Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 agosto 2020, n. 16594

Rapporto di lavoro, Dequalificazione professionale, Jus
variandi da parte del datore di lavoro, Risarcimento del danno

Rilevato che

La Corte d’appello di Roma, con sentenza resa pubblica
il 18/9/2015, confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che aveva
accolto la domanda proposta da M.E.R. nei confronti di P.I. s.p.a. volta a
conseguire pronuncia di accertamento della intervenuta dequalificazione
professionale subita nel periodo 16/7/2007-12/3/2010 per illegittimo esercizio
dello jus variandi, e di condanna della parte datoriale al risarcimento del
danno conseguenziale.

La ricorrente risultava infatti inquadrata nell’Area
Funzionale Operativa livello C c.c.n.l. di settore, che postulava il possesso
di conoscenze specifiche qualificate e comportava lo svolgimento di attività di
carattere amministrativo, di coordinamento o di incarichi di responsabilità, ed
il compimento di operazioni complesse in piena autonomia e con potere di
iniziativa nell’ambito di procedure predefinite e disposizioni dei superiori
gerarchici. Nel periodo considerato, come desumibile dai dati probatori
acquisiti in giudizio, era stata, invece, assegnata a posizione comportante
l’esercizio di mansioni manuali, di mero riordino e sistemazione di materiale
secondo procedure standardizzate, oltre che di supporto al personale di
sportello, con evidente violazione delle prescrizioni di cui all’art. 2103 c.c.

Avverso tale decisione la società soccombente
interpone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, ai quali resiste la
lavoratrice con controricorso illustrato da memoria ex art. 380 bis c.p.c..

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione dell’art. 1227 c.c. in
relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.

Si lamenta che la Corte di merito abbia disatteso un
punto decisivo della controversia concernente l’intervenuta acquiescenza nei
confronti del provvedimento datoriale di nuova assegnazione presso l’U.P. di
Roma 104 avendo la lavoratrice lasciato trascorrere un lungo lasso di tempo
(oltre un anno e mezzo) prima di impugnare il provvedimento di mutamento della
sede di lavoro.

2. Il motivo è privo di fondamento.

Ed invero, secondo l’insegnamento di questa Corte,
che va qui ribadito, l’acquiescenza tacita nei confronti di un provvedimento,
nel diritto amministrativo come in quello processuale civile, è configurabile
solo in presenza di un comportamento che appaia inequivocabilmente
incompatibile con la volontà del soggetto d’impugnare il provvedimento
medesimo. Non può, quindi, bastare, a tal fine, un atteggiamento di mera
tolleranza contingente e neppure il compimento di atti resi necessari od
opportuni, nell’immediato, dall’esistenza del suddetto provvedimento, in una
logica soggettiva di riduzione del pregiudizio, ma che non per questo escludono
l’eventuale coesistente intenzione dell’interessato di agire poi per
l’eliminazione degli effetti del provvedimento stesso. (vedi ex plurimis, Cass.
S.U. 20/5/2010 n. 12339)

Nello specifico il giudice del gravame ha dato atto
della insussistenza di indici tali da consentire di ritenere che nel periodo di
sottoutilizzazione vi fosse stata acquiescenza della lavoratrice idonea a
rendere inammissibile l’azione dispiegata; ha valutato il comportamento tenuto
dalla parte e reputato non si fosse evidenziata una chiara e certa volontà di
accettazione del provvedimento aziendale, con apprezzamento che non appare
connotato da errori di diritto né da carenze che trasfondono nella assoluta
omissione, nella mera apparenza ovvero della irriducibile contraddittorietà e
dell’illogicità manifesta, le quali avrebbero potuto giustificare l’esercizio
del sindacato in questa sede di legittimità (vedi in motivazione, con
riferimento al Cass. 11/9/2014 n. 19217, Cass. 15/1/2015 n. 10958).

3. Con il secondo motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione dell’art.2103 c.c. in
relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c. Si
critica la statuizione con la quale la Corte distrettuale è pervenuta
all’accertamento del denunciato demansionamento, ritenendo irrilevante la
clausola di fungibilità introdotta all’interno delle nuove aree di
classificazione introdotte a seguito della privatizzazione. Si ribadisce che la
convenuta era stata inquadrata nell’Area Operativa per effetto del c.c.n.l.
1994 (con sistema di classificazione mantenuto anche nel successivo c.c.n.l.
11/1/2001); si deduce che in vista del nuovo sistema introdotto dal c.c.n.l.
2003, erano state prese in considerazione le mansioni effettivamente svolte
alla fine dell’anno 2003 con individuazione del livello ci erano riconducibili;
si osserva quindi che a causa della necessità di rimodulare le posizioni di
staff e potenziare i servizi al pubblico era stata disposta l’applicazione
della lavoratrice presso l’UP 104 con assegnazione di mansioni equivalenti a
quelle in precedenza espletate.

4. Il terzo motivo prospetta violazione e falsa
applicazione degli artt. 115- 116 c.p.c.in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.

Si lamenta che la Corte territoriale sia pervenuta
all’erroneo convincimento della intervenuta dequalificazione della lavoratrice,
sulla scorta del non corretto scrutinio delle prove testimoniali raccolte.

5. I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi
stante la logica connessione che li connota, non sono fondati.

