Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 settembre 2020, n. 20915

Rapporto di lavoro, Differenze retributive, Livello di
conoscenze richiesto al dipendente, Capacità di svolgere tutte le fasi del
processo, garantendo la qualità del risultato

 

Ritenuto

 

1. Che la Corte d’Appello di Roma, con la sentenza
n. 11096 del 2013, depositata il 7 marzo 2014, in parziale accoglimento
dell’appello proposto da F.R. nei confronti dell’INAIL, e in parziale riforma
della sentenza impugnata, dichiarava il diritto della lavoratrice a percepire
le differenze retributive tra il trattamento spettante per l’inquadramento in
C1 del CCNL Enti pubblici economici e quello percepito a decorrere dal febbraio
1999 e fino alla domanda di primo grado, oltre interessi legali a decorrere
dalla maturazione dei singoli crediti al saldo.

2. La Corte d’Appello, dopo aver ripercorso la
declaratoria contrattuale relativa al profilo C1 e quella relativa all’area B,
ha posto in evidenza che gli elementi principali di distinzione tra le suddette
declaratorie contrattuali attengono alla competenza allo svolgimento di alcune
fasi del processo produttivo per il personale area B, e allo svolgimento
dell’intero processo per il personale di area C. Ha chiarito, quindi, che il
processo produttivo non poteva identificarsi con l’intera e complessa gamma dei
prodotti gestiti ed offerti dall’INAIL.

Il giudice di appello ha affermato che dalle
testimonianze, a differenza di quanto aveva ritenuto dal Tribunale, risultava
che la lavoratrice aveva atteso a tutte le attività relative al processo
produttivo cui era adibita (gestione aziendale), e non a singole parti, salva
la validazione degli atti conclusivi.

Né, da tale ultima circostanza poteva farsi
discendere l’esclusione della responsabilità del risultato dell’attività,
atteso che la responsabilità prevista dalle declaratorie contrattuali ha
diversa ampiezza e diversi livelli.

3. Per la cassazione della sentenza di appello
ricorre l’INAIL prospettando quattro motivi di ricorso.

4. Resiste la lavoratrice con controricorso.

 

Considerato

 

1. Che con il primo motivo di ricorso l’INAIL
denuncia, ex art. 360 n. 5, cod. proc. civ., il
vizio di omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati
oggetto di discussione fra le parti; inesistenza della motivazione per
relationem per omessa considerazione di tutte le circostanze dedotte con il
gravame.

L’Istituto sostiene, in sintesi, che il richiamo
alla motivazione di altra decisione in tanto può essere ritenuto conforme all’obbligo
imposto dall’art. 132, comma 2, n. 4, cod. proc.
civ., in quanto il giudice di appello esprima, sia pure in modo sintetico,
le ragioni della conferma della sentenza impugnata in relazione ai motivi di
impugnazione proposti.

Nel caso di specie, al contrario, la Corte
territoriale non avrebbe fornito adeguata motivazione sulla valutazione della
prova testimoniale con riferimento alle mansioni svolte, al periodo di pretesa
assegnazione a compiti superiori, all’articolazione dei processi produttivi nei
quali si inseriva l’attività svolta dalle appellate.

2. Il motivo è inammissibile in quanto il ricorrente
non coglie la ratio decidendi della pronuncia che, pur richiamando un proprio
precedente, illustra le ragioni della decisione sia in relazione alle
declaratorie contrattuali che alle risultanze istruttorie, con riguardo alla
specifica fattispecie in esame.

Può, altresì, ricordarsi che, nel processo civile è
consentita la motivazione per relationem ad altri provvedimenti giudiziari e la
sentenza non può dirsi affetta da nullità qualora, attraverso il rinvio,
emergano in modo chiaro le ragioni della decisione (Cass. S.U. n. 642 del
2015).

3. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia
violazione o falsa applicazione dell’art.
13 del CCNL del comparto Enti pubblici non economici del 16.2.1999
(quadriennio 1998-2001), che ha previsto il nuovo sistema di classificazione
del personale, e dell’allegato A, declaratoria delle Aree, al medesimo
contratto. Violazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ., in relazione all’art. 3 del CCI
del 30 luglio 1999 e dell’allegato 1: profili professionali delle attività
amministrative, del medesimo C1 (art. 360, n. 3,
cod. proc. civ.)

