Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 settembre 2020, n. 19982
Domanda di accertamento negativo della pretesa contributiva,
Accertamento ispettivo, Dichiarazioni rese agli ispettori, Contrasto
insanabile con quelle rese nel corso del giudizio, Valore da riconoscere ai
verbali ispettivi quanto ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui
compiuti o avvenuti in sua presenza, Difficoltà di comprensione della lingua
italiana, Coperta da fede privilegiata la circostanza che le risposte fornite
dai lavoratori fossero quelle effettivamente riportate in verbale, Necessità
di sottoporre i contenuti al vaglio
complessivo di tutte le ulteriori acquisizioni probatorie
Rilevato che
Con sentenza n. 460 del 2014, la Corte d’appello di
Genova ha accolto l’impugnazione proposta dall’Inps nei confronti di S.T.
s.r.l. avverso la sentenza di primo grado, di accoglimento della domanda di
accertamento negativo della pretesa contributiva, formulata dall’Inps in
seguito ad accertamento ispettivo, relativa alla qualificazione in termini di
lavoro subordinato e non di sub appalto dei rapporti intercorsi con T.F., X.E.
e G.I.;
la Corte territoriale, dopo aver riportato le
diverse prospettazioni delle parti ed i contenuti dell’attività istruttoria
svolta in primo grado, ha accolto l’impugnazione dell’Inps rilevando che,
seppure la sentenza di primo grado non poteva dirsi affetta da nullità in
ragione dell’asserita carenza di motivazione in ordine al regime del riparto
dell’onere della prova, che non costituisce capo autonomo di domanda, dalle
risultanze istruttorie emerse in primo grado si evinceva che le dichiarazioni
rese agli ispettori da tale T. e dal geometra C. ( su aspetti decisivi per il
giudizio, quali: proprietà degli strumenti di lavoro, modalità di pagamento,
criterio di determinazione della somma spettante in base alle ore lavorate e
modalità di espletamento dell’attività lavorativa) si ponevano in contrasto
insanabile con quelle rese nel corso del giudizio, ed alle prime, in quanto
rese nell’immediatezza, andava riconosciuta maggiore attendibilità, anche in
considerazione del valore da riconoscere ai verbali ispettivi quanto ai fatti
attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua
presenza (artt. 2699 e 2700 c.c.) e della contraddittorietà, anche
rispetto alla tesi della società sulla pluralità dei contratti di sub appalto,
delle dichiarazioni testimoniali rese in giudizio;
inoltre, la questione della difficoltà di
comprensione della lingua italiana da parte del T., confermata dalla
circostanza che il giudice di primo grado aveva nominato un interprete per
procedere al suo esame, andava risolta nel senso che tale difficoltà di
comprensione non era tale da inficiare il valore della dichiarazione resa in
sede ispettiva, trattandosi di enunciazione di fatti semplici relativi alla
propria attività di lavoro e del tutto corrispondenti alle dichiarazioni rese
agli ispettori dal geometra C. ( per più di venti anni direttore tecnico della
società);
allo stesso modo, la documentazione offerta solo in
giudizio e non agli ispettori (contratti del tutto privi di indicazione delle
opere da realizzare e dei cantieri da costituire, con la sola previsione di
pagamento a seguito di rilascio di fattura, elenchi delle attrezzature privi di
date e verbali interni mal concilianti con le fatture; comunicazioni ai Comuni
committenti che non si correlavano interamente per tempi ai contratti di sub
appalto) non poteva assumere rilievo favorevole alla tesi della società ed anzi
consentiva di accordare maggiore pregnanza alle concrete modalità di
espletamento dell’attività che andavano sussunte all’interno dello schema della
subordinazione;
quanto, infine, alla domanda subordinata diretta ad
ottenere l’applicazione delle sanzioni civili per l’ipotesi di omissione ai
sensi dell’art. 1, comma 217, l.n.
