Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 29 luglio 2020, n. 16253
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo,Cessazzione
dell’appalto, Relazione fra la perdita dell’appalto e il venir meno della
utilità del lavoratore in esubero
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 26 marzo 2018, la Corte
d’Appello di Roma ha respinto il reclamo avverso la decisione resa in sede di
opposizione dal locale Tribunale che aveva dichiarato l’illegittimità del
licenziamento intimato a P.S. per giustificato motivo oggettivo in relazione
alla intervenuta cessazione dell’appalto ove lo stesso era impiegato, sul
presupposto della violazione degli adempimenti di cui alla procedura dell’art.
27 CCNL, onde il rapporto doveva ritenersi confermato con l’impresa uscente anche
alla luce del fatto che la resistente non aveva allegato né dimostrato la
relazione sussistente fra la perdita dell’appalto e il venir meno della utilità
del lavoratore in esubero.
In particolare il Collegio d’appello, ha escluso che
la cessazione dell’appalto potesse costituire di per sé un giustificato motivo
di licenziamento in assenza appunto della prova del necessario nesso causale
tra la ragione organizzativo produttiva posta a base del recesso e la
soppressione del posto di lavoro del S. atteso che il dipendente non era
addetto esclusivamente né prevalentemente a tale appalto.
1.1. Per la cassazione della pronuncia propone
ricorso, assistito da memoria, la S. S.r.L., affidandolo a quattro motivi.
1.2. Resiste, con controricorso, P.S..
Considerato in diritto
l. Con il primo motivo di ricorso si deduce la
violazione dell’art. 1362 del codice civile per
aver la Corte ritenuto non censurato da parte della ricorrente l’assunto del
giudice di primo grado secondo cui nel biennio precedente licenziamento, il
dipendente S. non aveva mai operato presso l’appalto attivato nella sede della
Camera di Commercio.
Mediante il secondo motivo di censura, parte
ricorrente denuncia la violazione dell’articolo 112
cod. proc. civ. per omessa pronuncia circa la ritenuta assenza del nesso
causale e l’interpretazione offerta dell’articolo 25 del Contratto Collettivo
Nazionale.
Con il terzo motivo si censura la pronunzia
impugnata per violazione e falsa applicazione degli accordi collettivi
nazionali allegandosi erronea e falsa applicazione dell’articolo 1342 del codice civile.
Con il quarto motivo di ricorso si denuncia la
violazione della legge n. 300 del 1970 per
l’erronea applicazione dei commi
4 e 7 dell’articolo 18 nell’attuale formulazione.
Il primo motivo non può trovare accoglimento.
1.1. Parte ricorrente lamenta, infatti, che,
contrariamente a quanto assunto dal giudice di primo grado e confermato da
quello del reclamo, essa aveva censurato la conclusione del Tribunale secondo
cui il S., nel biennio precedente il licenziamento, non aveva mai operato
presso la Camera di Commercio considerata.
In particolare, sostiene la sussistenza di un onere
per il giudicante di conferire rilievo alla valutazione circa l’intenzione
della parte che ha proposto l’argomento contenuto nell’atto non limitandosi ad
una indagine meramente letterale del testo.
Orbene, giurisprudenza consolidata, in sede di
legittimità (Cfr., sul punto, Cass. n. 25259 del 25/10/2017) afferma che
l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad
un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito e non trova applicazione
soltanto quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio
riconducibile nell’ambito dell’ “error in procedendo” che può essere
scrutinato in sede di legittimità.
Nel caso di specie, ad avviso del Collegio, si versa
in ipotesi di giudizio di fatto circa il contenuto delle allegazioni di parte,
avendo la Corte in più punti rilevato il difetto di rilievi critici rispetto
alla motivazione di primo grado in ordine all’assenza di rilievi critici circa
il difetto di collegamento lavorativo con l’appalto cessato talché deve
radicalmente escludersi che si sia determinata l’omessa pronuncia su una
domanda che si sostiene regolarmente proposta e non venuta meno.
2. Il secondo motivo, con cui si denunzia l’omessa
pronuncia su specifici motivi di appello, in particolare circa
l’interpretazione offerta degli artt. 24, 25, 26 e 27 del CCNL è infondato.
Va premesso, al riguardo, che, per costante
giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Cass. n. 30684 del 21/12/2017), in
sede di cassazione va tenuta distinta l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso
esame di una domanda da quella in cui si censuri l’interpretazione che ne ha
dato il giudice del merito. Soltanto nel primo caso, sì verte, infatti, in tema
di violazione dell’articolo 112 c.p.c. e si
pone un problema di natura processuale, per la soluzione del quale la Suprema
Corte ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti onde
acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiesta.