Si sostiene che la Corte territoriale avrebbe
erroneamente interpretato le declaratorie generali delle categorie di
inquadramento e degli specifici profili professionali, senza prendere in
considerazione le declaratorie allegate al CCI, cui il contratto collettivo
rinvia, in particolare allegato 1 del CC1 di 30 luglio 1999.

4. Il motivo è inammissibile, in quanto si incentra
sul CC1 rispetto al quale il ricorrente non ha adempiuto l’onere di deposito
dello stesso.

In tema di giudizio per cassazione, la possibilità
di valutare la conformità alla legge e al CCNL del settore pubblico di un
contratto integrativo – che non può, come tale, essere direttamente
interpretato in sede di legittimità – è condizionata alla specifica produzione
e indicazione di quest’ultimo quale contratto su cui si fonda il ricorso,
atteso che lo stesso, stipulato dalle amministrazioni pubbliche sulle singole
materie, nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, se pure
applicabile al territorio nazionale in ragione della P.A. interessata, ha una
dimensione decentrata rispetto al comparto e non è pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica italiana, ai sensi dell’art. 47, comma 8, del d.lgs.
n. 165 del 2001 (Cass., n. 7981 del 2018).

5. Con il terzo motivo di ricorso si censura la
sentenza per falsa applicazione dell’allegato A: declaratoria delle aree del
CCNL comparto Enti pubblici non economici del 16 febbraio 1999 (quadriennio
1998-2001), così come integrato dall’allegato 1: profili professionali delle
attività amministrative del contratto integrativo del 30 luglio 1999 (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).

Il ricorrente dopo aver richiamati la declaratoria
delle aree e dei profili professionali espone che la Corte territoriale avrebbe
errato nel ritenere rilevante ai fini della distinzione tra le due aree il
requisito della responsabilità, posto che quest’ultimo caratterizza solo talune
specifiche figure ordinamentali inquadrate nella posizione economica C3, e non
costituisce un elemento discretivo determinante per l’inquadramento in CI
anziché in B2 o B3. Aggiunge che i due profili che vengono qui in rilievo si
distinguono in relazione alla competenza a svolgere l’intero processo (area C)
o solo talune fasi dello stesso (area B), ed al più elevato contenuto
professionale nonché al maggior grado di discrezionalità che caratterizzano le
attività svolte dal personale di area C.

Si deduce che il personale inquadrato nella
posizione B2/B3, come l’odierna resistente, svolge fasi o fasce di attività
nell’ambito di direttive di massima e di procedure predeterminate, ovvero con
un limitato grado di autonomia, mentre il personale dell’area C è competente a
svolgere tutte le fasi di tutto il processo, assume la responsabilità di moduli
organizzativi ed esplica funzioni specialistiche.

6. Il terzo motivo di ricorso non è fondato.

Va premesso che lo stesso, benché richiami il CC1,
che non è stato depositato, si incentra sulle declaratorie del CCNL, e dunque
supera il vaglio di ammissibilità.

Preliminarmente, rileva il Collegio che fattispecie
analoga a quella ora in esame è stata decisa dalla sentenza n. 8683 del 2018,
ai cui principi, di seguito riportati, si intende dare continuità.

Nella citata sentenza, in particolare, si è
affermato che il CCNL 16 febbraio 1999 per i
dipendenti del comparto enti pubblici non economici inserisce nell’area B il
personale «strutturalmente inserito nel processo produttivo» che svolge «fasi o
fasce di attività nell’ambito di direttive di massima e di procedure
predeterminate attraverso la gestione delle strumentazioni tecnologiche»,
valuta i casi concreti, interpreta le istruzioni operative e «risponde dei
risultati secondo la posizione rivestita».

La declaratoria allegata al contratto precisa, poi,
che la posizione B2 presuppone una «effettiva capacità di controllo delle fasi
e/o attività del processo in sintonia con il complesso dell’ambiente operativo;
attitudini di problem solving con riferimento alla linea operativa; capacità di
reperire le informazioni necessarie per le attività da svolgere e di operare
con l’impiego delle strumentazioni informatiche e telematiche».

All’area C appartiene, invece, il personale
«competente a svolgere tutte le fasi del processo» che opera «a livelli di
responsabilità di diversa ampiezza secondo lo sviluppo del curriculum», e,
quindi, differenziata in ragione della pluralità di ruoli organizzativi, di
tipo sia gestionale (operatore di processo, facilitatore di processo,
responsabile di processo, responsabile di struttura) che professionale (esperti
di progettazione, specialisti di organizzazione).

