Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 settembre 2020, n. 18333
Mensilità di retribuzione e TFR, Ammessione al passivo del
Fallimento, Differenza tra l’importo del credito vantato dal lavoratore e
quello riconosciuto dalla curatela, Contributi previdenziali, Quota a carico
del lavoratore, Ritenute previdenziali a carico del lavoratore, operate dal
datore unicamente in ipotesi di tempestivo ed integrale versamento del
contributo
Rilevato che
1. A.C., premesso di aver lavorato alle dipendenze
della società V. srl in bonis e di non aver percepito alcune mensilità di
retribuzione e il TFR, ha chiesto di essere ammesso al passivo del Fallimento
della società datoriale per la somma di euro 21.483,12, in via privilegiata;
2. il giudice delegato ha ammesso allo stato passivo
il credito nei limiti di euro 6.334,21;
3. col ricorso in opposizione il lavoratore ha
chiesto di essere ammesso al passivo per la somma di euro 17.150,45; la
curatela si è costituita e, in base alla documentazione prodotta in quella sede
dal ricorrente, ha concluso per l’ammissione al passivo della somma di euro
15.945,88;
4. il Tribunale di Prato, con decreto del 9.8.2018,
ha ammesso il credito al passivo nell’importo di euro 15.945,88, in via
privilegiata;
5. il Tribunale ha dato atto che la differenza tra
l’importo del credito vantato dal lavoratore e quello riconosciuto dalla
curatela riguardasse i contributi previdenziali nella quota a carico del
lavoratore;
6. ha richiamato la sentenza di questa Corte n. 23426 del 2016, secondo cui “Il
lavoratore non può chiedere al datore di lavoro il pagamento in proprio favore
dei contributi non versati, salvo che per la quota a suo carico, la quale,
infatti, a titolo di sanzione, grava definitivamente sul datore di lavoro
inadempiente quale componente della relativa obbligazione retributiva. Ne
consegue che, in caso di fallimento del datore di lavoro, il lavoratore
dev’essere ammesso al passivo, per le retribuzioni non corrisposte, con
collocazione privilegiata a norma dell’art. 2751
bis, n. 1, c.c., al netto della quota contributiva gravante sul datore e al
lordo di quella gravante sul lavoratore medesimo”; ha affermato come tale
orientamento fosse condivisibile in relazione ad imprenditori in bonis ma non
potesse applicarsi in caso di procedura fallimentare in quanto “la
sanzione non verrebbe più posta a carico dell’imprenditore, ma dei creditori
(con il privilegio successivo a quello del lavoratore o chirografari) i quali
vedrebbero insinuato due volte, e pure in via privilegiata, il medesimo
credito: una volta da parte del lavoratore e una volta da parte dell’ente di
previdenza”; ha aggiunto che, dato il principio di automaticità delle
prestazioni previdenziali di cui all’art. 2116 c.c.,
nessun pregiudizio deriverebbe al lavoratore dalla mancata ammissione al
passivo della quota di contributi al medesimo riferibili; laddove, seguendo
l’indirizzo dei giudici di legittimità, sarebbe invece pregiudicato l’ente
previdenziale il cui credito è assistito dal privilegio dell’art. 2753 c.c. rispetto a quello previsto dall’art. 2751 bis, comma 1 c.c. per i crediti del
lavoratore;
7. avverso tale decreto A.C. ha proposto ricorso per
cassazione affidato a due motivi; il Fallimento V. srl in liquidazione spa è
rimasto intimato;
8. la proposta del relatore è stata comunicata alla
parte, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale non
partecipata, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..
Considerato che
9. con il primo motivo di ricorso è dedotta
violazione e falsa applicazione degli artt. 2060,
2099 e 2115, comma
1, c.c., anche in relazione all’art. 36 Cost.,
dell’art. 47, commi 1 e 2,
R.D.L. n. 1827 del 1935, convertito in legge n. 1155 del 1936; degli artt. 19 e 23, comma 1, della
legge n. 218 del 1952;
10. richiamata la legislazione suddetta e
l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 23626 del 2016, relativa, contrariamente
a quanto affermato nel decreto impugnato, proprio ad ipotesi di società datrice
di lavoro fallita; inoltre Cass. n. 18044 del 2015;
n. 19790 del 2011; n.