Nel secondo caso, invece, poiché l’interpretazione della domanda e
l’individuazione del suo contenuto integrano un tipico accertamento di fatto
riservato, come tale, al giudice del merito, in sede di legittimità può essere
effettuato esclusivamente il controllo della correttezza della motivazione che
sorregge sul punto la decisione impugnata (Si vedano, altresì, circa i limiti
della pronuncia del giudice e il corrispondente sindacato di legittimità, Cass.
n. 455 del 11/01/2011; Cass. n. 18868 del 24/09/2015; Cass. n. 21720 del 06/09/2018).
D’altro canto, come rilevato da questa Corte in
vicenda analoga a quella di specie (V. Cass. n. 25575 del 10/10/2019) la
denuncia di violazione o falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi
di lavoro, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n.
3 c.p.c., come modificato dall’art.
2 del d.lgs. 2 febbraio 2006 n.40, in quanto parificata sul piano
processuale alla violazione di norme di diritto (cfr. Cass. n. 6335 del 2014; n. 7385 del 2014),
consente a questa Corte un sindacato che presuppone un accertamento in fatto
incontestato.
Il vizio di violazione di legge, infatti, investe
immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o
affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero
nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla
fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge
consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che
non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur
rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre
dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che
contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell’ambito
applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3,
l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo
delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione
della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta
perciò al sindacato di legittimità, (cfr. Cass. 18782 del 2005; n. 195 del
2016; n. 23847 del 2017; n. 6035 del 2018).
Nel caso di specie, la censura di erronea
interpretazione dell’art. 25 del c.c.n.I. presuppone un dato di fatto diverso
da quello accertato dalla Corte e, cioè, l’essere stato il dipendente non
assegnato in via esclusiva all’appalto considerato.
D’altro canto, non può mai parlarsi di omessa
pronuncia in casi, quale quello di specie, in cui, piuttosto, deve ritenersi
che il giudice si sia implicitamente pronunziato sulle deduzioni di parte
ricorrente quale quella relativa all’asserita erronea interpretazione di norme
del CCNL proprio per aver ritenuto che parte ricorrente non avesse formulato
alcun rilievo critico circa l’affermazione comunque contenuta nella sentenza
impugnata secondo cui il S., nel biennio precedente il licenziamento non aveva
mai operato presso l’appalto della Camera di Commercio.
In particolare, la Corte ha ritenuto che,
quand’anche il primo giudice avesse fondato la decisione sulla violazione delle
clausole contrattuali collettive e sulla mancata prova di un utile reimpiego
del lavoratore, la parte reclamata aveva sicuramente riproposto nel giudizio di
impugnazione la questione della mancata prova della soppressione del posto di
lavoro, attribuendo rilievo preminente a quella parte della motivazione di
primo grado in cui si escludevano allegazioni della società in ordine alla
conclusione per cui, in base alla documentazione acquisita, non poteva ritenersi
sussistente il nesso causale fra la soppressione del posto di lavoro e la
cessazione dell’appalto considerato.
3. Passando all’esame del terzo motivo di ricorso,
esso si palesa inammissibile.
Pur volendo interpretarsi – per il richiamo
contenuto al suo interno – il riferimento all’art.
1342 cod. civ. come in realtà inerente all’art.
1362 cod. civ., ritiene il Collegio che, comunque, nonostante parte
ricorrente veicoli le proprie censure in termini di violazione di legge, essa,
in realtà, mira ad una inammissibile rivisitazione del merito, allegando e
pretendendo una diversa interpretazione del contratto collettivo e sperando che
essa conduca ad una difforme decisione giudiziale sul punto del nesso di
causalità fra cessazione dell’appalto e venir meno delle esigenze relative
all’attività di lavoro svolta dal dipendente S..
Secondo il costante insegnamento di questa Corte
(Cfr., sul punto, Cass. n. 30323 del 18/12/2017),
proprio con riferimento all’art. 360, co. 1, n. 3,
c.p.c., il vizio va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con
l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la
specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza
impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici
della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla
giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare
criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando
altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale
di verificare il fondamento della denunziata violazione (Si vedano, altresì, Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015;
Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012).
Nel caso di specie, le censure tutto generiche
avanzate sul punto da parte ricorrente, depongono, in realtà, per una
rivisitazione del merito della vicenda così come scrutinata in primo e secondo
grado, e per la correlativa formulazione di una istanza inerente un vizio di
motivazione, da ritenersi inammissibile in sede di legittimità.
4. Il quarto motivo di ricorso è infondato, anche se
riguardato alla luce della natura residuale della tutela reintegratoria,
prevista dall’art. 18 I. n.
300/70 novellato, già più volte affermata da questa Corte (fra le altre, Cass. n. 14021 del 2016 e 30323 del 2017 cit.).
Invero la L. n. 92 del
2012, graduando le tutele in caso di licenziamento illegittimo, ha previsto
al quarto comma del nuovo art.