388/2000 anziché per quella dell’evasione, la sentenza impugnata ha
ritenuto che la parte appellata non l’avesse adeguatamente riproposta, ai sensi
dell’art.346 c.p.c., in quanto nulla era
argomentato in seno alla comparsa di costituzione ed anche le conclusioni
dell’atto avevano riportato solo le conclusioni della originaria domanda
principale;
avverso tale sentenza, S.T. s.r.l. ricorre per
cassazione sulla base di quattro motivi: 1) in relazione all’art. 360, primo comma n. 4, c.p.c., nullità della
sentenza d’appello ex articolo 111 costituzione
e 132 n. 4 c.p.c. per motivazione solo
apparente e/o irriducibile contraddittorietà ed obiettiva incomprensibilità e
perplessità della motivazione; 2) in relazione all’articolo
360, primo comma n. tre c.p.c., violazione e falsa applicazione degli articoli 2697 c.c. e 2700
c.c., violazione o falsa applicazione dei principi in tema di formazione e
valutazione delle prove (artt. 244 e seguenti
c.p.c. e 116 e ss. c.p.c.; 3) in relazione
all’articolo 360, primo comma n.3, c.p.c.,
violazione e falsa applicazione dell’articolo 2094
c.c. e degli artt. 1655, 1656 e 2222 c.c.,
nonché violazione falsa applicazione dei principi e delle norme in tema di
interpretazione dei contratti (artt. 1362, 1366, 1367 e 1369 c.c.) e di formazione e valutazione delle
prove (art. 244 e ss. c.p.c. e 116 e ss. c.p.c.; 4) in relazione all’articolo 360, primo comma n. 3, c.p.c., violazione
e falsa applicazione dell’articolo 346 c.p.c.;
l’INPS non ha svolto attività difensiva limitandosi
a rilasciare procura speciale in calce alla copia notificata del ricorso;
il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto
del ricorso;
Considerato che
Il primo motivo è inammissibile;
la ricorrente giunge a formulare il motivo relativo
alla nullità della sentenza, essendo ormai venuto meno il vizio della
contraddittorietà della motivazione previsto dal n. 5) del primo comma dell’art. 360 c.p.c. nella versione precedente
all’attuale, introdotta dall’art.
54 del d.l. n. 83/2012 conv. in I. n.83/2012
come interpretata da Cass. SS.UU. n. 19881/2014, facendolo scaturire dalla
irriducibile contraddittorietà, dalla obiettiva incomprensibilità e dalla
perplessità della motivazione che emergerebbero dai passi della sentenza che
hanno valutato come maggiormente attendibili le dichiarazioni rese dal T. agli
ispettori, piuttosto che quelle rese in udienza e pur avendo affermato che il
predetto non comprendeva la lingua italiana ( tanto che fu nominato un
interprete) e che tale situazione si manifestò allorquando il giudice di primo
grado si accinse a formulargli le domande aventi ad oggetto le stesse
circostanze asseritamente riferite agli ispettori; allo stesso modo sarebbe
incomprensibile il riferimento fatto dalla sentenza impugnata a dichiarazioni
rese dal teste C. che facevano rinvio al << P.O.S. della ditta S.>,
documento mai prodotto agli atti del giudizio né indicato nel verbale di
accertamento; ancora, non sarebbe comprensibile la ragione per la quale la
Corte territoriale abbia ritenuto che il teste I.I. (dipendente della
ricorrente) intendesse parlare del T. quando riferì dell’attività svolta da un
certo N., essendo del tutto arbitrario ritenere tale nome simile a < F.>
che è II nome di battesimo del T.;
le circostanze che si indicano quali eloquenti
dimostrazioni del vizio radicale della motivazione apparente non sono idonee a
determinare tale vizio ed il motivo è inammissibile;
trattandosi, infatti, di sentenza soggetta, ratione
temporis, al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 5), introdotto dal D.L. 22 giugno
2012, n. 83, convertito, con modifiche, nella L.
7 agosto 2012, n. 134, nella specie, il vizio di motivazione è configurarle
nell’ipotesi di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è
stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero laddove la motivazione sia
assente o meramente apparente;
tutti i punti contestati nel motivo, invece, sono
stati oggetto di esame e valutazione da parte della Corte d’appello, sicché le
censure sono da ritenere inammissibili sulla base dei criteri indicati dalla sentenza 7 aprile 2014, n. 8053, delle Sezioni
Unite di questa Corte;
la ricorrente, invece, vorrebbe censurare nei
termini suddetti un vero e proprio vizio di contraddittoria motivazione,
ipotizzando erroneamente la sopravvivenza della figura del vizio di motivazione
attraverso la semplice contestazione della nullità della sentenza ai sensi
dell’art. 360 c.p.c., n. 4), il che non trova
alcun supporto nella motivazione della citata sentenza delle Sezioni Unite;
peraltro, il vizio di motivazione apparente a cui si
appiglia la ricorrente, per la giurisprudenza di questa Corte di legittimità (
vd. Cass. n. 3819 del 2020) si ravvisa laddove
il vizio di motivazione, previsto dall’art. 132,
comma 2, n. 4, c.p.c. e dall’art. 111 Cost.,
sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del
criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio
convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro
probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il
percorso argomentativo seguito; tali caratteri sono del tutto assenti nella
sentenza in esame e la stessa ricorrente rileva difetti di coerenza e di
mancanza di chiarezza nella motivazione adottata;
il secondo motivo è infondato;
ci si duole, nella sostanza, che la Corte d’appello
abbia violato le disposizioni che disciplinano l’efficacia probatoria dei
verbali ispettivi provenienti da pubblici ufficiali e la regola di riparto