18584 del 2008; n. 9198 del 2000), si sostiene come le ritenute
previdenziali a carico del lavoratore possano essere operate dal datore
unicamente in ipotesi di tempestivo ed integrale versamento del contributo,
altrimenti la quota previdenziale a carico del dipendente resta definitivamente
a carico di parte datoriale, con conseguente diritto in tal caso del lavoratore
alla integralità della retribuzione;
11. col secondo motivo di ricorso è censurato il
decreto del Tribunale per violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.,
nella parte in cui ha disposto la compensazione delle spese di lite per il fatto
che “solo in sede di opposizione il lavoratore ha integrato la
documentazione in atti”;
12. la violazione dell’art.
92 c.p.c. è argomentata in ragione della mancanza dei presupposti atti a
legittimare la compensazione delle spese di lite, che avrebbero dovuto essere
poste interamente a carico della curatela; si rileva inoltre la erroneità della
motivazione adottata dal Tribunale in quanto la documentazione, effettivamente
prodotta dal lavoratore solo in sede di opposizione, era tuttavia nella
disponibilità del curatore in quanto proveniente dalla società fallita;
13. il primo motivo di ricorso è fondato,
condividendo questo Collegio
l’interpretazione data dalla sentenza Cass. n.
23426 del 2016, i cui argomenti consentono di superare le critiche mosse
dal Tribunale;
14. l’art. 19 della legge n. 218 del
1952 prevede: “Il datore di lavoro è responsabile del pagamento dei
contributi anche per la parte a carico del lavoratore qualunque patto in
contrario è nullo. Il contributo a carico del lavoratore è trattenuto dal
datore di lavoro sulla retribuzione corrisposta al lavoratore stesso alla
scadenza del periodo di paga cui il contributo si riferisce”; ai sensi del
successivo art. 23, comma
1, “Il datore di lavoro che non provvede al pagamento dei contributi entro
il termine stabilito o vi provvede in misura inferiore alla dovuta è tenuto al pagamento
dei contributi e delle parti di contributo non versato tanto per la quota a
proprio carico quanto per quella a carico dei lavoratori, nonché al versamento
di una somma aggiuntiva pari a quella dovuta, ed è punito con l’ammenda da lire
1000 a lire 20.000 per ogni dipendente per il quale sia stato omesso in tutto o
in parte il pagamento del contributo”;
15. questa Corte ha precisato che l’accertamento e
la liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze retributive
devono essere effettuati al lordo, oltre che delle ritenute fiscali, di quella
parte delle ritenute previdenziali gravanti sul lavoratore, ove il datore di
lavoro non abbia tempestivamente adempiuto all’obbligo di versamento
contributivo perché in tal caso anche la quota gravante sul lavoratore resta a
carico del datore (cfr. Cass. 18897 del 2019; n. 25956 del 2017; n.
18044 del 2015; n. 19790 del 2011 e molte
altre precedenti del medesimo tenore); difatti, se il datore di lavoro
corrisponde tempestivamente all’ente previdenziale la quota contributiva a
carico del lavoratore, può legittimamente operare la relativa trattenuta sulla
retribuzione; se invece il datore di lavoro non corrisponde tempestivamente
detta quota contributiva, la stessa rimane definitivamente a suo carico, con la
conseguenza, secondo il meccanismo sanzionatorio previsto dalla legge n. 218 del 1952, artt. 19 e
23, che il lavoratore rimane liberato dall’obbligazione contributiva per la
quota a suo carico e il suo credito retributivo si espande fino a comprendere
detta quota; dal che discende che l’intero credito, in sede fallimentare, segue
nell’ordine dei privilegi la natura retributiva che gli è propria (in tal senso
Cass. n. 23426 del 2016);
16. da tali premesse discende che il rischio
paventato dal Tribunale, di una duplice insinuazione nel passivo del fallimento
della società datrice di lavoro, da parte del lavoratore e dell’INPS, per il
medesimo credito relativo alla quota contributiva a carico del dipendente, è in
radice escluso in quanto, ove il datore non abbia provveduto al tempestivo
versamento della quota trattenuta sulla retribuzione del dipendente, viene meno
l’obbligo contributivo pro quota del lavoratore e quindi il credito del
predetto assume interamente natura retributiva;
17. l’accoglimento del primo motivo di ricorso porta
a ritenere assorbito il secondo motivo sulla regolazione delle spese di lite;
18. la sentenza impugnata deve pertanto essere
cassata, con rinvio al medesimo Tribunale, in diversa composizione, che
provvederà ad un nuovo esame della fattispecie alla luce dei principi di
diritto richiamati, oltre che alla regolazione delle spese del giudizio di
legittimità.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara
assorbito il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo
accolto e rinvia al Tribunale di Prato, in diversa composizione, anche per la
regolazione delle spese del giudizio di legittimità.