Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 settembre 2020, n. 18246
Licenziamento disciplinare, Addetto al controllo del
pagamento del ticket delle auto parcheggiate, Soste al bar di vari minuti,
eccedenti i venti minuti, Addebiti accertati dalla società in sede di
ispezione interna e contestati con missive, Questione oggetto del motivo di
ricorso connotata da assoluta novità, Ricorso inammissibile
Rilevato che:
1. Il Tribunale di Venezia respingeva la impugnativa
di licenziamento proposta, in sede di opposizione avverso l’ordinanza
conclusiva della fase sommaria, da A. T., lavoratrice dipendente dell’AVM
s.p.a. dal 2004, con mansioni di cd. ausiliario della sosta, addetta al
controllo del pagamento del ticket delle auto parcheggiate nelle zone a pagamento
di Mestre e Lido VE – attività svolta dalla società per conto del Comune di
Venezia – rilevando che gli addebiti posti alla base del recesso, contestati
alla predetta con missive del 2.12.2015 e 10.12.2015, accertati dalla società
in sede di ispezione interna, non erano
stati contestati in sé quali fatti storici dalla lavoratrice ed erano stati
confermati dall’istruttoria orale svolta in fase sommaria;
1.1. tali addebiti erano relativi a soste al bar di
vari minuti, eccedenti i venti minuti, per ben sei occasioni, da parte della
T., che aveva tralasciato per il corrispondente arco temporale il controllo
delle vetture in sosta e, con riferimento alla giornata del 2.12.2015,
all’ulteriore condotta di essersi fermata mezz’ora in ufficio ed avere indicato
in modo erroneo l’orario di una sanzione, risultata applicata in coincidenza di
una sua sosta al bar;
1.2. la condotta ascritta alla T. era relativa anche
ad una reiterazione dei fatti di inadempimento posti in essere, comportamenti
ritenuti non giustificati da problemi di salute da cui era affetta la
lavoratrice, come accertato dal C.t.u. medico legale officiato, che aveva
escluso la necessità di interruzione del servizio per le patologie pregresse;
in ragione di ciò la sua condotta veniva sanzionata, a differenza che per altri
colleghi della T., con sanzione espulsiva;
2. la Corte d’appello di Venezia, con sentenza del
25.10.2018, rigettava il reclamo proposto da A. T. avverso la indicata
decisione, osservando, per quel che ancora rileva nella presente sede: che il
quarto motivo di gravame era infondato, posto che, dalla deposizione dei testi
R. e B., era risultata confermata la correttezza degli orari delle pause al bar
indicati nelle lettere di contestazione del 2.12.2015 e 10.12.2015, da
ritenersi pienamente provati per avere i due testimoni indicati personalmente
partecipato all’attività di controllo e direttamente verificato gli orari di
sosta della reclamante all’interno degli esercizi pubblici; che parimenti era
risultato confermato dall’istruttoria che, in data 30.11.2015 e 2.12.2015, la
lavoratrice aveva riportato, in due avvisi di accertamento, un orario errato,
coincidente con un periodo in cui la stessa non stava lavorando, ma si trovava
in un bar o comunque in altro luogo (nello specifico, rispettivamente a) le ore
11,47, orario in cui la lavoratrice si trovava all’interno del Bar C., in via
C. Mestre, dalle ore 11,24 alle ore 12,13 e b) le ore 18.02, orario in cui la
stessa era in pausa all’interno dell’ufficio in Piazzale Candiani, dalle ore
17,41 alle ore 18,30); che tali irregolarità erano state commesse dalla
dipendente per “coprire lo stato di non lavoro” e connotavano di
particolare gravità la complessiva condotta ascrittale;
3. di tale decisione domanda la cassazione la T.,
affidando l’impugnazione ad unico motivo – illustrato nella memoria depositata
ai sensi dell’art. 380 bis. 1 c.p.c. -, cui
resiste, con controricorso, la s.p.a. AVM.
Considerato che
1. il motivo di ricorso denuncia violazione dell’art. 2700 c.c., in relazione agli artt. 116 e 221 c.p.c.,
assumendo la ricorrente che il licenziamento era stato irrogato per avere ella
commesso un falso in atto pubblico che il datore di lavoro si era proposto di
provare a mezzo testimoni e che sia il Tribunale, che la Corte distrettuale
hanno ritenuto provato, sulla base dell’esame delle testimonianze rese dai
controllori R. e B.;
1.1. la ricorrente sostiene che la violazione della
norma codicistica invocata è evidente per essere l’atto pubblico idoneo a fare
piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal
pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e
degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o
da lui compiuti;
1.2. aggiunge che ciò doveva indurre a ritenere che
l’orario accertato dal pubblico ufficiale nell’atto pubblico – ossia l’orario
in cui il p. u. dichiara di avere redatto l’atto pubblico -, quale deve
ritenersi il verbale di accertamento delle violazioni redatto dagli ausiliari
del traffico, ai sensi del comma 132 dell’art. 17 della I. 127/1997, come
interpretato dall’art. 68 I.
