Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 settembre 2020, n. 18960
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Superamento
del periodo di comporto, Termine, CCNL di settore
Rilevato che
1. La Corte di appello di Reggio Calabria ha accolto
il reclamo proposto da G. s.r.l. ed ha rigettato la domanda di F.D. che aveva
chiesto si accertasse la illegittimità del licenziamento a lui intimato dalla
G. s.r.l. il 25-29 settembre 2015 per giustificato motivo oggettivo in
relazione all’avvenuto superamento del periodo di comporto ai sensi dell’art. 32 comma 7 del c.c.n.I.
Mobilità Area Contrattuale Attività Ferroviarie e dell’art. 2110 cod.civ.
2. Il giudice di appello, per quanto qui ancora
interessa, ha rammentato che era oramai incontroverso tra le parti che il
termine del comporto previsto dall’art. 32 comma 7 del c.c.n.I.
applicabile era di dodici mesi. Aveva inoltre accertato che tale termine era
scaduto nel mese di aprile del 2015 per effetto della somma delle assenze per
malattia accumulatesi dal 19 novembre 2013 al 17 settembre 2015.
2.1. La Corte di merito ha evidenziato che il
lavoratore non aveva contestato la effettività delle giornate di assenza per
malattia dolendosi invece della tardività del licenziamento intimato a distanza
di mesi dalla maturazione del periodo di comporto quando il lavoratore aveva
ripreso servizio senza chiedere ulteriori aspettative per ragioni di salute ed
alternando periodi di servizio e periodi di malattia.
2.3. Ha osservato poi che il tempo trascorso tra la
maturazione del periodo di comporto e l’intimazione del licenziamento era
giustificato dalla volontà della datrice di lavoro di verificare la
compatibilità della malattia con la prosecuzione dell’attività che tuttavia,
per effetto dell’ulteriore assenza di due mesi dovuta alla medesima malattia
era poi apparsa definitivamente compromessa.
2.4. In tale prospettiva il giudice di appello ha
escluso che lo spatium deliberandi fosse stato eccessivo evidenziando che, al
contrario, la risoluzione del rapporto era stata comunicata solo una settimana
dopo il rientro dall’ultima assenza protrattasi per due mesi durante il periodo
estivo.
2.5. Ha concluso quindi che non era ravvisabile
alcuna inerzia e che, anzi, l’attesa nel recedere era stata giustificata dalla
verifica delle modalità di esercizio dell’attività lavorativa, nell’immediato
ripresa e poi rarefatta durante il periodo estivo, durante il quale, nel mese
di agosto, anche l’attività amministrativa della società era sospesa.
3. Per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso F.D. affidato a quattro motivi ai quali resiste con controricorso la G.
s.r.l.. Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso ed
entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis 1. cod. proc. civ.
Considerato che
4. Preliminarmente va dichiarata ammissibile la
memoria depositata dalla G. s.r.l. in occasione dell’odierna adunanza camerale.
Come risulta dagli atti di causa, infatti, in data 10 giugno 2020 la società
controricorrente ha inviato per via telematica alla cancelleria una memoria che
ha del pari notificato alla controparte via PEC in formato pdf p7m il 10 giugno
2020. Successivamente, in data 16 giugno 2020, la G. s.r.l. ha provveduto anche
al deposito della memoria in formato cartaceo presso la cancelleria.
4.1. Va rammentato infatti che il presente
procedimento, originariamente fissato per la decisione il 18 marzo 2020, ha
sofferto del rinvio d’ufficio reso necessario dalla disciplina emergenziale
collegata alla pandemia COVID 19. Ai sensi dell’art. 1 comma 1 del d.l. 8 marzo 2020 n.
11, infatti, le udienze dei procedimenti civili e penali pendenti presso
tutti gli uffici giudiziari sono state rinviate d’ufficio a data successiva al
22 marzo 2020.
Tale termine è stato successivamente differito prima
al 15 aprile e poi all’ 11 maggio 2020 per effetto del disposto dell’art. 83 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18
(convertito dalla legge 24 aprile 2020 n. 27)
e poi dell’art. 36 comma 1 del
d.l. 8 aprile 2020 n. 23 (convertito dalla legge
5 giugno 2020, n. 40).
4.2. Per l’effetto con provvedimento n. 47 del 31
marzo 2020, adottato ai sensi dell’art.
