Il vincolo di soggezione del prestatore ai poteri datoriali, elemento centrale ai fini della differenziazione tra contratto di lavoro autonomo e subordinato, va accertato con riguardo alle concrete modalità di espletamento del rapporto.
Nota a Cass. ord. 25 giugno 2020, n. 12707 e Cass. ord. 26 giugno 2020, n. 12871
Sonia Gioia
La subordinazione implica la sottoposizione del prestatore alle direttive tecniche, al controllo e al potere disciplinare dell’imprenditore, che coordina l’attività lavorativa sia dal punto di vista spazio-temporale che funzionale (c.d. etero-direzione della prestazione), nonché la stabile ed effettiva inserzione del dipendente nella compagine aziendale mediante la messa a disposizione, in favore dell’impresa, delle proprie energie lavorative (art. 2094 c.c.).
“Nel lavoro autonomo l’oggetto della prestazione è costituito dal risultato dell’attività”, che è resa in assenza di etero-direzione e, quindi, liberamente organizzata dal prestatore (art. 2222 c.c.).
Pertanto, “il primario parametro distintivo della subordinazione” risiede nel vincolo di soggezione del prestatore alle prerogative datoriali, da ricercare “in base ad un accertamento esclusivamente compiuto sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa”.
È quanto ribadito dalla Corte di Cassazione con le ordinanze 25 giugno 2020, n. 12707 e 26 giugno 2020, n. 12871, che è tornata sulla vexata quaestio della distinzione tra autonomia e subordinazione.
L’elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto a quello autonomo è l’assoggettamento del prestatore ai poteri datoriali, la cui sussistenza deve essere accertata o esclusa “mediante il ricorso agli elementi che il giudice deve concretamente individuare dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dalle modalità di svolgimento del rapporto” (ex multis, Cass. n. 1153/2013; Cass. n. 5645/2009; Cass. n. 1717/2009).
Gli altri indici, elaborati dalla giurisprudenza, non hanno rilievo “determinante” ma concorrono in via indiziaria all’accertamento della etero determinazione della prestazione, dal momento che sono ex se compatibili anche con il lavoro autonomo (Cass. n. 7796/1993). In particolare, qualora il vincolo di subordinazione non sia agevolmente riscontrabile a causa del concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro, è necessario far riferimento a criteri c.d. sussidiari o complementari, quali la retribuzione fissa mensile in relazione sinallagmatica con l’attività lavorativa, la continuità della prestazione in funzione di collegamento tecnico organizzativo e produttivo con le esigenze aziendali, l’orario di lavoro predeterminato e continuativo, l’assenza del rischio economico, il luogo della prestazione e la formale qualificazione giuridica del contratto individuale (Cass. n. 7024/2015; Cass. n. 7171/2003).
In relazione a tale ultimo parametro, il nomen iuris eventualmente utilizzato dalle parti non vincola il giudice ed è “sempre superabile” laddove sia provato uno scostamento dal programma contrattuale pattuito nella concreta esecuzione del rapporto, manifestandosi in tal caso per comportamenti concludenti “una nuova e diversa volontà” diretta a modificare “la stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista, da autonoma a subordinata” (Cass. n. 4770/2003; Cass. n. 5960/1999; Cass. n. 812/1993).
Pertanto, quand’anche le parti abbiano dichiarato di voler escludere la subordinazione, il giudice può operare una diversa qualificazione giuridica del fatto in presenza di “effettive, univoche, diverse modalità di adempimento della prestazione”. Ciò anche in considerazione della posizione di debolezza del dipendente che potrebbe essere indotto ad accettare una qualificazione giuridica del rapporto diversa da quella reale, “pur di garantirsi un posto di lavoro”.
L’onere di provare l’esistenza di un rapporto “alle dipendenze e sotto la direzione” dell’imprenditore, ai sensi dell’art. 2094 c.c., grava sul lavoratore, che è tenuto a fornire “gli elementi di fatto corrispondenti alla fattispecie invocata” (Cass. n. 11937/2009).
In attuazione di tali principi, la Cassazione, in un caso, non ha ritenuto provato il rapporto di lavoro subordinato in quanto risultavano “scarsi” gli elementi, quali la retribuzione fissa mensile, la continuità della prestazione, lo svolgimento della stessa nei locali e con le attrezzature dell’imprenditore, “in condizione di superare il nomen iuris dato al rapporto dalle parti”, in un contesto caratterizzato dall’essere il prestatore ricorrente un architetto, iscritto all’albo professionale, con anche proprio studio e propri clienti (Cass. ord. n. 12707/2020, conforme ad App. Milano 25 settembre 2015).
In altro caso, la Corte, chiamata a pronunciarsi in relazione al ricorso di un lavoratore che chiedeva il riconoscimento della natura subordinata del rapporto intercorso con un’associazione sindacale (FILT CGIL), ha ritenuto che le circostanze dedotte in giudizio dal prestatore fossero tali da denotare “una semplice collaborazione, a seguito della militanza del medesimo nel sindacato o comunque da questa originata, a fronte di un semplice rimborso spese”, non essendo stata fornita prova né dell’etero-direzione né della sussistenza di un vincolo gerarchico (Cass. ord. n. 12871/2020, conforme ad App. Roma n. 2077/2015).