Alla scadenza del periodo di comporto il datore di lavoro che abbia riammesso in servizio il lavoratore può risolvere il rapporto di lavoro anche dopo aver lasciato trascorrere un considerevole periodo di tempo.
Nota a Cass. 11 settembre 2020, n. 18960
Flavia Durval
Il requisito della tempestività del recesso, una volta scaduto il periodo di comporto per malattia “non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce oggetto di una valutazione di congruità … che il giudice di merito deve operare caso per caso, con riferimento all’intero contesto delle circostanze significative”.
È quanto afferma la Corte di Cassazione (11 settembre 2020, n. 18960, conforme ad App. Reggio Calabria, n. 142/2017), la quale precisa che:
a) è compito del lavoratore provare che l’intervallo temporale tra il superamento del periodo di comporto e la comunicazione di recesso ha superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, evidenziando una volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto;
b) diversamente dal licenziamento disciplinare, che postula l’immediatezza del recesso a garanzia della pienezza del diritto di difesa all’incolpato, nel licenziamento per superamento del comporto, “l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con quello del datore di lavoro a disporre di un ragionevole ‘spatium deliberandi’, in cui valutare convenientemente la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di sostenibilità delle sue assenze in rapporto agli interessi aziendali”;
c) il giudizio sulla tempestività del recesso non può basarsi su una rigida applicazione di criteri cronologici prestabiliti, ma si concretizza in una valutazione di congruità che il giudice deve compiere caso per caso, alla luce di ogni circostanza significativa (cfr. Cass. 12 ottobre 2018, n. 25535 e anche Cass. 28 marzo /2011, n. 7037);
d) il datore di lavoro, in mancanza di un obbligo contrattuale in tal senso, non è tenuto a comunicare al lavoratore l’approssimarsi del compimento del comporto ovvero ad indicare strumenti alternativi all’assenza per malattia.
Nella fattispecie sottoposta al giudizio della Cassazione, la Corte di merito aveva chiaramente esplicitato che il tempo trascorso tra il formale compimento del periodo di comporto ed il licenziamento “non era significativo di una volontà tacita, manifestata per fatti concludenti, di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto ma era piuttosto finalizzato a verificare in concreto l’esistenza di margini residui di persistente utilizzabilità della prestazione con un equilibrato bilanciamento dei concorrenti interessi delle parti”.
In particolare, il tempo trascorso tra la maturazione del periodo di comporto e l’intimazione del licenziamento era giustificato dalla volontà della datrice di lavoro di “verificare la compatibilità della malattia con la prosecuzione dell’attività che, tuttavia, per effetto dell’ulteriore assenza di due mesi dovuta alla medesima malattia, era poi apparsa definitivamente compromessa”. In sintesi, perciò, l’attesa nel recedere era stata giustificata dalla verifica delle modalità di esercizio dell’attività lavorativa.