dell’onere della prova, sovvertendo un principio, che rivendica, di prevalenza
della prova acquisita in giudizio rispetto alle acquisizioni delle attività
ispettive e, quindi, imputa alla sentenza impugnata di aver sostanzialmente
capovolto la regola che attribuisce all’Inps l’onere di provare i fatti
costitutivi della pretesa contributiva (nella specie la natura subordinata dei
rapporti di lavoro);
la sentenza non ha violato le disposizioni ed i
principi indicati; in particolare, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi
in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da
quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione
delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni
(vd. Cass. 26769 del 2018), mentre, nel caso di specie la sentenza impugnata,
non ha assegnato alla società ricorrente l’onere di provare la sussistenza
della subordinazione (anzi, a pagina 20, ha esplicitato che tale onere spetti
all’Inps, ma ha vagliato, in vero in modo accurato, l’intero corredo probatorio
acquisito al processo e ne ha tratto le conclusioni ritenute più opportune alla
luce della rilevanza da accordare ai classici indici della subordinazione,
relativi alle concrete modalità di espletamento della prestazione ed al sistema
di remunerazione accettato ed effettivamente eseguito dalle parti;
la sentenza impugnata, peraltro, ha pure ricordato
correttamente la giurisprudenza di questa Corte di legittimità formatasi in
ordine alla valenza probatoria dei verbali ispettivi redatti dagli ispettori
del lavoro, o comunque dai funzionari degli enti previdenziali, secondo la
quale essi fanno fede fino a querela di falso, ai sensi dell’art. 2700 cod. civ., solo relativamente alla loro
provenienza dal sottoscrittore, alle dichiarazioni a lui rese ed agli altri
fatti che egli attesti come avvenuti in sua presenza o da lui compiuti ( vd.
Cass. 15702/2014) e, coerentemente, ha ritenuto coperta da fede privilegiata la
circostanza che le risposte fornite dal T. fossero quelle effettivamente
riportate in verbale, ferma restando la necessità di sottoporre i loro
contenuti al vaglio complessivo di tutte le ulteriori acquisizioni probatorie;
peraltro, in tale contesto, non vige alcun principio
di gerarchia tra le fonti di prova posto che nel nostro ordinamento, tranne che
per il giuramento, a cui è attribuito valore di prova legale, spetta al giudice
del merito il potere esclusivo, nell’individuare le fonti del proprio
convincimento, di valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, del
quale, peraltro, egli deve dare una motivazione immune da vizi logici e
giuridici, senza che possa pretendersi l’attribuzione di un maggior valore ad
un accertamento rispetto ad un altro a cagione della sua provenienza ( vd.
Cass. 4743/2005; n. 2627/1980);
si è, dunque, fatta corretta applicazione del
principio espresso da questa Corte (vd. Cass. n. 14965/2014) secondo il quale
nel giudizio promosso dal contribuente per l’accertamento negativo del credito
previdenziale, incombe all’INPS l’onere di provare i fatti costitutivi della
pretesa contributiva, che l’Istituto fondi su rapporto ispettivo. A tal fine,
il rapporto ispettivo dei funzionari dell’ente previdenziale, pur non facendo
piena prova fino a querela di falso, è attendibile fino a prova contraria,
quando esprime gli elementi da cui trae origine (in particolare, mediante
allegazione delle dichiarazioni rese da terzi), restando, comunque, liberamente
valutabile dal giudice in concorso con gli altri elementi probatori;
il terzo motivo è pure Infondato;
ci si duole del giudizio di sussunzione degli indici
accertati a seguito dell’esame della concreta fattispecie, all’interno della
fattispecie del lavoro subordinato (art. 2094 c.c.)
piuttosto che di quella del lavoro autonomo (art.2222
c.c.), sotto la specie del sub appalto (artt.
1655 e 1656 c.c.) e che a tale errore la
sentenza sia pervenuta per aver male interpretato i contratti intercorsi tra le
parti (artt. 1362 e ss. c.c.);
la sentenza impugnata ha ritenuto che tra la
ricorrente ed i signori T., X. e I. fossero intercorsi rapporti di lavoro subordinato
in quanto: a) i contratti scritti prodotti in giudizio avevano contenuto
generico ed incompatibile con l’intento di stipulare un contratto di sub
appalto ed anche l’indicazione della emissione di fattura in seguito al
versamento del compenso e la titolarità della ditta individuale in capo a
ciascuno di essi non assumevano rilievo a fronte dell’accordo sulla prestazione
lavorativo per un anno con rinnovazione tacita per altro anno; b) era emerso,
dalle dichiarazioni del geometra C. agli ispettori, che i tre ricevessero
direttive quotidiane in ordine all’attività da svolgere e che tale attività
fosse oggetto di controllo quotidiano; i tre si avvalevano delle attrezzature
della S.T. per svolgere la propria attività, resa in via esclusiva alla medesima;
c) le modalità di retribuzione delle prestazioni rese che erano cadenzate per
mese in base alle ore prestate, seppure coperte dalla emissione di formali
fatture; d) la prestazione era resa secondo un orario fisso, tutti i giorni
lavorativi e per l’intera giornata ( dal lunedì al venerdì, dalle 8 alle 17 con
pausa di un’ora);e) assenza di rischio economico in capo ai lavoratori;
secondo la giurisprudenza di questa Corte di
legittimità, l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro va
condotto privilegiando il piano dell’effettività piuttosto che quello delle
formali risultanze documentali ( vd. Cass. n.
