Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 settembre 2020, n. 18245

Licenziamento per giusta causa, Assenza dal lavoro per motivi
di salute, Svolgimento di altra attività di lavoro, Violazione dei doveri di
correttezza e buona fede imposti in costanza di malattia

 

Rilevato che

 

1. la Corte d’appello di
Napoli, con sentenza del 16.5.2018, respingeva il gravame proposto da V.D.L.
avverso la decisione del Tribunale di Avellino che aveva rigettato la domanda
del predetto, intesa ad ottenere, previa declaratoria di illegittimità del
licenziamento per giusta causa irrogatogli in data 20.11.2011 dalla FIAT C.A.I.
s.p.a., la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno;

2. la Corte partenopea
riteneva che, con riguardo ai fatti risultati incontroversi, dell’assenza del
D.L. dal lavoro nei giorni 24 novembre ed 1 e 2 dicembre 2011 per motivi di
salute consistenti nella “dermatite acuta alle mani” e nello
svolgimento, da parte del predetto, di altra attività presso il bar C. nei giorni
di assenza, non poteva ritenersi realizzata la dedotta violazione del principio
della immutabilità dei fatti contestati, in quanto rispetto alla contestazione
originaria non si era verificata alcuna lesione del diritto di difesa del
lavoratore attraverso una sostanziale immutazione del fatto addebitato,
ravvisabile solo quando il quadro di riferimento fosse totalmente diverso da
quello posto a fondamento della sanzione;

3. nel caso considerato,
il Tribunale, secondo il giudice del gravame, aveva correttamente applicato i
principi indicati laddove aveva individuato l’oggetto della contestazione nella
esecuzione, da parte del lavoratore, assente dal lavoro per malattia, di
un’attività lavorativa presso il bar-pasticceria della moglie, con conseguente
violazione dei doveri di correttezza e buona fede imposti in costanza di
malattia, finalizzati a garantire il sollecito recupero delle energie da porre
a disposizione del datore di lavoro;

4. tale accertamento, a
dire della Corte, non travalicava il limiti posti dalla contestazione
disciplinare, avendo la società posto l’accento sull’avere il dipendente
espletato attività presso terzi proprio nei giorni in cui lo stesso era stato
assente dal lavoro per malattia non tanto per contestare la mancanza di
giustificazione dell’assenza, quanto allo scopo di sanzionare la colpevole
sottrazione del lavoratore all’obbligo della prestazione lavorativa, oltre che
agli obblighi contrattuali in generale;

5. la Corte rimarcava la
differenza tra la contestazione nel procedimento disciplinare ed in quello
penale e rilevava che una circostanza in tanto poteva essere considerata nuova,
in quanto esulasse dall’originario atto di incolpazione, ciò che non si
verificava allorché il fatto in relazione al quale il licenziamento era
intimato potesse essere ricompreso nella contestazione, della quale costituiva
specificazione;

6. osservava che
l’istruttoria aveva pienamente confermato la sussistenza della giusta causa del
licenziamento e che la patologia da cui il D.L. era risultato affetto nel periodo
di assenza dal lavoro gli avrebbe imposto una condotta diversa da quella
tenuta, quale emersa dalla deposizione dei testi, che avevano confermato anche
che il lavoratore aveva provveduto, tra la altre incombenze, al lavaggio di
stoviglie ed alla preparazione di caffè – esponendo le mani a fonte di calore –
all’interno dell’esercizio commerciale gestito dalla moglie, condotta questa
inidonea a garantire il recupero della propria integrità fisica nel periodo di
assenza dal lavoro;

7. di tale decisione domanda
la cassazione il D.L., affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con
controricorso, la società.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo, il
ricorrente denunzia violazione o falsa applicazione, sotto più profili, della I. 300/70, nonché dell’art.
2119 c.c., censurando la inadeguata interpretazione, da parte della Corte
distrettuale, delle norme richiamate, in relazione al caso concreto, per avere
la stessa ritenuto, in maniera errata, che il datore di lavoro potesse
risolvere il rapporto con il proprio dipendente in conseguenza della ravvisata
lesione, da parte del D.L., del vincolo di fiducia posto a fondamento del
rapporto di lavoro;

