Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 agosto 2020, n. 17607
Fondi pensione c.d. “interni”, Senza apporti
contributivi dei lavoratori loro destinatari, Poste di bilancio o patrimoni di
destinazione dell’impresa medesima in favore dei propri occupati, Fondo dotato
di propria soggettività giuridica,Accantonamenti effettuati in favore del
Fondo non interno di previdenza, Contributo di solidarietà dovuto all’Inps
Rilevato in fatto
Che, con sentenza depositata il 2.9.2013, la Corte
d’appello di Perugia ha confermato, per quanto rileva in questa sede, la
decisione del primo giudice che aveva escluso l’obbligo di C.R.S. s.p.a. di
pagare il contributo di solidarietà sugli accantonamenti effettuati in favore
del Fondo interno di previdenza mediante le rendite rivenienti dagli
investimenti fruttiferi del patrimonio del Fondo stesso, determinando
equitativamente la somma da restituire da parte dell’INPS;
che avverso tale pronuncia l’INPS ha proposto
ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura; che Casse di R.U.
s.p.a., succeduta per fusione per incorporazione a C.R.S. s.p.a., ha resistito
con controricorso, poi ulteriormente illustrato con memoria;
Considerato in diritto
che, con il primo motivo, l’INPS denuncia violazione
e falsa applicazione degli artt.
9-bis, d.l. n. 103/1991 (conv. con I. n.
166/1991), 1, comma 194, I.
n. 662/1996, e 2697 c.c., per avere la
Corte di merito ritenuto che le rendite derivanti da investimenti effettuati
dal Fondo non costituissero apporti effettuati dal datore di lavoro
assoggettabili a contribuzione, ancorché il Fondo stesso non possedesse una
soggettività giuridica differente dall’istituto di credito; che, con il secondo
motivo, l’INPS lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 432
c.p.c.e 1226 c.c. per avere la Corte territoriale ritenuto
che alla quantificazione delle somme da restituirsi potesse pervenirsi mercé il
ricorso alla liquidazione correttiva, nonostante che l’impossibilità di
accertare quanto degli apporti al Fondo di previdenza fosse costituito da rendite
degli immobili acquisiti con le disponibilità del Fondo stesso derivasse da una
scelta dell’istituto di credito concernente la redazione del proprio bilancio,
che non aveva consentito di individuare analiticamente le poste di bilancio con
le quali si provvedeva al finanziamento del Fondo;
che, con riguardo al primo motivo, questa Corte ha
avuto modo di chiarire che i fondi pensione c.d. “interni” sono
soltanto quelli privi di distinzione rispetto al patrimonio dell’impresa,
poiché creati, senza apporti contributivi dei lavoratori loro destinatari, alla
stregua di mere poste di bilancio o patrimoni di destinazione dell’impresa
medesima in favore dei propri occupati, onde non rientrano nella descritta
nozione i fondi speciali per l’assistenza e la previdenza costituiti con la
contribuzione sia dei lavoratori sia del datore di lavoro, i quali, non
ricadendo nella titolarità esclusiva di quest’ultimo, si connotano come
associazioni non riconosciute che rispondono autonomamente delle obbligazioni
assunte, ivi comprese quelle previdenziali e assistenziali, salva solo la
responsabilità personale e sussidiaria ex art. 38
c.c. di quanti hanno agito in loro nome e conto (Cass. n. 25967 del 2017);
che, essendosi nella specie accertato che nel Fondo
di previdenza della C.R.S. «affluivano i contributi a carico del datore di
lavoro (pari al 10% delle retribuzioni pensionabili) e dei lavoratori (pari
all’1% delle medesime retribuzioni)» (così la sentenza impugnata, pag. 7),
affatto correttamente i giudici di merito hanno ritenuto che il Fondo dovesse
essere considerato come dotato di propria soggettività giuridica distinta da
quella dell’istituto di credito odierno controricorrente; che, pertanto, il
primo motivo è infondato; che, con riguardo al secondo motivo, questa Corte ha
