in parziale accoglimento
dell’interposto gravame, condannava la S.r.l. Z. C. al pagamento, in favore
della C., della somma di 5735,95 euro, nonché Z.R. al pagamento, sempre a
favore dell’attrice, di 44.419,78 euro, oltre accessori, per le causali di cui
al ricorso introduttivo del giudizio, confermando nel resto l’impugnata
pronuncia e dichiarando compensate tra le parti le spese relative al secondo
grado del giudizio. Secondo la Corte distrettuale risultava fondato il primo motivo d’appello,
con il quale era stata lamentata l’erroneità della gravata pronuncia, per aver
indebitamente unificato le parti convenute di cui ai separati ricorsi
introduttivi dei due giudizi, poi
riuniti, che non contenevano alcun elemento di fatto o di diritto, da cui fosse
possibile desumere la prospettazione di un trasferimento d’azienda. Anzi, la
netta formale distinzione e l’autonomia degli accertamenti nonché delle
condanne oggetto delle domande imponevano di ritenere l’estraneità, nelle due
fattispecie, della seppure vaga prospettazione di una qualsiasi ipotesi di
cessione d’azienda ex art. 2112 c. c.. Di
conseguenza, era inibito il grado d’appello esaminare le questioni poste
dall’appellata al fine di sostenere la validità della condanna solidale
pronunciata dal giudice adito, attesa la novità delle relative deduzioni, però
non consentita in sede di gravame. Peraltro, la convenuta Z. R. non aveva
impugnato la condanna che l’aveva investita, donde il passaggio in giudicato
nei suoi confronti della sentenza di primo grado, che aveva affermato la
sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la quantificazione,
inoltre, dei crediti della lavoratrice nella misura di 44.419,78 euro, oltre
accessori. Per contro, il secondo motivo d’appello, riferito al rapporto di
lavoro da gennaio a giugno 2008, per cui erano state accertate differenze
retributive a favore dell’attrice in ragione di 5735,95 euro, veniva disatteso
dalla Corte partenopea, attesa in particolare la genericità della doglianza.
Parimenti, veniva rigettato il terzo motivo d’appello concernente il
regolamento delle spese di primo grado; avverso la succitata sentenza d’appello
ha proposto ricorso per cassazione la sig.ra R. C., come da atto di cui alla
richiesta di notifica all’ufficiale giudiziario in data 26 ottobre 2015,
affidato a quattro motivi, contro Z. C. s.r.I., che è rimasta intimata;
Considerato che
in via preliminare è del tutto processualmente
irrilevante, ai fini di questo giudizio, la missiva qui pervenuta tramite posta
elettronica certificata in data 11 maggio 2017, con la quale l’avv. M.P.D.V. da
Benevento, quale curatrice del fallimento n. 17/2006, ha comunicato, ai sensi
degli artt. 43L.F. e 300 c.p.c., l’intervenuto fallimento della Z. C.
S.r.l. in liquidazione, in persona del liquidatore p.t., con sede in Ariano
Irpino, come da pure acclusa sentenza del Tribunale di Benevento in data 16 /
18 febbraio 2016. Ed invero, a parte l’irritualità di una comunicazione
pervenuta da parte non costituita in giudizio, ad ogni modo l’intervenuta
modifica dell’art. 43 I. fall.
per effetto dell’art. 41 del d.lgs.
n. 5 del 2006, laddove stabilisce che “l’apertura del fallimento
determina l’interruzione del processo”, non comporta l’interruzione del
giudizio di legittimità, posto che in quest’ultimo, in quanto dominato
dall’impulso d’ufficio, non trovano applicazione le comuni cause di
interruzione del processo previste in via generale dalla legge (Cass. I civ. n.
