Il provvedimento espulsivo irrogato ad un lavoratore che aveva iniziato un periodo di malattia, pochi giorni dopo la trasformazione del rapporto a termine in contratto a tempo indeterminato, ha natura ritorsiva e, in quanto tale, è nullo.
Nota a Trib. Como 15 luglio 2020, n. 124
Sonia Gioia
Il licenziamento per rappresaglia si caratterizza per l’illiceità del motivo unico determinante del recesso, mentre quello discriminatorio può, invece, coesistere anche con un altro motivo legittimo. Non è, perciò, sufficiente che “il licenziamento sia (anche palesemente) ingiustificato per qualificarlo ritorsivo, essendo necessario che il motivo illecito sia stato l’unico determinante (…), cioè che vi siano indizi, diversi dalla mancanza di giustificazione, anche qualificata del recesso, che consentano di risalire a un motivo illecito del datore di lavoro”. Tale tipo di licenziamento è affetto da nullità, con la conseguenza che il prestatore, su cui grava l’onere di provare l’intento ritorsivo, ha diritto alla tutela reintegratoria e risarcitoria (c.d. “forte”) apprestata dall’ordinamento giuridico ai sensi dell’art. 18, co. 1, L. n. 300/1970 (come novellato dall’art. 1, co. 42, L. n. 92/2012) e dell’art. 2, D.LGS. n. 23/2015 (c.d. Jobs Act).
È quanto precisato dal Tribunale di Como (15 luglio 2020, n. 124), in relazione al caso di un lavoratore, impiegato nel settore turistico (ccnl Turismo – Pubblici Esercizi), che, pochi giorni dopo la conversione del contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato, aveva iniziato un periodo di malattia a causa di un infortunio sul lavoro, e, successivamente al suo rientro in servizio, era stato licenziato per una presunta “brutta discussione per futili motivi” intervenuta con il datore di lavoro.
In merito, il giudice ha precisato che il licenziamento è nullo, perché ritorsivo, quando il motivo illecito, ai sensi dell’art. 1345 c.c., abbia carattere determinante la volontà datoriale, tale, cioè, da costituire “l’unica effettiva ragione del recesso”, e sia esclusivo, nel senso che “il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale” (Cass. n. 28453/2018; Cass. n. 3986/2015). “Ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore”, ai fini dell’applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria, “richiede il previo accertamento della insussistenza causale posta a fondamento del licenziamento” (Cass. n. 9468/2019, annotata in questo sito da S. GIOIA, Licenziamento ritorsivo, elementi che evidenziano la ritorsione e onere probatorio).
Nel caso di specie, per il Tribunale, la presunta insubordinazione, contestata nella lettera di licenziamento, costituiva una giustificazione meramente apparente e formale, finalizzata a celare l’unico determinante, ma illecito, motivo del recesso, da individuarsi nel “tradimento” che la società sosteneva di aver subito dal dipendente che, poco dopo la stabilizzazione del contratto di impiego, aveva iniziato un periodo di malattia perché infortunatosi mentre eseguiva i lavori di pulizia in albergo a causa dell’inalazione dei vapori di ammoniaca. Pertanto, accertata la natura vendicativa del recesso, la società è stata condannata, ai sensi dell’art. 2, D.LGS. n. 23/2015, alla reintegrazione del prestatore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria, commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, dalla data di licenziamento fino a quella di effettiva reintegrazione, nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.