E’ invero, nel proprio incedere argomentativo, la
Corte distrettuale si è conformata ai principi affermati da questa Corte e da
ribadirsi in questa sede, secondo cui il divieto di variazioni in pejus
(demansionamento) opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza
delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni
sostanzialmente inferiori, sicché nell’indagine circa tale equivalenza non è
sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria, ma è necessario
accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del
dipendente in modo tale da salvaguardarne il livello professionale acquisito e
da garantire lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali,
con le conseguenti possibilità di miglioramento professionale, in una
prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del
proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze (vedi ex plurimis, Cass. S.U. 24/11/2006 n.25033, Cass. 14/6/2013 n. 15010).

Si è quindi precisato che “il nuovo contratto
collettivo può anche prevedere il reinquadramento in una nuova unica qualifica
di lavoratori in precedenza inquadrati in qualifiche distinte, con la
conseguente parificazione limitatamente a quella disciplina contrattuale
(normativa ed economica) riferita alla nuova qualifica. Ma ciò non implica
necessariamente anche che insorga un rapporto di equivalenza tra tutte le
mansioni rientranti nella qualifica” (vedi
Cass. 3/9/2002, n. 12821).

La garanzia prevista dall’art.
2103 cod. civ. opera infatti anche tra mansioni appartenenti alla medesima
qualifica prevista dalla contrattazione collettiva, precludendo
l’indiscriminata fungibilità di mansioni per il solo fatto dell’accorpamento
convenzionale; conseguentemente, il lavoratore addetto a determinate mansioni –
che il datore di lavoro è tenuto a comunicargli ex art.
96 disp.att. cod.civ. nell’esercizio del suo potere conformativo delle
iniziali mansioni alla qualifica -, non può essere assegnato a mansioni nuove e
diverse che compromettano la professionalità raggiunta, ancorchè rientranti
nella medesima qualifica contrattuale, dovendo, per contro, procedere ad una
ponderata valutazione della professionalità del lavoratore al fine di
salvaguardare, in concreto, il livello professionale acquisito e di fornire
un’effettiva garanzia dell’accrescimento delle capacità professionali del
dipendente (V., tra le altre, Cass. 3/2/2015 n.
1916, Cass. 25/9/2015 n. 19037, Cass. 4/3/2014 n. 4989, Cass. 14/6/2013 n. 15010).

Nello scrutinio attinente al corretto esercizio
dello jus variandi da parte del datore di lavoro è, dunque, necessario
accertare che le nuove mansioni conferite siano aderenti alla specifica
competenza tecnico professionale del dipendente e siano tali da salvaguardarne
il livello professionale acquisito, in una prospettiva dinamica di
valorizzazione della capacità di arricchimento del bagaglio di conoscenze ed
esperienze, ed in coerenza coi  dettami
di cui all’art.2103 c.c. il cui baricentro,
(come affermato da Cass. Cit. S.U. n. 25033/2006)
è dato proprio dalla protezione della professionalità acquisita dal prestatore
di lavoro.

La Corte di merito non ha vulnerato i suesposti
principi; ha infatti proceduto ad un ragionato raffronto fra le mansioni di
originaria appartenenza e quelle successivamente ascritte alla lavoratrice,
pervenendo ad un giudizio di disomogeneità, elaborato alla stregua dei
parametri di concreta equivalenza rispetto alla competenza richiesta, al
livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio
professionale acquisito dal dipendente, con apprezzamento non censurabile in
questa sede di legittimità.

6. In tal senso appare, dunque, inammissibile la
critica formulata dalla società con riferimento al non corretto vaglio del
quadro probatorio elaborato dal giudice del gravame.

Sotto il profilo della denuncia di error in
judicando (violazione degli artt. 115-116 c.p.c.) non può essere utilmente invocata una
lettura delle risultanze probatorie difforme da quella operata dal giudice a
quo, essendo la valutazione di quelle – al pari della scelta di quelle, tra
esse, ritenute più idonee a sorreggere la motivazione – un tipico apprezzamento
di fatto, riservato in via esclusiva al giudice del merito; questi, nel porre a
fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di
prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione
circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente
non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni
del proprio convincimento, senza peraltro essere tenuto ad affrontare e
discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi
deduzione difensiva (per tutte: Cass. 20/4/2012, n. 6260).

Nel sistema, l’intervento di modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come rigorosamente
interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte (vedi Cass. S.U. 7/4/2014 n. 8053), comporta
un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di
legittimità, sulla motivazione di fatto. Con esso si è invero avuta la
riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di
giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa
sede è solo quella che si tramuta in violazione di legge
costituzionalmente  rilevante e attiene
all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e
prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con
esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza
assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione
apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella
motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile. Nell’ottica descritta,
lo scrutinio del materiale istruttorio acquisito da parte del giudice del
gravame, che ha fatto leva sulla deposizione di un teste ritenuto
particolarmente attendibile e non contraddetto da ulteriori testimoni, appare
rispondente agli innanzi enunciati requisiti di essenzialità e coerenza
motivazionale che ostano all’esercizio di un sindacato nella presente sede.

7. In definitiva, il ricorso è respinto.

La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio,
segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata, con
distrazione in favore degli avv.ti P. e S.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art.13 c. 1 quater d.p.r. n. 115/2002
– della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte
della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari
a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per
esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% ed accessori di legge da distrarsi in favore degli avv.ti P. e S.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del
comma 1 bis dello stesso articolo
13.

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