83 comma 6 del citato d.l.n. 18 del 2020, è stato disposto che tutte le
cause già fissate per la trattazione in adunanza camerale fino al 31 maggio
2020 fossero rinviate a nuovo ruolo per essere nuovamente fissate in adunanza
camerale a decorrere dal 22 giugno 2020 nel “rispetto dei termini di
legge” (cfr. i provvedimenti del Primo Presidente della Cassazione nn. 47
e 55 del 31.3 e 10.4.2020).
4.3. Osserva allora il Collegio che trattandosi di
una nuova fissazione dell’adunanza camerale, d’ufficio rinviata per effetto di
una disposizione di legge, i termini da rispettare sono quelli dettati, nello
specifico, dall’art. 380 bis. 1 cod. proc. civ..
Tale norma dispone, da un canto, che dell’udienza è data comunicazione agli
avvocati delle parti almeno venti giorni prima e, dall’altro, che ai difensori
è concesso termine, fino a dieci giorni prima, per depositare memorie
illustrative. In sostanza la disposizione autorizza le parti a meglio
illustrare le rispettive posizioni e le difese già svolte in prossimità
dell’adunanza fissata per la decisione. Non è prevista alcuna decadenza ma solo
un lasso temporale adeguato per consentire alla Corte di esaminare le memorie.
Né vi sono ragioni per ritenere che tale illustrazione sia preclusa nel caso in
cui la parte, che in un primo momento non abbia inteso avvalersene, differita
la decisione voglia illustrare le difese già svolte eventualmente richiamando,
come nel caso in esame, i più recenti sviluppi della giurisprudenza.
4.4. Quanto al deposito telematico della memoria va
rilevato che l’art. 83 comma 11
bis del citato d.l. 18 del 2020 ha disposto che fino al 31 luglio 2020
anche per la Corte di Cassazione il deposito degli atti e dei documenti da
parte degli avvocati può avvenire in modalità telematica nel rispetto della
normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e
la ricezione dei documenti informatici. Con il Protocollo d’intesa intervenuto
tra la Corte di Cassazione, la Procura Generale presso la Corte di Cassazione
ed il Consiglio Nazionale Forense si è disposto che le memorie ai sensi degli artt. 380
bis, 380 bis 1e 380 ter
cod. proc.civ.potranno
essere trasmesse mediante invio dal proprio indirizzo di posta elettronica
certificata alle PEC delle cancellerie della Corte di Cassazione ed alla PEC
dei difensori delle altre parti processuali risultanti dai pubblici registri.
4.5. Nel caso di specie la società controricorrente
ha nel termine di dieci giorni inviato alla PEC della controparte la memoria
che ha trasmesso anche in cancelleria. Il successivo deposito della copia
cartacea della memoria è adempimento ulteriore e di cortesia rispetto ad un
deposito già ritualmente e tempestivamente effettuato nel termine di dieci
giorni dalla data fissata e comunicata alle parti dell’adunanza camerale.
5. Venendo quindi all’esame dei motivi di ricorso
ritiene il Collegio che il primo motivo -con il quale è denunciata la
violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod.
proc.civ. in relazione all’art. 360 primo comma
n. 4 cod. proc.civ. per avere la sentenza d’ufficio evidenziato che il
lavoratore non si era avvalso dell’aspettativa per motivi di salute, sebbene
nulla al riguardo fosse stato allegato dalla società la quale non solo non lo
aveva avvisato dell’esistenza di tale opportunità ma, neppure, lo aveva
avvertito che il periodo di comporto stava per scadere – è infondato.
5.1. Il vizio di ultrapetizione può essere ravvisato
nel caso in cui il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi
dell’azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da
quello richiesto (petitum immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della
vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i
limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (cfr.
Cass. 21/03/2019 n. 8048 ed anche Cass. 11/04/2018 n. 9002 e 24/09/2015 n.
18868). In sostanza la corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, che
vincola il giudice ex art. 112 cod. proc. civ.,
riguarda il “petitum” che va determinato con riferimento a quello che
viene domandato sia in via principale che in via subordinata, in relazione al
bene della vita che l’attore intende conseguire, ed alle eccezioni che in
proposito siano state sollevate dal convenuto. Tuttavia, tale principio non
osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione
dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonché in base
alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi e, in genere, all’applicazione
di una norma giuridica, diversa da quella invocata dalla parte (cfr. Cass. 24/03/2011 n. 6757 e 13/06/2002 n. 8479).
