Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 settembre 2020, n. 26813

Formazione inadeguata in materia di sicurezza con riferimento
alle mansioni svolte, Reato contestato al legale rappresentante, Peculiare
meccanismo estintivo del reato previsto dalla normativa in tema di prevenzione
degli infortuni sul lavoro, Chiara illustrazione in sede ispettiva dei
presupposti necessari per scongiurare l’avvio del procedimento penale, Escluse
lesioni del diritto di difesa

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 28 giugno 2019, il Tribunale di
Civitavecchia condannava F.D.A. alla pena di euro 1.200 di ammenda, in quanto
ritenuto colpevole del reato di cui agli art. 37 comma 1 e 55 comma 5 lett. C) del d.lgs. n. 81
del 2008 (capo C della rubrica, mentre per gli altri reati interveniva
assoluzione), reato a lui contestato perché, quale legale rappresentante della
ICPL s.r.l., ometteva di assicurare alla dipendente P.D.L. una formazione
adeguata in materia di sicurezza con riferimento alle mansioni svolte; fatto
accertato in Civitavecchia tra il 30 dicembre 2014 e il 4 settembre 2015.

2. Avverso la sentenza del Tribunale laziale, D.A.,
tramite il suo difensore di fiducia, ha proposto appello, sollevando tre
profili di censura, con i quali contesta la formulazione del giudizio di
colpevolezza dell’imputato.

In primo luogo, la difesa osserva che la sentenza
impugnata non aveva tenuto conto delle dichiarazioni dell’imputato e della
teste C.L.F., oltre che della prova documentale costituita dal verbale dell’ASL
Roma F del 10 agosto 2015, nonché dei certificati medici a carico di P.D.L. del
12 novembre 2013 e del 3 settembre 2014; dopo aver sollecitato l’acquisizione della
documentazione indicata agli allegati 1, 2 e 3, la difesa invoca la
inevitabilità dell’errore compiuto dall’imputato, ai sensi dell’art. 5 cod.
pen., come interpretato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 364 del
1988, evidenziando che il d. Igs.
n. 81 del 2008, agli art. 37 e 55,
prevede un articolato meccanismo sanzionatorio, che unisce all’imposizione di
prescrizioni in tema di sicurezza anche sanzioni in via amministrativa, nonché
conseguenze penali.

Orbene, ricorda la difesa, a D.A. era stato
consegnato, in data 30 gennaio 2015, un verbale di contravvenzione contenente
una serie di contestazioni, venendo così impartite a suo carico varie prescrizioni,
il cui adempimento sarebbe stato funzionale alla definizione amministrativa
degli illeciti.

In effetti, il 10 agosto 2015, lo stesso ente
ispettivo accertava l’eliminazione della violazione contestata (il non aver
assicurato una formazione adeguata alla dipendente P.D.L.) e l’adempimento
della prescrizione di cui al punto 3, per cui D.A. veniva ammesso al pagamento
della somma di 1.424,80 euro. Ora, la scarsa chiarezza della normativa di
riferimento, che rinvia al d.lgs. n. 758 del 1994
e prevede un sistema sanzionatorio così articolato, sia pur ispirato da
evidenti finalità deflative e ripristinatorie, avrebbe dovuto essere
adeguatamente considerata dal Tribunale, in quanto all’imputato non era stato
fatto comprendere che, pur avendo assolto le prescrizioni e pur essendogli
impartito il pagamento di una sanzione, poteva subire un autonomo procedimento
penale. Sotto altro aspetto, si deduce che il complesso sanzionatorio
scaturente dal combinato disposto del d.lgs. n. 758
del 1994 e n. 81 del 2008 consente in
concreto una duplicazione dell’aspetto punitivo, il che violerebbe il principio
del ne bis in idem, per come interpretato sia dalla giurisprudenza di
legittimità (il riferimento è alla sentenza Sez. Un. n. 34655 del 2005), sia
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sono richiamate tra le altre la
sentenza “Engel e altri c. Paesi Bassi” del 1976 e la sentenza
“Orturk c. Germania” del 1984).

Nel merito, la difesa osserva che la sentenza
impugnata aveva omesso di considerare che la D.L. non aveva mai mantenuto una
stabile mansione all’interno dell’azienda, avendo manifestato in più
circostanze problemi di salute che non avevano consentito di individuare per
lei una collocazione idonea, tanto più alla luce delle limitazioni allo
svolgimento del lavoro per lei riscontrate.

Infine, la difesa lamenta il mancato riconoscimento
delle attenuanti generiche, che avrebbero potuto essere concesse in considerazione
del corretto contegno processuale di D.A., il quale, oltre ad aver adempiuto
alle prescrizioni impostegli, si era sottoposto ad esame, chiarendo ogni
aspetto della vicenda.

 

Considerato in diritto

 

Premesso che l’impugnazione proposta (appello) deve
essere convertita in ricorso per cassazione, avendo la sentenza impugnata
condannato l’imputato alla sola pena dell’ammenda, deve osservarsi che la
predetta impugnazione è inammissibile, perché manifestamente infondata.

1. In via preliminare, deve osservarsi che la
valutazione sulla sussistenza della fattispecie per cui si procede non appare
suscettibile di essere messa in discussione in questa sede, non solo per gli
evidenti limiti di autosufficienza dell’impugnazione nel richiamo a elementi
probatori il cui contenuto non è stato riportato, ma anche e soprattutto perché
il Tribunale, nella ricostruzione delle singole condotte addebitate
all’imputato, non tutte ritenute penalmente rilevanti, ha compiuto
un’esauriente disamina delle fonti dimostrative acquisite, valorizzando in
particolare, per quanto concerne la fattispecie de qua, le verifiche compiute
nel dicembre 2014 dal Dipartimento di prevenzione di Civitavecchia all’indomani
della denuncia di malattia professionale presentata da P.D.L., dipendente della
società I. s.r.l., amministrata da F.D.A..