27143 del 15/11/2017, conforme Cass. lav. n. 21153 del 13/10/2010, sez. 5 n. 14786 del 5/07/2011, sez. lav. n. 8685 del 31/05/2012, sez. 5 n. 17450 del 17/07/2013);
ciò premesso, il primo motivo di ricorso denuncia la
falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. anche
per l’omessa valutazione sugli elementi di continuità aziendale presenti nel
giudizio di primo grado, dovendosi invece aver riguardo al contenuto
sostanziale della pretesa fatta valere e all’effettiva volontà della parte,
attraverso l’esame complessivo dell’atto, pure alla luce della documentazione
allegata ed ivi allegata, nonché al contenuto dei mezzi istruttori;
con il secondo motivo la ricorrente lamenta la falsa
applicazione dell’art. 112 c.p.c. per la
violazione dell’art. 97 c.p.c., sussistendo la
solidarietà in quanto presunta in base all’art.
1294 c.c., laddove inoltre il suddetto art.97
contempla l’interesse comune delle parti, non necessariamente indivisibile e
sostanziale, potendo esso consistere anche in un identico interesse personale
al provvedimento del giudice, avuto riguardo all’identità delle questioni
sollevate e discusse ed alla convergenza degli atteggiamenti difensivi – principi
e criteri tutti perfettamente riscontrati nel caso in esame;
con il terzo motivo la sentenza qui impugnata viene
censurata per la violazione dell’art. 437 c.p.c.,
in quanto se per le argomentazioni di cui al primo punto del ricorso non
potevano considerarsi nuove le motivazioni addotte nella comparsa di
costituzione del nuovo difensore, parimenti non potevano considerarsi
inammissibili i documenti ad essa allegati. Infatti, l’indispensabilità
richiesta ex art. 437 c.p.c., con riferimento
all’incolpevole inerzia del richiedente e all’esigenza d’integrare un quadro
probatorio già delineato, era evidentemente soddisfatta dall’integrazione
prodotta nel giudizio d’appello, tenuto conto che i documenti allegati erano
tutti successivi al giudizio di primo grado. Inoltre, tali elementi si
inserivano, completandolo, nel quadro probatorio già in esso risultante.
Infatti, se era già rinvenibile una chiara continuazione nell’esercizio
dell’impresa, tra la ditta individuale R. Z. e la S.r.l. Z. C., dalle nuove
allegazioni emergeva che l’attività era proseguita sotto la gestione diretta e
non dichiarata della sig.ra R. Z.; infine, con il quarto motivo è stata
lamentata l’omessa motivazione circa la configurabilità di un litisconsorzio
unitario tra la ditta individuale Z. R.
e la S.r.l. Z. C., tenuto conto delle ragioni della riunione, che il
giudice di primo grado aveva correttamente indicato nella connessione soggettiva
ed oggettiva dei procedimenti, criterio forte configurante una terza specie di
litisconsorzio, collocabile a metà strada tra quello necessario e quello
facoltativo, per cui, secondo la ricorrente, le parti dovrebbero essere
assoggettate ad un trattamento uniforme e la decisione dovrebbe essere
formalmente e sostanzialmente unica, con conseguente superamento del rilievo
operato dalla Corte distrettuale, secondo cui la C. aveva prospettato le sue
richieste d’accertamento in modo del tutto separato nei confronti della ditta
individuale per il periodo dicembre 2003 / dicembre 2007 e nei riguardi della
s.r.l. relativamente al primo semestre dell’anno 2008; tanto premesso, le
anzidette censure vanno disattese in base alle seguenti ragioni; invero, del
tutto correttamente la Corte di merito ha rilevato l’autonomia delle due
pretese creditorie azionate dalla sig.ra C. con i separati ricorsi introduttivi
dei giudizi, di cui uno riferito alla ditta individuale facente capo alla
sig.ra Z. R., persona fisica, per il periodo 5 dicembre 2003 / 31 dicembre 2007
