Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 settembre 2020, n. 20466

lllegittima collocazione in CIG, Differenza fra quanto
spettante a titolo di retribuzioni per i periodi di sospensione e quanto
percepito a titolo di cassa integrazione, Demansionamento nei periodi di
lavoro prestato successivamente, Idoneità a determinare un pregiudizio a beni
di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, Ristoro
pecuniario del danno non patrimonialità determinato in base a valutazione
equitativa, Ricorso alla prova presuntiva

 

Rilevato che

 

Il Tribunale di Milano accoglieva in parte le
domande proposte da L.O. nei confronti di U. s.p.a. e dichiarava
l’illegittimità della collocazione in CIG per i periodi analiticamente indicati
in ricorso (CIGO febbraio 2009-luglio 2010; CIG in deroga, dal luglio 2010
all’aprile 2011 e CIGS dal maggio 2011), condannando la società al pagamento
delle somme corrispondenti alla differenza fra quanto spettante a titolo di
retribuzioni per i periodi di sospensione in CIGO, CIGS e CIG in deroga, e
quanto percepito nei medesimi periodi a titolo di indennità di cassa
integrazione. Il Tribunale accertava altresì il demansionamento patito dalla
lavoratrice nei periodi di lavoro prestato successivamente al 2/2/2009 allorché
non si trovava collocata in CIGO, CIGS e CIG in deroga, condannando la società
al risarcimento del danno alla professionalità quantificato nella misura del
100%.

Detta pronuncia veniva parzialmente riformata dalla
Corte distrettuale che, con sentenza resa pubblica il 27/3/2015, rigettava la
domanda proposta dalla lavoratrice a titolo di risarcimento danni da
demansionamento, e la condannava alla restituzione di quanto percepito in
seguito alla esecuzione della sentenza di primo grado.

La cassazione di tale decisione è domandata da L.O.
sulla base di unico motivo, illustrato da memoria ex art.
380 bis c.p.c., al quale oppone difese la società intimata.

 

Considerato che

 

1. Con unico motivo la ricorrente denuncia
violazione e falsa applicazione dell’art. 13 L. 300/1970 e dell’art. 2103 c.c..

Si duole che la Corte territoriale, con argomentare
peraltro contraddittorio, abbia da un canto accertato che nei periodi di
rotazione, la ricorrente non aveva ricevuto l’assegnazione di alcuna mansione
poiché le attività da essa in precedenza svolte, erano state già redistribuite
fra i colleghi, ponendo tale accertamento a fondamento della pronuncia di illegittimità
della collocazione in CIGS; dall’altro, non abbia considerato il medesimo
fatto, quale prova della dequalificazione professionale risentita.

Stigmatizza l’impugnata sentenza per aver denegato
tutela al diritto azionato, argomentando – in assenza di alcuna coerenza
logico-formale – sulla esiguità dei periodi di inattività e sulla circostanza
che la riconosciuta indennità per violazione delle norme in tema di rotazione
CIGS, avrebbe dovuto assorbire l’eventuale indennizzo relativo alla
dequalificazione professionale intervenuta.

Osserva per contro la ricorrente che la totale
accertata privazione di mansioni ha concretizzato la violazione di due precetti
normativi: il primo riguardante l’inosservanza della normativa contrattuale
collettiva, relativa ai criteri di rotazione in CIGO, CIGS e CIG in deroga; il
secondo, la violazione dell’art. 2103 c.c. e
dell’art. 13 l. 300/70.

Rimarca al riguardo, che mentre il danno da illegittima
sospensione in CIGS corrisponde alle precise differenze retributive fra
l’indennizzo percepito dal lavoratore sospeso e quanto avrebbe percepito se
avesse prestato la propria attività lavorativa, quello derivante da
demansionamento può essere valutato anche in via presuntiva ed equitativa.

Argomenta, quindi, che la totale e prolungata
privazione delle mansioni aveva sostanziato un comportamento oggettivamente
grave della parte datoriale, idoneo a frustrare la specifica professionalità di
essa ricorrente, legata all’azienda da un rapporto ultratrentennale e deprivata
in favore di colleghi non soggetti ad alcun tipo di mobilità, “subendo
l’estirpazione delle sue specifiche attività che maggiormente la rendevano
visibile in ambito aziendale”.