già avuto modo di precisare come, in virtù del richiamo operato dall’art. 442 c.p.c., che estende le disposizioni
dettate per le controversie di lavoro alle controversie in materia di
previdenza ed assistenza obbligatorie, la disposizione dell’art. 432 c.p.c., che prevede il ricorso alla
liquidazione equitativa quando sia certo il diritto, ma non sia possibile
determinare la somma dovuta, possa trovare applicazione anche per la
determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di
previdenza ed assistenza sociale (così Cass. n. 2579 del 1986);
che, ciò premesso, la tesi dell’Istituto ricorrente,
secondo cui non potrebbe farsi luogo alla liquidazione equitativa allorché
l’impossibilità di determinare la somma dovuta sia ascrivibile a fatto della
parte che la invoca, appare prima facie estranea alla lettera della
disposizione, che, nell’abilitare il giudice alla liquidazione equitativa
«quando sia certo il diritto ma non sia possibile determinare la somma dovuta»,
non consente alcun distinguo in ordine alle ragioni che possono aver causato
tale impossibilità; che, per contro, è stato precisato, anche con riguardo
all’analoga formulazione dell’art. 1226 c.c.,
che il ricorso alla liquidazione equitativa presuppone l’assolvimento
dell’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del
danno (così da ult. Cass. n. 4310 del 2018 e, con specifico riferimento all’art. 432 c.p.c., v., tra le numerose, Cass. nn.
8927 del 1995, 5603 del 2002, 6333 del 2003, 22115 del 2009, 4076 del 2018);
che, nel caso di specie, avendo accertato «che la
C.R.S. pagò il contributo di solidarietà anche sulle rendite immobiliari del
Fondo» e che dunque era «certo […] il suo diritto a ripetere le somme
indebitamente versate», del tutto correttamente i giudici di merito hanno
concluso che, essendo «il diritto alla restituzione dimostrato nell’an», il
fatto che «i dati concernenti il Fondo integrativo non [fossero] elencati nel
bilancio della banca per poste separate, ma [fossero] aggregati (versamenti,
integrazioni dei trattamenti in atto, rendite immobiliari)» e la conseguente
impossibilità di «dimostrare con esattezza, rispetto ai versamenti eseguiti in
quegli anni, gli importi indebitamente pagati all’INPS» non poteva «risolversi
in danno della società creditrice» (così la sentenza impugnata, pag. 8);
che argomentare diversamente, come preteso
dall’Istituto ricorrente, equivarrebbe a sovrapporre ai principi che presiedono
al ricorso alla liquidazione giudiziale equitativa la regola di giudizio basata
sulla ripartizione dell’onere della prova circa la sussistenza e la materialità
del danno, alla quale viceversa è affatto estraneo il disposto dell’art. 432 c.p.c. (cfr. da ult. Cass. n. 16150 del 2018); che in tal senso deve
propriamente interpretarsi anche il dictum di Cass. n. 4534 del 2017, secondo
la quale il ricorso alla liquidazione equitativa esige che il giudice di merito
abbia previamente accertato che l’impossibilità (o l’estrema difficoltà) d’una
stima esatta del danno dipenda da fattori oggettivi e non già dalla negligenza
della parte danneggiata nell’allegare e dimostrare gli elementi dai quali
desumere l’entità del danno, essendo stato enunciato detto principio in una
fattispecie in cui era contestato il ricorso alla liquidazione equitativa in
funzione di prova della sussistenza del pregiudizio e non del suo ammontare;
che, pertanto, anche il secondo motivo di censura è
infondato;
che il ricorso, conclusivamente, va rigettato,
compensandosi tuttavia le spese del giudizio di legittimità in considerazione
della parziale novità della questione affrontata; che, in considerazione del
rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da
parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Compensa le spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.