in ordine a differenze retributive vantate per la complessiva somma di
44.419,78 euro oltre accessori, e l’altro relativo alla s.r.l. Z. R. C. per il
periodo due gennaio / 28 giugno 2008, limitatamente all’importo di 5735,95
euro, sicché, non essendo stata prospettata alcuna ipotesi di trasferimento
aziendale, rilevante ai sensi dell’art. 2112 c.c.,
tale da poter giustificare una responsabilità solidale della cessionaria per i
crediti maturati dalla lavoratrice nei confronti della cedente al tempo del
trasferimento, ne derivava evidentemente il vizio di ultrapetizione in cui era
incorsa la gravata pronuncia per la condanna di “parte resistente” al
pagamento della somma pari totale dei due importi richiesti dall’attrice a
ciascuna delle parti convenute (costituitesi, infatti, con separate memorie
difensive nei due distinti procedimenti, ancorché di identico tenore – come sul
punto riferito nello stesso ricorso per cassazione a pag. 5, laddove inoltre si
accenna anche alla loro riunione, disposta dal primo giudicante, in data 6
ottobre 2009, per connessione soggettiva e oggettiva), dunque in palese
violazione dei principi di cui all’art. 112 c.p.c.;
in effetti la mera connessione (parzialmente oggettiva e soggettiva, rilevante
ex artt. 274 c.p.c. e 151 delle relative norme di attuazione,
specialmente per le controversie in materia di lavoro e di previdenza) non può,
evidentemente, comportare l’individuazione sostanziale, officio judicis, dei
due diversi soggetti convenuti in una sola parte, né tantomeno delle distinte
pretese azionate in una sola domanda, in assenza di circostanziate deduzioni di
parte tali da poter consentire una diversa qualificazione delle domande,
ancorché separatamente proposte, in termini di obbligazione solidale ex 1294 c.c., ovvero in alternativa di litisconsorzio
necessario sostanziale ex art. 102 c.p.c.,
tanto più nel caso di specie in cui le due azioni risultavano distintamente
esperite contro due soggetti diversi, dotati di proprie autonome soggettività,
come la persona fisica della sig.ra Z., sebbene quale titolare della omonima
ditta, e la s.r.I., società di capitali, titolare invece di autonoma
personalità giuridica con relativa separazione patrimoniale perfetta rispetto
ai titolari delle relative quote [cfr. tra l’altro Cass. I civ. n. 17938 –
08/09/2005 con riferimento alla perfetta autonomia patrimoniale inerente alla
personalità giuridica della società, comportante la netta separazione tra il
patrimonio sociale e quello personale dei soci, dalla quale derivano
l’esclusiva imputazione alla società stessa dell’attività svolta in suo nome e
delle relative conseguenze patrimoniali passive, mentre gli effetti negativi
sull’interesse economico del socio -riduzione del valore della quota e
compromissione della redditività dell’investimento- costituiscono mero riflesso
di detto pregiudizio. V. poi Cass. III civ. n. 19373 del 3/8/2017, secondo cui
nel litisconsorzio facoltativo improprio le cause riunite conservano la loro
autonoma individualità, senza che si verifichi alcuna fusione degli elementi di
giudizio e delle prove acquisite nell’una o
nell’altra. Parimenti, secondo Cass. V civ.
n. 18649 del 13/07/2018, la riunione di procedimenti non fa venir meno
l’autonomia delle cause riunite nello stesso processo; pertanto, poiché le
vicende processuali proprie di uno soltanto dei procedimenti riuniti non
rilevano in ordine all’altro, o agli altri procedimenti, l’inammissibilità
dell’appello proposto riguardo ad uno dei processi riuniti, a causa della
mancata ottemperanza all’ordine di integrazione del contraddittorio, non ha
alcun effetto per l’altro appello, tempestivamente notificato: <<…8.1.