1.1. il ricorrente
contesta l’erronea applicazione del principio sancito dalla giurisprudenza di
legittimità, alla cui stregua non sussiste per il lavoratore assente per
malattia un divieto assoluto di prestare, durante l’assenza, attività
lavorativa in favore di terzi, purché questa non evidenzi una simulazione di
infermità, ovvero importi violazione al divieto di concorrenza, ovvero,
compromettendone la guarigione, implichi inosservanza del dovere di fedeltà
imposto al prestatore di lavoro; in particolare, evidenzia, come nella specie
gli unici addebiti contenuti nella contestazione erano riferiti alla
simulazione della malattia ed alla inattendibilità della certificazione, la cui
prova, a dire dello stesso, non era stata fornita, avendo peraltro la sentenza
di primo grado asseritamente negato la sussistenza di tali addebiti, per avere
trovato la patologia attestata conferma nelle dichiarazioni del medico che
l’aveva certificata;

1.2. osserva che
quest’ultimo, escusso come teste, aveva paventato la possibilità di
peggioramento della patologia dovuto all’utilizzo di solventi ed acqua, senza
riferimento al caso specifico, dovendo pertanto ritenersi assente ogni prova
che la dedotta attività lavorativa ulteriore prestata dal D.L. durante la
malattia avesse determinato il prolungarsi dei tempi di recupero della sua
integrità fisica; assume di essersi limitato a prestare un aiuto alla moglie
nel bar di proprietà della stessa e che si sia realizzata anche la violazione,
la falsa ed erronea applicazione dell’art. 7, comma 2, I. 300/70,
dell’art. 2106 c.c. e dell’art. 2 I. 604/66, deducendo,
altresì, insufficiente e/o contraddittoria motivazione, laddove la
contestazione non era stata sufficientemente specifica; aggiunge che la
pronunzia impugnata si è posta anche in violazione del principio di
corrispondenza tra fatto contestato e fatto posto a fondamento del recesso,
posto che il primo era ontologicamente diverso dal secondo;

1.3. in particolare,
sostiene che il licenziamento dapprima era stato intimato paventandosi la
simulazione della malattia attestata dai certificati medici inviati dal
lavoratore, per poi essere trasformato, nel corso del processo di primo grado,
in un licenziamento motivato dall’impossibilità di guarigione dalla malattia
diagnosticata, la dermatite, per avere il D.L. svolto ulteriore attività presso
il bar della moglie; nella sostanza chiarisce di addebitare alla decisione la
violazione del principio di immodificabilità della contestazione, per avere il
giudice del merito ritenuto possibile che al contestato svolgimento di altra
attività lavorativa nel periodo di malattia, di per sé sufficiente a far
presumere l’inesistenza dell’infermità a giustificazione dell’assenza e
l’inattendibilità del certificato medico, potesse far seguito un successivo
licenziamento motivato esclusivamente dalla simulazione di detta
certificazione;

2. con il secondo motivo,
il ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art.
112 c.p.c., assumendo che il datore di lavoro aveva omesso di fornire
adeguata prova circa la incompatibilità tra l’attività extralavorativa svolta e
la patologia denunziata, ivi compresa la prova della durata dell’attività
extralavorativa, la gravosità dell’impegno fisico ivi profuso, la puntualità
della ripresa del lavoro, l’incompatibilità dell’attività extra lavorativa
svolta durante la malattia con il recupero delle normali energie psicofisiche
ed anche la prova degli effettivi addebiti contestati (inattendibilità della
certificazione medica) la cui sussistenza era stata anche esclusa dal giudice
di primo grado; la violazione dell’art. 112 c.p.c.
è riconnessa alla circostanza che la Corte d’appello si era uniformata alla
decisione di primo grado affrontando la problematica relativa alla idoneità o
meno del lavoro svolto a ritardare la ripresa del servizio, laddove l’argomento
non era stato oggetto né di domanda, né di eccezione;

3. il primo motivo
presenta profili di inammissibilità connessi al suo confezionamento come motivo
composito, simultaneamente volto a denunciare violazione di legge e vizio di
motivazione, avuto riguardo al principio secondo cui, in tema di ricorso per
cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi di
impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate
dall’articolo 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5, c.p.c.,
non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto
profili incompatibili, quali quelli della violazione di norme di diritto,
sostanziali e processuali, che suppone accertati gli elementi del fatto in
relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della
norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende
precisamente rimettere in discussione (cfr. Cass. 23 giugno 2017, n. 15651; Cass. 28 settembre 2016, n. 19133; Cass. 23
settembre 2011, n. 19443 e, da ultimo Cass. 23.10.2018 n. 26874, nei termini
riportati). Ciò a prescindere dalla non corretta deduzione del vizio di cui
all’art. 360 n. 5 c.p.c. secondo il paradigma
deduttivo e devolutivo prescritto dal nuovo testo di tale norma secondo le
indicazioni fornite da Cass. s.u. 7 aprile 2014,
n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189;
Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439, e, prima ancora, dalla preclusione deduttiva
discendente dalla sussistenza di un “doppia conforme”;