18 una tutela reintegratoria definita “attenuata” (per
distinguerla da quella più incisiva di cui al primo comma), in base alla quale
il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla
reintegrazione del lavoratore ed al pagamento di una indennità risarcitoria dal
giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, in misura
comunque non superiore a 12 mensilità; al quinto comma dello stesso articolo è
prevista, invece, una tutela meramente indennitaria per la quale il giudice
dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento
e condanna il datore al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva
determinata tra un minimo di 12 mensilità e un massimo di 24, tenuto conto di
vari parametri contenuti nella disposizione medesima.
Il discrimen tra le due tutele, in caso di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo, è descritto dal
settimo comma dell’art. 18
novellato, secondo la seguente formulazione testuale per cui il giudice:
“Può altresì applicare la predetta disciplina -quella di cui al quarto
comma – nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto
a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi
in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo,
il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma”.
Orbene, poiché il giudice “può” attribuire
la cd. tutela reintegratoria attenuata, tra tutte le “ipotesi in cui
accerta che non ricorrono gli estremi” del giustificato motivo oggettivo,
esclusivamente nel caso in cui il “fatto posto a base del licenziamento”
non solo non sussista, ma anche a condizione che detta
“insussistenza” sia “manifesta”, non pare dubitabile che
l’intenzione del legislatore, pur tradottasi in un incerto testo normativo, sia
quella di riservare il ripristino del rapporto di lavoro ad ipotesi residuali
che fungono da eccezione alla regola della tutela indennitaria in materia di
licenziamento individuale per motivi economici.
Pertanto tale ipotesi è riconducibile non a quella
peculiare che postula un connotato di particolare evidenza nell’insussistenza
del fatto posto a fondamento del recesso, bensì è sussumibile nell’alveo di
quella di portata generale per la quale è sufficiente che “non ricorrano
gli estremi del predetto giustificato motivo” oggettivo.
Questa Corte ha, tuttavia, statuito, di recente (Cass. n. 29101 dell’11/11/2019), che, in tema di
licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, la ritenuta
mancanza di un nesso causale tra recesso datoriale e motivo addotto a suo fondamento
è sussumibile nell’alveo di quella particolare evidenza richiesta per integrare
la manifesta insussistenza del fatto che giustifica, ai sensi dell’art. 18, comma 7, I. n. 300 del
1970, come modificato dalla I. n. 92 del 2012,
la tutela reintegratoria attenuata. (Nel caso considerato, la Corte ha
confermato la sentenza di merito nella quale era stato ritenuto che la
giustificazione addotta a supporto del licenziamento, incentrata sul venir meno
dell’attività dal lavoratore dedicata al telegiornale ed alle trasmissioni di
un canale televisivo ceduto dalla società datoriale ad altra emittente
televisiva, fosse stata smentita dall’istruttoria, essendo emerso che il
predetto lavoratore, al momento del recesso, era adibito in via prevalente ad
altre mansioni, rimanendo così escluso il necessario nesso causale tra la
cessione del canale televisivo ed il licenziamento).
Nel caso di specie, del tutto sovrapponibile, l’assoluto
difetto di collegamento fra la cessazione dell’appalto e l’attività lavorativa
svolta dal S. alla luce non solo della ordinarietà delle cessazioni degli
appalti nell’attività imprenditoriale, nonché dell’assenza di qualsivoglia
elemento di prova allegato da parte ricorrente circa la dimostrazione della
stabile adibizione del dipendente all’appalto cessato – di cui la Corte aveva
riscontrato prova contraria in atti – unitamente all’assenza di qualsivoglia
descrizione circa la struttura organizzativa della società e gli appalti in
essere al momento del licenziamento hanno indotto la Corte ad escludere ictu
oculi la sussistenza del nesso di causalità – e, quindi, del fatto costituente
giustificato motivo oggettivo del licenziamento – per non essere emersi nemmeno
in modo sommario elementi atti a far ritenere che la posizione del dipendente
fosse diventata esuberante o che lo stesso non fosse più proficuamente
utilizzabile.
Tale insussistenza ictu oculi si traduce nella
manifesta insussistenza del fatto proprio in quanto lo stesso appare difettare
tout court in modo così evidente da aver correttamente indotto il giudice di
secondo grado ad optare per la tutela reintegratoria attenuata di cui al comma 4 dell’art. 18 nel suo
combinato disposto con il settimo comma.
5. Alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi,
il ricorso va respinto.
5.1. Le spese seguono la soccombenza e vanno
liquidate come in dispositivo.
Sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.
1 – bis dell’ articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 (ndr
comma 1 – bis dell’ articolo 13
comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002), se dovuto.
P.Q.M.
Respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente
alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite,
che liquida in complessivi euro 5.000,00 per compensi ed euro 200,00 per
esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.
1 – bis dello stesso articolo 13 (ndr comma 1 – bis dello stesso articolo 13),
se dovuto.