La giurisprudenza di questa Corte, con indirizzo condiviso, ritiene che il procedimento
discrezionale di riunione di più cause lascia immutata l’autonomia dei singoli
giudizi e non pregiudica la sorte delle singole azioni (Cass. n. 15954 del
2006; Cass. n. 24026 del 2010). Ne consegue
che la declaratoria di inammissibilità
di una determinata domanda giudiziale non si estende anche alle domande
che sotto il profilo del “petitum” e della “causa petendi”
siano connesse, le quali vanno, pertanto, esaminate nel merito. Va, infatti,
ribadito il principio secondo cui: “La riunione di procedimenti non fa
venire meno l’autonomia delle cause riunite nello stesso processo; pertanto,
poiché le vicende processuali proprie di uno soltanto dei procedimenti riuniti
non rilevano in ordine all’altro, o agli altri procedimenti, l’inammissibilità
dell’appello proposto riguardo ad uno dei processi riuniti, a causa della
mancata ottemperanza all’ordine di integrazione del contraddittorio, non ha
alcun effetto nell’altro appello, tempestivamente notificato.”(Cass. n.
2133 del 2006). …». Ed analogamente, secondo Cass. I civ. n. 15860 del
10/07/2014, il provvedimento
discrezionale di riunione di più cause lascia immutata l’autonomia dei
singoli giudizi e non pregiudica la sorte delle singole azioni. Ne consegue che
la congiunta trattazione lascia integra la loro identità, tanto che la sentenza
che decide simultaneamente le cause riunite, pur essendo formalmente unica, si
risolve in altrettante pronunce quante sono le cause decise, mentre la
liquidazione delle spese giudiziali va operata in relazione a ciascun giudizio,
atteso che solo in riferimento alle singole domande è possibile accertare la
soccombenza, non potendo essere coinvolti in quest’ultima soggetti che non sono
parti in causa. Conforme Cass. n. 15954 del 2006. V. ancora Cass. lav. n. 19937
del 6/10/2004: nell’ipotesi di domanda proposta, sia pure con un medesimo atto, da diversi lavoratori
nei confronti del medesimo datore di lavoro – c.d. litisconsorzio facoltativo
improprio-, pur nell’identità delle questioni, permane l’autonomia dei
rispettivi titoli e dei rapporti, con la conseguenza che le cause, per loro
natura scindibili, restano distinte, con una propria individualità rispetto ai
legittimi contraddittori, e con l’ulteriore conseguenza che la sentenza che le
definisce, sebbene formalmente unica, consta in realtà di tante pronunce quante
sono le cause riunite, le quali conservano la propria autonomia ai fini delle
successive impugnazioni; ne consegue che queste ultime possono svolgersi
separatamente le une dalle altre, senza che la tempestiva impugnazione proposta
da alcune soltanto delle parti coinvolga la posizione delle parti non
impugnanti o determini la necessità di integrazione del contraddittorio nei
loro confronti. In senso analogo anche Cass. II civ. n. 11386 del 13/05/2013.
Id. n. 24086 del 26/11/2010, secondo cui la riunione di più cause originariamente
separate, in ragione della connessione di “petitum” e “causa
petendi” propri di ciascuna di esse o della identità delle questioni da
trattare, non comporta il venir meno dell’autonomia dei singoli giudizi e dei
rispettivi titoli, di modo che la sentenza che li definisce, pur se formalmente
unica, consta in realtà di tante pronunce quante sono le cause riunite);
vanno pertanto respinti i due primi motivi, tra loro
connessi e riferiti alla pretesa falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., error in procedendo peraltro
nemmeno ritualmente denunciato ex art. 360 n. 4
c.p.c., univocamente in termini di nullità, laddove d’altro canto la
parziale riproduzione degli atti processuali e della documentazione menzionati
alle pagine da 13 a 15 del ricorso de quo appare del tutto insufficiente, ex art. 366, co. 1, nn. 3 e 6 c.p.c. per poter
desumere la pretesa continuità aziendale già dedotta in primo grado, ma che non
sarebbe stata debitamente valutata dalla Corte di merito.