3.1. quanto alle deduzioni
di violazione in diritto, vero è che la contestazione, quale riportata nel suo
contenuto, è riferita principalmente all’essersi il lavoratore sottratto ai
suoi obblighi contrattuali ponendo in essere una condotta illecita integrata
dall’assenza dal lavoro per malattia, pur svolgendo altra attività lavorativa,
e dall’essersi in tal modo sottratto all’obbligo della prestazione lavorativa,
dimostrando al contempo la palese inattendibilità ed inidoneità del certificato
medico inviato a giustificare le assenze indicate; tuttavia, l’addebito
disciplinarmente rilevante era ritenuto nella sostanza diretto, come dal
giudice del merito interpretata la contestazione – interpretazione non
suscettibile di sindacato nella presente sede di legittimità ove il
corrispondente vizio non sia dedotto nei modi appropriati -, non tanto a
contestare la mancanza di giustificazione dell’assenza, quanto a sanzionare la
sottrazione consapevole del lavoratore all’obbligo della prestazione
lavorativa, oltre che agli obblighi contrattuali in genere;

3.2. ciò è, d’altronde,
conforme a quanto reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di questa
Corte, secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del
dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli
specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri
generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale
attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza
della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con
giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle
mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in
servizio (cfr., tra le altre, Cass. 19.10.2018 n.
26496, Cass. 27.4.2017 n. 1041);

3.3. questa Corte ha
ulteriormente precisato che “Lo svolgimento di altra attività lavorativa
da parte del dipendente assente per malattia è idonea a giustificare il recesso
del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona
fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà” …
“ferma restando la necessità che, nella contestazione dell’addebito,
emerga con chiarezza il profilo fattuale, così da consentire una adeguata
difesa da parte del lavoratore” (Cass.
5.8.2014 n. 17625): il principio enunciato, cui si ricollega anche la
censura riferita alla violazione del principio di immutabilità della
contestazione, è quello posto a presidio del diritto  di difesa, sul rispetto del quale la Corte
distrettuale ha ampiamente motivato;

3.4. il giudice del
gravame ha, invero, interpretato la lettera di contestazione nel senso che la
società “ha sempre posto l’accento sul fatto che il dipendente abbia
espletato attività presso i terzi proprio nei giorni in cui era assente dal
lavoro per malattia non tanto al fine di contestare la mancanza di
giustificazione dell’assenza (sulla quale la parte datoriale ha solo gettato
velati dubbi), quanto allo scopo di sanzionare la consapevole sottrazione del
lavoratore all’obbligo della prestazione lavorativa, oltre che agli obblighi
contrattuali in generale”, e nessuna censura all’interpretazione fornita
dalla Corte distrettuale é prospettata nel motivo di ricorso, in modo idoneo a
scalfire la valutazione posta a sostegno del decisum, che, al contrario, si
rivela coerente con una corretta applicazione dei principi di diritto su
richiamati;

3.5. il principio di
necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento
della sanzione disciplinare, che vieta di infliggere un licenziamento sulla
base di fatti diversi da quelli contestati, consente di ritenere realizzata la
relativa violazione solo qualora il datore di lavoro alleghi, nel corso del
giudizio, circostanze nuove che, in violazione del diritto di difesa,
implichino una diversa valutazione dei fatti addebitati, salvo si tratti di
circostanze confermative, in relazione alle quali il lavoratore possa
agevolmente controdedurre, ovvero che non modifichino il quadro generale della
contestazione (cfr. Cass. 25.3.2019 n. 8293, v. anche Cass. 10.11.2017 n. 26678);

3.6. su altro versante,
deve ugualmente ritenersi esente dalle censure prospettate la decisione della
Corte territoriale laddove, muovendo da un corretto principio di diritto, ha
ritenuto che il lavoratore assente per malattia, che quindi legittimamente non
effettua la prestazione lavorativa, non per ciò solo deve astenersi da ogni
altra attività, essendo l’unico limite rappresentato dalla necessaria
compatibilità di tale attività con lo stato di malattia e dalla sua conformità
all’obbligo di correttezza e buona fede, gravante sul lavoratore, di adottare
ogni cautela idonea perché cessi lo stato di malattia con conseguente recupero
dell’idoneità al lavoro; in proposito questa Corte ha affermato che
l’espletamento di altra attività, lavorativa ed extralavorativa, da parte del
lavoratore durante lo stato di malattia è idoneo a violare i doveri
contrattuali di correttezza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione e a
giustificare il recesso del datore di lavoro (solo) laddove si riscontri che
l’attività espletata costituisca indice di una scarsa attenzione del lavoratore
alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione
(cfr. Cass. 5 agosto 2014 n. 17625, Cass. 21 aprile 2009, n. 9474);