488/99, sia un elemento dei fatti attestati dal Pubblico Ufficiale come
avvenuti in sua presenza;
1.3. la T. assume che né il Tribunale, né la Corte
d’appello potevano giungere a ritenere provato un errore, doloso o colposo,
della stessa nella redazione dei verbali, poiché, in mancanza di querela di
falso, il verbale conserva la fede privilegiata sulla realtà e veridicità del
suo contenuto nelle ipotesi in cui si deducano sviste o altri involontari
errori o omissioni percettivi da parte del verbalizzante; sostiene che il
Tribunale non avrebbe dovuto dare ingresso alla prova testimoniale e che la
Corte distrettuale non avrebbe dovuto considerare le dichiarazioni dei testi B.
e R. sul punto erroneità/falsità dell’orario di elevazione delle contestazioni;
1.4. rileva che il giudice d’appello avrebbe dovuto
escludere la correttezza della avvenuta ammissione in primo grado della prova
testimoniale laddove diretta a contestare un fatto accertato in atto pubblico,
al di fuori del procedimento di querela di falso, ed osserva che, se pure l’art. 116 c.p.c. demanda la valutazione delle prove
al prudente apprezzamento del giudice, ciò è consentito solo “salvo che la
legge disponga altrimenti”;
1.5. evidenzia come la disciplina codicistica lasci
libertà di apprezzamento al giudice del merito, ma imponga una sorta di
gerarchia tra le prove, e che i giudici di entrambi i gradi del merito hanno
dichiarato l’esistenza di un falso in atto pubblico, falso ideologico,
attribuendo al P.U. la volontà di dichiarare il falso al fine di rappresentare
una realtà differente da quella materiale, in mancanza della procedura prevista
dal legislatore, con violazione degli artt. 2700
c.c. e 116 e 221
c.p.c.;
1.6. la ricorrente conclude osservando che il
giudice del merito avrebbe dovuto assumere differenti valutazioni in relazione
alla corrispondenza tra fatti contestati e fatti commessi, nonché in relazione
alla proporzione tra il provvedimento espulsivo e gli illeciti disciplinari
contestati alla lavoratrice e ritenuti accertati dal giudice del merito;
2. la questione oggetto dell’unico motivo di ricorso
è connotata da assoluta novità e come tale deve ritenersi inammissibile;
3. la Corte distrettuale non si è pronunciata sulla
questione “de qua” perché le censure in sede di gravame attenevano ad
altri profili ed, in particolare, la doglianza espressa nel quarto motivo
dell’atto di appello si incentrava sull’assunto che il Tribunale aveva omesso
di vagliare la possibilità che vi fosse stato un errore materiale nella
redazione del verbale, quanto all’indicazione dell’orario ivi specificato, con
riguardo alla sosta senza ticket, dando quindi nella sostanza per scontato che
quanto affermato nella contestazione dell’addebito fosse veritiero e quindi
ammettendo, nella sostanza, che il contenuto dell’ avviso di accertamento non
fosse esatto per mero errore materiale;
3.1. tale difesa è pertanto incompatibile con quanto
osservato soltanto nella presente sede attraverso la introduzione di una
questione che doveva essere posta negli stessi termini già nelle fasi di
merito, laddove non emerge che la decisione assunta dal Tribunale fosse stata
censurata su tale specifico piano;
3.2. invero, qualora una questione giuridica –
implicante un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella
sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde
non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non
solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di
merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione,
di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per
consentire alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale
asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa (cfr. Cass. 13.12.2019 n. 2848);
4. anche il rilievo, avanzato in appello, che i
testi escussi avevano riferito circostanze apprese de relato è indice della
novità della questione odierna, posto che l’impostazione difensiva non riteneva
preclusa la prova per testi in generale, ma si basava sull’inattendibilità e
inutilizzabilità della testimonianza resa dagli stessi;
5. alla stregua di tali considerazioni deve
pervenirsi alla declaratoria di inammissibilità del ricorso;
6. le spese del presente giudizio seguono la
soccombenza del ricorrente e sono liquidate nella misura indicata in
dispositivo;
7. essendo stato il ricorso proposto in epoca
posteriore al 30 gennaio 2013, occorre dare atto della sussistenza dei
presupposti per l’applicabilità dell’art.
13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto
dall’art. 1, comma 17, legge 24
dicembre 2012, n. 228, presupposti che ricorrono anche in ipotesi di
declaratoria di inammissibilità del ricorso (cfr. Cass., Sez. Un., n.
22035/2014);
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in
euro 200,00 per esborsi, euro 4500,00 per compensi professionali, oltre spese
generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13, ove
dovuto.