Invero, la sentenza qui impugnata evidenziava
espressamente come l’oggetto dei due ricorsi introduttivi non contenesse in
alcun modo elementi di fatto e di diritto dai quali fosse possibile trarre il
convincimento che la lavoratrice avesse prospettato la sussistenza di un
trasferimento d’azienda, anzi contraddetto proprio dalla netta separata instaurazione (peraltro contestuale)
dei due contenziosi, donde la ritenuta estraneità della seppur vaga
prospettazione di una qualsiasi ipotesi di cessione d’azienda ex art. 2112 c.c., a parte, evidentemente, la
pacifica diversità dei due soggetti di diritto evocati in giudizio;
assolutamente inconferente, poi, si appalesa la pur ipotizzata violazione
dell’art. 97 c.p.c., norma quest’ultima chiaramente non pertinente in ordine
all’asserita solidarietà, siccome relativa al solo regolamento delle spese
processuali per l’ipotesi di più soccombenti, ciò che non implica affatto la
necessaria sussistenza di obbligazione in solido, sotto il profilo sostanziale,
ai sensi degli artt. 1292 e ss. c.c. (cfr. del
resto anche Cass. II civ. n. 17281 del 12/08/2011, secondo cui la condanna
solidale al pagamento delle spese processuali nei confronti di più parti
soccombenti può essere pronunciata non solo quando vi sia indivisibilità o
solidarietà del rapporto sostanziale, ma pure nel caso in cui vi sia una
comunanza di interessi la cui sussistenza, ai fini della ripartizione delle
spese o della condanna solidale, non può che essere apprezzata dal giudice di merito con una valutazione non
censurabile in sede di legittimità – principio enunciato in riferimento a due
cause autonome riunite per connessione. Conforme Cass. 24757 del 2007. V.
parimenti Cass. In civ. n. 27562 del 20/12/2011: ai sensi dell’art. 97 cod. proc. civ., al fine della condanna in
solido di più soccombenti alle spese di giudizio, il requisito dell’interesse comune
non postula la loro qualità di parti in un rapporto sostanziale indivisibile o
solidale, ma può anche discendere da una mera convergenza di atteggiamenti
difensivi rispetto alle questioni oggetto di causa, ovvero da identità di
interesse personale con riguardo al provvedimento richiesto al giudice.
Conforme Cass. sez. un. civ. n. 1536 del 12/02/1987);
le precedenti considerazioni assorbono,
evidentemente, anche il terzo motivo circa la pretesa violazione dell’art. 437 c.p.c., atteso peraltro non solo il già
menzionato difetto di autosufficienza, unitamente per giunta all’irritualità
della denuncia di un error in procedendo -per cui ad ogni modo l’accesso
diretto agli atti da parte del giudice di legittimità pure nell’ipotesi di
vizio rilevante ex art. 360 n. 4 c.p.c. resta
subordinato al rigoroso rispetto delle formalità prescritte dall’art. 366 co. I n. dello stesso codice di rito)-
comunque non dedotto univocamente in termini di nullità, ma avuto altresì
riguardo alla rilevata carenza di compiute allegazioni, segnatamente ex art. 366 n. 6 cit., circa la sussistenza di
elementi di continuità aziendale desumibili dagli atti dei giudizi di primo
grado. Peraltro, va pure richiamato il principio, ribadito da Cass. lav. n.
17176 del 29/07/2014, secondo cui nel c.d. rito del lavoro, la disciplina della
fase introduttiva del giudizio – e a maggior ragione quella del giudizio d’appello
– risponde ad esigenze di ordine pubblico attinenti al funzionamento stesso del
processo, in aderenza ai principi di immediatezza, oralità e concentrazione che
lo informano, con la conseguenza che, ai sensi dell’art.