5.2. Nel caso in esame la Corte si è limitata ad
utilizzare un argomento motivazionale che deriva dalla lettura effettuata dal
giudice del c.c.n.I. ma che non si è riverberata né sul petitum né sulla causa
petendi che è rimasta invariata. Il bene della vita riconosciuto è rimasto il
medesimo ed il provvedimento chiesto con il ricorso è proprio quello
riconosciuto.
6. Con il secondo motivo il ricorrente deduce che la
Corte di merito, in violazione degli artt. 115
e 116 cod. proc.civ. in relazione all’art. 360
primo comma n. 5 cod.proc.civ., avrebbe omesso di prendere in esame le
risultanze della prova testimoniale, ammessa in appello, relative alla nocività
delle mansioni svolte.
6.1. Sostiene il ricorrente che la Corte, pur avendo
correttamente dato atto che la parte aveva rinunciato a far accertare la
nocività delle mansioni svolte, avrebbe dovuto tenere conto comunque delle
risultanze dell’istruttoria disposta e delle circostanze di fatto accertate,
dalle quali erano emerse le caratteristiche dell’attività svolta.
7. Anche il secondo motivo di ricorso non può essere
accolto. Ed infatti non può porsi nel giudizio di cassazione una questione di
violazione o di falsa applicazione degli artt. 115
e 116 c.p.c. con riguardo alla valutazione del
materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito. Solo allorché si alleghi
che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle
parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, ovvero abbia disatteso,
valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero
abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento
critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione è ravvisabile la
violazione di legge( Cass. 17/01/2019 n. 1229 e 27/12/2016 n. 27000). Rientra
infatti nella discrezionalità del giudice di merito la scelta delle prove da
porre a fondamento della sua decisione ed in virtù del principio del libero
convincimento, che è posto a fondamento degli artt.
115 e 116 cod.proc.civ. ed opera
interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, è insindacabile in sede di
legittimità la scelta di valorizzare alcuni elementi di prova invece che altri.
La mancata valutazione di elementi di prova può divenire rilevante ove si
concreti in un omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato
oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa
soluzione della controversia, censurabile nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, cod.proc.civ., come
riformulato dall’art. 54 del d.l.
n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n.
134 del 2012 (cfr. Cass. n. 23940 del 12/10/2017).
7.1. Tanto premesso il ricorrente non chiarisce la
decisività delle circostanze di fatto che assume essere risultate provate e che
sarebbero state trascurate dal giudice di appello. Conseguentemente la censura
è inammissibile poiché pretende, nella sostanza, una diversa valutazione degli
elementi di prova che non è consentita a questa Corte per le ragioni dette.
8. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione
e falsa applicazione dell’art. 41
comma E-ter d.lgs. n. 81 del 2008, dell’art.
2110 secondo comma cod. civ., dell’art. 32 comma 6 del c.c.n.I.
mobilità area AF del 20 luglio 2012 e degli artt.
1175 e 1375 cod.civ. in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ..
8.1. Ad avviso del ricorrente la sentenza, in
violazione delle disposizioni denunciate, avrebbe ritenuto tempestivo il
recesso sebbene, in ossequio ai principi di correttezza e buona fede
nell’esecuzione del rapporto, la condotta tenuta dal datore di lavoro – che
aveva riammesso in servizio il lavoratore ed aveva lasciato trascorrere un
considerevole periodo di tempo – doveva essere interpretata come una rinuncia a
volersi avvalere della facoltà di risolvere il rapporto per superamento del
comporto. Sottolinea il ricorrente che la condotta datoriale, per poter essere
considerata corretta, avrebbe dovuto essere preceduta, e non lo era stata,
dalla comunicazione al lavoratore che il periodo di comporto stava per scadere;
dalla verifica dell’idoneità alle mansioni all’atto della ripresa del servizio
e, in caso di accertata idoneità, dall’avviso che ad ulteriori assenze sarebbe
potuto conseguire il licenziamento; dalla comunicazione della possibilità di
avvalersi dell’aspettativa prevista dall’art. 32 comma 9 del c.c.n.I. in
esito al decorso della quale, poi, avrebbe potuto essere licenziato.
9. Con l’ultimo motivo di ricorso, poi, è censurata
la sentenza per avere – in violazione dell’art.
2110 comma 2 cod.civ., dell’art.