4884/2018; Cass. n. 22289/ 2014), con la
conseguenza che laddove il giudice accerti, come nel caso di specie, la
ricorrenza del pieno inserimento organico del lavoratore all’interno
dell’organizzazione aziendale, attestata dal manifestarsi di ordini specifici,
reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa e non di mere
direttive di carattere generale, nonché rivelata dall’ esercizio della potestà
organizzativa del datore di lavoro, concretizzatasi in un effettivo inserimento
del lavoratore nell’organizzazione aziendale e non in un mero coordinamento
della sua attività , può ritenersi realizzata la tangibile differenziazione
della subordinazione rispetto al lavoro autonomo ( Cass.
26986/2009);
nessun errore di diritto può, dunque ravvisarsi
nella decisione, mentre le ulteriori lagnanze sollevate dalla ricorrente
rivelano, in realtà, una critica alle valutazioni del materiale istruttorio
operata dalla sentenza impugnata, non passibile di disamina in seno al giudizio
di legittimità;
infine, il quarto motivo va dichiarato inammissibile;
la questione non attiene alla sussistenza dell’onere
di riproposizione della domanda subordinata rimasta assorbita all’esito del
giudizio di primo grado, recentemente affrontata dalle Sezioni Unite con la
sentenza n. 7940 del 2019, secondo la quale le parti del processo di
impugnazione, nel rispetto dell’autoresponsabilità e dell’affidamento
processuale, sono tenute, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia (al di
fuori delle ipotesi di domande e di eccezioni esaminate e rigettate, anche
implicitamente, dal primo giudice, per le quali è necessario proporre appello
incidentale ex art. 343 c.p.c.), a riproporre
ai sensi dell’art. 346 c.p.c. le domande e le
eccezioni non accolte in primo grado, in quanto rimaste assorbite, con il primo
atto difensivo e comunque non oltre la prima udienza, trattandosi di fatti
rientranti già nel “thema probandum” e nel “thema
decidendum” del giudizio di primo grado;
nel caso di specie, la sentenza ha ritenuto generica
la modalità di riproposizione della domanda subordinata in quanto non
espressamente riprodotta nelle conclusioni, al contrario di quanto fatto a
proposito della domanda principale in ordine alla quale la parte era rimasta
pienamente vittoriosa;
la ricorrente rileva di aver fatto esplicito
richiamo alle conclusioni del ricorso di primo grado che conteneva anche la
domanda subordinata relativa alle sanzioni applicabili e che, dunque,
l’interpretazione della memoria di costituzione adottata dalla Corte
territoriale sarebbe errata;
la situazione denunciata si risolve nella denuncia
di un errore nell’interpretazione del contenuto della memoria di costituzione e
non in quella di una omissione di pronuncia;
in sede di giudizio di legittimità, (vd. Cass. civ.
Sez. I, 26/11/2002, n. 16654) va tenuta distinta l’ipotesi in cui si lamenta
l’omesso esame di una domanda da quella in cui si censura l’interpretazione
data alla domanda stessa, ritenendosi in essa compresi o esclusi alcuni aspetti
della controversia in base ad una valutazione non condivisa dalla parte. Nel
primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell’art. 112 c.p.c. e si pone un problema di natura
tipicamente processuale, per risolvere il quale la Corte di cassazione ha il
potere – dovere di procedere al diretto esame degli atti e di acquisire gli
elementi di giudizio necessari alla richiesta pronunzia. Nel secondo caso,
poiché l’interpretazione della domanda e l’apprezzamento della sua ampiezza e
del suo contenuto costituiscono un tipico accertamento di fatto, come tale
attribuito dalla legge al giudice del merito, alla Corte di legittimità è solo
riservato, nei limiti in cui lo consente la formulazione attuale dell’art. 360, primo comma n. 5, c.p.c., il controllo
della motivazione che sorregge sul punto la pronunzia impugnata;
in applicazione di tale parametro non si rinviene,
anche a voler prescindere dall’erronea indicazione del vizio fatto valere, la
carenza assoluta di motivazione o la sua logica insostenibilità;
in definitiva, il ricorso va rigettato e le spese
seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al
pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 5000,00 per compensi ed
Euro 200,00 per esborsi oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori
di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.lgs. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13, ove
dovuto.