437 cod. proc. civ., non sono ammesse domande nuove, né modificazioni della
domanda già proposta, sia con riguardo al “petitum” che alla
“causa petendi”, neppure nell’ipotesi di accettazione del
contraddittorio ad opera della controparte, e non è, pertanto, consentito
addurre in grado di appello, a sostegno della propria pretesa, fatti diversi da
quelli allegati in primo grado, anche quando il bene richiesto rimanga
immutato, essendo nella fase di appello precluse le modifiche (salvo quelle
meramente quantitative) che comportino anche solo una “emendatio libelli”,
permessa solo all’udienza di discussione di primo grado, previa autorizzazione
del giudice e della ricorrenza dei gravi motivi previsti dalla legge (conforme
Cass. n. 15886 del 2002. V. parimenti Cass. lav. n. 1743 del 6/3/1990, secondo
cui nel rito del lavoro non è consentito in appello il mutamento della causa
petendi della domanda originaria, ancorché esso non involga una trasformazione
obiettiva del contenuto intrinseco della domanda stessa, essendo in detta fase
precluse anche modifiche -salvo quelle meramente quantitative- che comportino
non una mutatio ma solo una emendatio libelli, la quale è permessa solo
all’udienza di discussione di primo grado, previa autorizzazione del giudice e
nella ricorrenza dei gravi motivi previsti dalla legge ex art. 420 cod. proc. civ.. Cfr. inoltre Cass. lav.
n. 12764 del 17/12/1997: nel rito del lavoro esiste la preclusione in appello
della domanda nuova e diversa da quella fatta valere in primo grado allorquando
la “causa petendi” dedotta, essendo fondata su elementi e circostanze
non prospettate in precedenza, importi il mutamento dei fatti costitutivi del
diritto azionato in giudizio ed introduca nel processo un nuovo tema di indagine
che alteri l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia.
Il divieto dello “ius novorum” è rilevabile d’ufficio anche in sede
di legittimità, essendo contrario ai principi ispiratori dell’anzidetto rito
speciale l’ammissibilità in appello di domande ed eccezioni la cui proposizione
sarebbe già stata preclusa in primo grado ai sensi dell’art. 416 cod. proc. civ. Né la tardività della
nuova domanda può essere sanata dall’accettazione del contraddittorio sulla
medesima ad opera della controparte come nel rito ordinario. In senso conforme
Cass. nn. 1506, 6720 e 9874 del 1995);
inammissibile risulta, altresì, il quarto motivo di
ricorso circa la omessa motivazione del c.d. litisconsorzio unitario tra le due
convenute, atteso che dal complesso delle argomentazioni svolte dalla Corte di
merito non emerge, evidentemente, la violazione del c.d. minimo costituzionale
occorrente a norma degli artt. 111 Cost. e 132 n. 4 c.p.c., la cui inosservanza quindi è
denunciabile esclusivamente mediante rituale allegazione del corrispondente
error in procedendo ex art. 360 n. 4 c.p.c.,
comunque univocamente in termini di nullità, ciò che non emerge dalle tesi
sostenute da parte ricorrente alle pagine 19 e 20 c.p.c.. Per altro verso, si
rimanda a quanto in precedenza osservato circa la persistente autonomia delle
due domande, separatamente proposte dall’attrice, ancorché poi riunite, sotto
il profilo processuale e sostanziale, donde l’assoluta irrilevanza
dell’asserito litisconsorzio unitario, questione peraltro espressamente presa
in considerazione dalla Corte distrettuale, che tuttavia la giudicava, al pari
delle altre sollevata dall’appellata, inammissibile, siccome dedotta per la
prima volta in secondo grado;
pertanto, il ricorso va respinto, tuttavia senza
alcun provvedimento in tema di spese, essendo rimasta ad ogni modo intimata la
società Z. C. S.r.l., nei sensi sopra precisati;
sussistono, però, i presupposti di legge in ordine
al versamento dell’ulteriore contributo unificato, atteso l’esito completamente
negativo dell’impugnazione qui proposta;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis
dello stesso articolo 13.