32 comma 6 e 11 c.c.n.I. mobilità area AF del 20 luglio 2012 e degli artt. 1175 e 1375
cod.civ. in relazione all’art. 360 primo comma
n. 3 cod. proc.civ. – ritenuto che la facoltà di recedere dal rapporto era
stata legittimamente esercitata, trascurando di considerare che, nel corso del
compimento del periodo di comporto, il ricorrente era rientrato in servizio
riprendendo per tre mesi l’attività lavorativa con le modalità di sempre
(compreso il superamento dell’orario di lavoro e la prestazione di attività
anche diverse rispetto a quelle sue proprie).
10. Le censure non possono essere accolte. Ritiene
il Collegio di dover dare seguito a quella giurisprudenza di questa Corte che
ha ben chiarito in che modo la tempestività del recesso refluisca sulla sua
legittimità nel caso in cui lo stesso sia intimato in relazione all’avvenuto
superamento del periodo di comporto.
10.1. E’ stato condivisibilmente evidenziato infatti
che in questo caso il requisito della tempestività non può risolversi in un
dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce oggetto di una
valutazione di congruità, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente
motivata, che il giudice di merito deve operare caso per caso, con riferimento
all’intero contesto delle circostanze significative. Sarà il lavoratore invece
a dover provare che l’intervallo temporale tra il superamento del periodo di
comporto e la comunicazione di recesso ha superato i limiti di adeguatezza e
ragionevolezza, sì da far ritenere la sussistenza di una volontà tacita del
datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto. A differenza
del licenziamento disciplinare, che postula l’immediatezza del recesso a
garanzia della pienezza del diritto di difesa all’incolpato, del licenziamento
per superamento del periodo di comporto per malattia, l’interesse del
lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con quello
del datore di lavoro a disporre di un ragionevole “spatium deliberando, in
cui valutare convenientemente la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai
fini di una prognosi di sostenibilità delle sue assenze in rapporto agli
interessi aziendali. In tale caso, il giudizio sulla tempestività del recesso
non può conseguire alla rigida applicazione di criteri cronologici
prestabiliti, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice deve
compiere caso per caso, apprezzando ogni circostanza al riguardo significativa
(cfr. Cass. 12/10/2018 n. 25535 e anche Cass. 28/03/2011 n. 7037).
10.2. Nel caso in esame il giudice di appello ha
dato conto con chiarezza delle ragioni per le quali il tempo trascorso tra il
formale compimento del periodo di comporto ed il licenziamento non era
significativo di una volontà tacita, manifestata per fatti concludenti, di
rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto ma era piuttosto finalizzata a
verificare in concreto l’esistenza di margini residui di persistente
utilizzabilità della prestazione con un equilibrato bilanciamento dei
concorrenti interessi delle parti ( del lavoratore a conservare la posizione lavorativa
e del datore di lavoro a ricevere una prestazione utile).
10.3. Né il datore di lavoro, in mancanza di un
obbligo contrattuale in tal senso, era tenuto a comunicare al lavoratore
l’approssimarsi del compimento del comporto ovvero ad indicare strumenti
alternativi all’assenza per malattia. Nel licenziamento per superamento del
periodo di comporto, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in
quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva
morbilità), la risoluzione del rapporto costituisce la conseguenza di un caso
di impossibilità parziale sopravvenuta dell’adempimento, in cui il dato
dell’assenza dal lavoro per infermità ha una valenza puramente oggettiva. Non
rileva, pertanto, la mancata conoscenza da parte del lavoratore del limite cd.
esterno del comporto e della durata complessiva delle malattie e, ove come
nella specie non risulti esistente un obbligo contrattuale in tal senso, non
costituisce violazione da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza
e buona fede nella esecuzione del contratto la mancata comunicazione al
lavoratore dell’approssimarsi del superamento del periodo di comporto, in
quanto tale comunicazione servirebbe in realtà a consentire al dipendente di
porre in essere iniziative, quali richieste di ferie o di aspettativa,
sostanzialmente elusive dell’accertamento della sua inidoneità ad adempiere
l’obbligazione (cfr. Cass. 17/08/2018 n. 20761
e Cass. 28/06/2006 n. 14891).
11. In conclusione per le ragioni su esposte il
ricorso deve essere rigettato e le spese del giudizio, che seguono la
soccombenza, sono liquidate nella misura indicata in dispositivo. Ai sensi
dell’art. 13 comma 1 quater del
d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato
d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in € 200,00 per
esborsi, € 4.000,00 per compensi professionali oltre a spese generali nella
misura del 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato
d.P.R., se dovuto.