3.7. l’accertamento
peritale richiamato nella sentenza impugnata ha consentito alla Corte
territoriale di verificare, attraverso una valutazione rimessa al suo
insindacabile giudizio, che i tempi di recupero dalla malattia diagnosticata al
dipendente erano stati pregiudicati dal comportamento del D.L., il quale aveva
lavato le stoviglie e preparato caffè e ciò, differentemente da quanto assume
il ricorrente, con riferimento al caso concreto e non ad un parere espresso in
astratto;

4. con riguardo al secondo
motivo di ricorso, indipendentemente dall’adesione al principio, affermato dal
ricorrente, secondo cui, in materia di licenziamento per giusta causa, grava sul
datore di lavoro l’onere della prova che lo svolgimento da parte del lavoratore
di un’attività extralavorativa durante lo stato di malattia ha inciso in
termini negativi sulla propria salute ed in termini di ritardata guarigione,
contrastando con gli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del
rapporto di lavoro (v. Cass. 1173/2018 cit., e
Cass. 21.3.2011 n. 6375), è sufficiente
riportarsi all’insegnamento di questa Corte secondo cui il principio generale
di riparto dell’onere probatorio di cui all’art.
2697 cod. civ. deve essere contemperato con il principio di acquisizione
probatoria, che trova fondamento nella costituzionalizzazione del principio del
giusto processo, con la conseguenza che anche il principio dispositivo delle
prove … va inteso in modo differente, traducendosi nel dovere del giudice di
pronunciare nel merito della causa sulla base del materiale probatorio
ritualmente acquisito – da qualunque parte processuale provenga – con una
valutazione non atomistica ma globale nel quadro di una indagine unitaria ed
organica, suscettibile di sindacato, in sede di legittimità, per vizi di
motivazione e, ove ne ricorrano gli estremi, per scorretta applicazione delle
norme riguardanti l’acquisizione della prova (cfr. Cass. 14.7.2017 n. 17598, Cass. 25.9.2013 n. 21909);

4.1. nella specie, la
sentenza ha accertato, sulla base dell’istruttoria espletata, che il D.L. si
era dedicato durante l’assenza dal lavoro ad un’attività lavorativa
assolutamente sconsigliata, idonea ad aggravare la patologia, senza adottare
alcuna misura precauzionale, avuto riguardo al certificato medico rilasciato
dal dott. D.P., che, escusso come teste, ha affermato che sia l’utilizzo di
acqua durante il lavaggio di stoviglie, sia l’esposizione a fonti di calore per
la preparazione di bevande calde erano inopportune in presenza della dermatite
alle mani e che ciò rappresentava, secondo la Corte distrettuale, una condotta
inidonea a garantire il recupero, da parte del lavoratore, della propria
integrità fisica;

4.2. sulla dedotta
violazione dell’art. 112 c.p.c., è sufficiente
il richiamo a Cass. 21.11.2013 n. 26290,
secondo cui non può ritenersi estraneo al giudizio vertente sul corretto
adempimento dei doveri di buona fede e correttezza gravanti sul lavoratore un
comportamento che, inerente ad attività extralavorativa, denoti l’inosservanza
di doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltre ad essere dimostrativa
dell’inidoneità dello stato di malattia ad impedire comunque l’espletamento di
un’attività ludica o lavorativa;

4.3. la censura va
pertanto disattesa, dovendo, più in generale, osservarsi che il principio della
corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato deve ritenersi violato ogni qual
volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno
degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (“petitum” e
“causa petendi”), attribuendo o negando ad uno dei contendenti un
bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o
virtualmente, nell’ambito della domanda o delle richieste delle parti: ne
deriva che non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una
questione non espressamente formulata, tutte le volte che questa debba
ritenersi tacitamente proposta, in quanto in rapporto di necessaria connessione
con quelle espressamente formulate (cfr., tra le altre, da ultimo, Cass. 3.7.2019 n. 17897);

5. alla stregua delle
esposte considerazioni, il ricorso deve essere complessivamente respinto;

6. le spese del presente
giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e sono liquidate nella misura
indicata in dispositivo;

7. sussistono le
condizioni di cui all’art. 13,
comma 1 quater, d.P.R. 115 del 2002;

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e
condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità,
liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 4000,00 per compensi professionali,
oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma
1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.13, comma1bis, del citato
D.P.R., ove dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 settembre 2020, n. 18245
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