In sede ispettiva, veniva accertato in particolare
che la D.L., assunta con le mansioni di addetta al magazzino e carrellista, non
aveva ricevuto un’adeguata formazione, risalendo al 2008 l’attestato di formazione
ad essa relativo.

L’obbligo di aggiornamento formativo (parametrato in
5 anni dall’accordo del 21 dicembre 2011 tra Ministero del Lavoro, Ministero
della Salute, Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano) era stato dunque
violato, per cui legittimamente è stata ritenuta ravvisabile la violazione
sanzionata dagli art. 37 comma 1
e 55 comma 5 lett. C) del d.lgs.
n. 81 del 2008, dovendosi solo aggiungere che l’assegnazione di mansioni
diverse alla dipendente D.L., lungi dall’avere natura esimente, rendeva in
realtà ancor più stringente l’esigenza di assicurare alla stessa un’attenta
formazione sui rischi connessi all’attività svolta.

Ciò posto, occorre rilevare che, una volta
riscontrata la violazione contestata al capo C, l’ufficio ispettivo dell’AsI
Roma F, con verbale del 30 gennaio 2015, notificato all’interessato in pari
data, ha tra l’altro impartito al datore di lavoro la prescrizione di garantire,
nei successivi 10 giorni, alla dipendente P.D.L. una formazione adeguata
rispetto alle mansioni svolte o da svolgere, con la precisazione che
l’eliminazione delle violazioni accertate era il presupposto per l’ammissione
al pagamento di una sanzione amministrativa, dal cui tempestivo versamento (da
operare entro 30 giorni dalla data di ammissione al pagamento) sarebbe
scaturita l’estinzione della contravvenzione, secondo lo schema procedimentale
delineato dall’art. 24 del d. Igs. n. 758 del 19 dicembre 1998 (ndr art. 24 del d. Igs. n. 758 del 19
dicembre 1994). L’imputato, dunque, è stato messo in condizione di
comprendere perfettamente il peculiare meccanismo estintivo del reato previsto
dalla normativa in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, per cui, a
fronte di chiara illustrazione in sede ispettiva dei presupposti necessari per
scongiurare l’avvio del procedimento penale, alcun vulnus conoscitivo appare
ravvisabile in danno di D.A..

Del resto, dalla stessa impugnazione si evince che
l’attività formativa è stata assicurata alla dipendente solo nel maggio 2015
(oltre quindi il termine di 10 giorni fissato dal personale dell’AsI) e,
soprattutto, la difesa non ha dimostrato l’avvenuto versamento della sanzione
amministrativa, per cui l’esercizio dell’azione penale appare riconducibile
solo al mancato compimento da parte dell’interessato delle iniziative idonee a
consentire l’estinzione del reato.

Sotto tale profilo, peraltro, oltre a doversi escludere
lesioni del diritto di difesa in punto di inevitabilità dell’errore, appaiono
altresì inconferenti le censure in ordine alla presunta violazione del
principio del ne bis in idem, atteso che il meccanismo prefigurato dal d. Igs. n. 758 del 1994, proprio alla luce della
richiamata esigenza di assicurare l’effettività dell’osservanza delle cautele
preventive in tema di sicurezza sul lavoro, è volto proprio a evitare
duplicazioni punitive, prevedendosi, anche in un’ottica deflattiva, la
possibilità di evitare l’inizio del procedimento penale, nel caso in cui siano
rispettate dal trasgressore le prescrizioni impartite e sia di seguito operato
dall’interessato il versamento della sanzione pecuniaria.

2. In definitiva, il giudizio di colpevolezza
dell’imputato in ordine al reato a lui contestato al capo C non presta il
fianco alle censure difensive, che invero si risolvono o nella proposta di una
rilettura alternativa del materiale probatorio, non consentita in questa sede, a
fronte di un percorso argomentativo della sentenza impugnata razionale e
coerente con le prove acquisite, o comunque nella segnalazione di asseriti
profili critici di una disciplina di settore che, in realtà, non comporta in sé
alcuna forma di compromissione del diritto di difesa.

3. Anche rispetto al diniego delle attenuanti
generiche, infine, la pronuncia impugnata resiste alle obiezioni difensive,
avendo il giudice monocratico sottolineato al riguardo l’assenza di aspetti
meritevoli di positiva considerazione, rimarcando altresì le precedenti
condanne annoverate da D.A. nel suo certificato penale, non potendosi
sottacere, in ogni caso, che il Tribunale ha optato per la sanzione pecuniaria
in luogo di quella detentiva, fissando la pena in misura pari al minimo
edittale (euro 1.200 di ammenda), per cui deve escludersi che il trattamento
sanzionatorio sia stato ispirato da criteri di particolare rigore.

4. Alla stregua delle considerazioni svolte,
l’impugnazione proposta nell’interesse di D.A., previa conversione in ricorso
per cassazione, deve essere dichiarata inammissibile, con conseguente onere per
il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc.
pen., di sostenere le spese del procedimento.

Tenuto conto infine della sentenza
della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000 e considerato che non
vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza
“versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata
in via equitativa, di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

 

P.Q.M.

 

Qualificata l’impugnazione come ricorso per
cassazione, lo dichiara inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle
Ammende.

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