2. Il motivo è fondato e va accolto per le ragioni
di seguito esposte.

Occorre in via di premessa, richiamare taluni
generali concetti in relazione al tema qui delibato, che rimandano a quella che
è stata denominata in dottrina la tutela differenziata dei crediti in ragione
del loro rilievo socioeconomico.

Detta tutela si rinviene – oltre che in un corpus di
disposizioni processuali (le ordinanze anticipatorie di cui all’art. 423 c.p.c., l’esecutorietà della sentenza di
primo grado ex art. 431 c.p.c., la
rivalutazione dei crediti di lavoro ex art. 429
c.p.c., u.c.), in numerose disposizioni di diritto sostanziale, nel cui
ambito vanno incluse, tra le espressioni più significative, le norme dettate a
garanzia della “persona” del lavoratore – dalla legge 20 maggio 1970 n. 300, ed il disposto dell’art. 2087 c.c. secondo cui “l’imprenditore è
tenuto ad adottare nell’esercizio della impresa le misura che, secondo la
particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare
l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

In altri termini nella disciplina del rapporto di
lavoro si riscontra un reticolato di disposizioni specifiche volte ad
assicurare una ampia e speciale tutela alla “persona” del lavoratore
con il riconoscimento espresso dei diritti a copertura costituzionale (artt. 32 e 37 Cost.).

In siffatto contesto si è quindi, fondatamente
ritenuto che la modifica in peius delle mansioni ascritte al lavoratore, è
potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura
immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina
del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata
del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela
costituzionale, con la configurabilità di un danno non patrimoniale risarcibile
ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici
tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela
al più alto livello delle fonti.

Infatti questa Corte, a Sezioni unite (vedi Cass. 11 novembre 2008 nn. 26972, 26973, 26974, 26975), dichiarando risarcibile il
danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale che determini, oltre alla
violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto,
anche la lesione di un diritto inviolabile della persona, ha considerato che
l’esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione
anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti
inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l’inserimento di
interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge, come appunto nel caso
del contratto di lavoro, da considerare ipotesi di risarcimento dei danni non
patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.

La dignità personale del lavoratore, in riferimento
agli artt. 2, 4
e 32 Cost., viene configurata come diritto
inviolabile, la cui lesione si risolve in pregiudizio alla professionalità da
dequalificazione, che si traduce nella compromissione delle aspettative di
sviluppo della personalità nell’ambito della formazione sociale costituita
dall’impresa.

L’assegnazione a mansioni inferiori pacificamente
rappresenta fatto potenzialmente idoneo a produrre conseguenze dannose, non
solo di natura patrimoniale (mancata acquisizione di un maggior saper fare,
pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di
guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali v. tra le altre v. Cass. n. 11045 del 10/6/2004), ma anche di natura
non patrimoniale, dal riconoscimento costituzionale della personalità morale e
della dignità del lavoratore derivando il diritto fondamentale di quest’ultimo,
al pieno ed effettivo dispiegamento della sua professionalità, espletando le
mansioni che gli competono.

Orbene, nello specifico la Corte di merito è
pervenuta alla reiezione della domanda di accertamento dell’intervenuto
demansionamento e della consequenziale istanza risarcitoria, sul rilievo che la
privazione di mansioni era stata circoscritta a limitati periodi di rotazione e
risultava comunque “inserita nello specifico contesto dell’illegittima
collocazione della lavoratrice in cassa integrazione, già sanzionata mediante
la condanna al pagamento delle differenze retributive fra il relativo
trattamento e le retribuzioni maturate nei rispettivi periodi”.

Gli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito
non appaiono coerenti coi ricordati insegnamenti, perché finiscono per
sovrapporre piani risarcitori che rimangono concettualmente distinti perché
riconducibili alla violazione di precetti normativi distinti (quelli attinenti
all’osservanza dei criteri di rotazione in CIGO, CIGS e CIG in deroga, e quelli
posti a tutela della professionalità e della personalità del lavoratore,
consacrati dall’art.2103 c.c. nella versione di
testo pro tempore vigente, anteriore alla novella operata con il d.lgs. n. 81 del 2015), oltre che risarcibili
alla stregua di diversi parametri; infatti, secondo la elaborazione della
giurisprudenza di legittimità, la non patrimonialità del diritto leso comporta
che, diversamente da quello patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno vada
determinato in base a valutazione equitativa, anche mediante il ricorso alla
prova presuntiva, che potrà costituire pure l’unica fonte di convincimento del
giudice (ancora Cass. SS.UU. n. 26972/2008
cit.).

Non è, dunque, predicabile un principio, quale
quello affermato dalla Corte distrettuale, in base al quale l’accertamento di
un diritto scaturito dalla violazione di una norma possa assorbire anche quello
derivante dalla violazione di altro precetto normativo; fermo restando che in
linea generale, anche un’unica condotta contra legem – come anche fatto cenno
in precedenza – possa essere fonte di una pluralità di eventi dannosi, autonomamente
risarcibili, giacché la lesione in sé della posizione giuridica soggettiva del
lavoratore sotto il profilo della professionalità, ha attitudine generatrice di
danni sia a contenuto patrimoniale, pregiudicando quel complesso di capacità e
di attitudini che è di certo bene economicamente valutabile, sia a contenuto
non patrimoniale, risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il
confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona.

Chiarita la potenzialità lesiva dell’assegnazione a
mansioni inferiori ad opera del datore di lavoro, si è precisato che qualora
questi lasci in condizione di inattività il dipendente non solo viola l’art. 2103 cod. civ., ma lede il fondamentale
diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della
personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità
del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle
prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento
comporta la lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual’è la dignità
professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la
propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo (v. Cass. 18/5/2012 n.7963) e tale lesione produce un
danno suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa (vedi
in proposito anche Cass. 20/04/2018 n.9901 che
ha ravvisato una violazione dell’art. 2087 c.c.,
con conseguente obbligo di risarcimento del danno biologico – determinabile in
relazione alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione
delle situazioni di disagio professionale e personal nella condotta tenuta dal
datore di lavoro nei confronti di una lavoratrice alla quale, dopo il rientro
dalla cassa integrazione, non erano stati, fra l’altro, assegnati compiti da
svolgere).

Nella fattispecie qui scrutinata, la lavoratrice,
per effetto della sospensione illegittima dal lavoro protrattasi dal 2/2/2009
al 2/5/2011 e dello stato di forzata inattività nel quale è stata mantenuta fra
un periodo di sospensione e l’altro, è stata deprivata delle mansioni a lei
ascritte, con evidente pregiudizio quanto alla posizione giuridica soggettiva,
della normalità delle relazioni di cui era titolare nel contesto aziendale in
cui operava.

La prospettazione del danno derivante dal
demansionamento (idoneo “a frustrare la specifica professionalità della
lavoratrice, fedele dipendente per più di 30 anni all’interno dell’azienda,
quanto a toglierle autorevolezza e rispetto nell’ambito del suo stesso enturage
lavorativo”, secondo quanto riferito in ricorso), ed immanente nella
condizione stessa di inerzia nella quale la lavoratrice è stata
illegittimamente collocata dalla parte datoriale, è, dunque, suscettibile di
ristoro per equivalente ed alla stregua del criterio equitativo, secondo i
principi generali acquisiti dalla giurisprudenza di questa Corte ai quali si è
fatto richiamo.

La pronuncia della Corte distrettuale che, per
quanto sinora detto, a detti principi non si è attenuta, va rimessa ad altro
giudice di appello, designato come in dispositivo. Questi nel procedere al
rinnovato scrutinio della controversia si atterrà ai principi innanzi esposti.

Al medesimo giudice va demandata la regolamentazione
delle spese del giudizio di Cassazione.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e
rinvia alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione cui demanda di
provvedere anche sulle spese del presente giudizio.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 settembre 2020, n. 20466
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