La posizione CI presuppone «conoscenze ed esperienze
idonee ad assicurare la capacità di gestire regolare i processi di produzione;
attitudini al problem solving rapportate al particolare livello di
responsabilità; capacità di operare orientando il proprio contributo all’ottimizzazione
del sistema, contribuendo al monitoraggio della qualità; capacità di gestire le
varianze del processo in funzione del cliente». L’area C, quindi, si
caratterizza rispetto a quella inferiore, oltre che per il diverso livello di
conoscenze richiesto al dipendente, per la capacità di quest’ultimo di svolgere
tutte le fasi del processo, garantendo la qualità del risultato e con
assunzione di responsabilità che, seppure graduata con riferimento allo
sviluppo professionale all’interno dell’area stessa, è elemento richiamato in
tutti i profili. Al contrario il personale dell’area B, il quale esegue fasi di
attività nell’ambito di direttive di massima e di procedure predeterminate, si
limita a «rispondere dei risultati secondo la posizione rivestita», circoscritta
alla singola fase, nell’ambito della quale è tenuto solo ad «orientare il
contributo professionale ai risultati complessivi del gruppo».

Il giudice di appello, facendo corretta applicazione
dei suddetti principi, ha interpretato correttamente le disposizioni
contrattuali relative all’area B e all’area C, laddove ha escluso che la
competenza a svolgere tutte le fasi di tutto il processo richiedesse
l’effettivo svolgimento di tutte le fasi del processo, e ha accolto la domanda
atteso che la lavoratrice svolgeva tutte le attività relative al processo
produttivo “gestione aziendale” cui era adibita, seguendo le singole
lavorazioni fino alla cd. validazione o al corrispondente atto formale di
assunzione di responsabilità verso l’esterno da parte del funzionario C3 o del
dirigente, di cui all’area C, posizione C1.

7. Con il quarto motivo di ricorso è dedotto il
vizio di omessa pronuncia in violazione dell’art.
112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360,
n. 4, cod. proc. civ.

Il ricorrente si duole che la Corte d’Appello non
avrebbe pronunciato in merito all’eccezione di prescrizione sollevata sin da
primo grado di giudizio.

8. Il motivo è inammissibile.

Ed infatti, come questa Corte ha già affermato
(Cass. n. 86 del 2012), il principio di specificità del ricorso per cassazione
– che trova la propria ragione d’essere nella necessità di consentire al
giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover
procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte – vale anche in
relazione ai motivi di appello rispetto ai quali si denuncino errori da parte
del giudice di merito; ne consegue che, ove il ricorrente denunci l’omessa
pronuncia su un motivo di appello, deve riportare nel ricorso, nel suo impianto
specifico, il predetto motivo, nonché le statuizioni di primo grado oggetto di
censura.

Anche laddove vengano denunciati con il ricorso per
cassazione “errores in procedendo”, in relazione ai quali la Corte è anche
giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti
processuali del fascicolo di merito, si prospetta preliminare ad ogni altra
questione quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini
in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata
la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza
del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima
valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame
ed all’interpretazione degli atti processuali (Cass., n. 12664 del 2012).

Nella specie, il ricorrente richiama la
giurisprudenza di legittimità sulle norme processuali che assume lese, ma non
le attualizza in relazione alle eccezioni formulate in primo grado, e poi in
appello in relazione all’impugnazione della lavoratrice, che non sono
riprodotte, così come le statuizioni della sentenza di primo grado, limitandosi
l’Ente a indicare le pagine degli atti difensivi che le conterrebbero, senza riprodurne
ed illustrarne gli argomenti, in modo da evidenziare la prospettata omissione.

9. La Corte dichiara inammissibili il primo il
secondo e il quarto motivo di ricorso.

Rigetta il terzo motivo.

10. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese
di giudizio come liquidate in dispositivo.

11. Ai sensi del dPR n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 -quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 -bis, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

La Corte dichiara inammissibili il primo il secondo
e il quarto motivo di ricorso. Rigetta il terzo motivo. Condanna il ricorrente
al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 5.000,00 per compensi
professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15%
e accessori di legge.

Ai sensi del dPR n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 -quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 -bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 settembre 2020, n. 20915
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: