Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 05 ottobre 2020, n. 21315

Svolgimento di funzioni non rientranti nei contratti stipulati
tra la P.A. e il datore di lavoro formale, Inserimento dell’organizzazione
degli uffici e svolgimento del lavoro sulla base di direttive provenienti
esclusivamente dal personale del Ministero, Accertamento dell’esistenza di un
rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, Disposizioni di legge
che limitano o escludono la facoltà delle Amministrazioni di assumere personale,
senza le formali e pubbliche procedure prescritte

 

Rilevato che

 

1. L.A. ha convenuto in giudizio, innanzi al
Tribunale di Roma, il Ministero della Giustizia e D.S. spa (poi B. Team s.p.a.,
ora BE, Think, S., E. s.p.a.), esponendo, in sintesi, di essere stato assunto
alle dipendenze di D.S. prestando lavoro in diversi uffici giudiziari presso il
Ministero della Giustizia, nello svolgimento di funzioni non rientranti nei
contratti stipulati tra la P.A. e il datore di lavoro formale, continuando a prestare
ininterrottamente l’attività lavorativa anche oltre le relative scadenze
contrattuali, il tutto con inserimento dell’organizzazione degli uffici e
svolgimento del lavoro sulla base di direttive, istruzioni ed ordini
provenienti esclusivamente dal personale del Ministero; egli insisteva quindi
perché fosse accertata:

– nella vigenza della legge
n. 1369 del 1960, la sussistenza di un’ipotesi vietata di manodopera e, per
il periodo di vigenza del d. Igs. n. 276 del 2003,
la sussistenza di un appalto non genuino o di somministrazione di lavoro
fraudolenta o irregolare;

– per effetto di ciò, la sussistenza di un rapporto
di lavoro subordinato con il Ministero della Giustizia, a decorrere dalla prima
data di assegnazione agli Uffici giudiziari, con condanna dei Ministero
all’inquadramento secondo la disciplina del CCNL
del Comparto Ministero e alla regolarizzazione contributivo- previdenziale,
nonché condanna di entrambi i convenuti in solido al pagamento di tutte le
differenze retributive correlate all’applicazione del CCNL comparto Ministeri, a far data dalla
costituzione del rapporto di lavoro;

in via subordinata, il ricorrente chiedeva:

– l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di
collaborazione coordinata e continuativa con il Ministero e il diritto alla
costituzione di un rapporto di lavoro con il Ministero ovvero a vedersi
riservata una quota pari al 60% dei posti nelle assunzioni che in futuro il
Ministero avesse effettuato;

– in ogni caso, la condanna dei convenuti al
risarcimento del danno per mancata costituzione del rapporto di lavoro in
misura pari alla differenza tra le retribuzioni spettanti al dipendente del Ministero
inquadrato nel livello B2 ovvero nel livello B1 del CCNL
Comparto Ministero;

Il Tribunale di Roma respinse le domande e la Corte
di Appello di Roma, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la
sentenza di primo grado;

la Corte territoriale ha:

– ritenuto infondato l’assunto del lavoratore
secondo cui, essendo la domanda volta all’inquadramento nell’area B, la regola
della necessità del pubblico concorso, di cui all’art.
97 della Costituzione e agli artt. 35 e 36 del d.lgs. 165
del 2001, poteva ritenersi derogata dalla L. n.
56 del 1987 e tanto sul rilievo che la legge n.
56 disciplina procedure eccezionali di selezione, tassativamente previste
in presenza di presupposti fissati ex lege, sulla base di determinate
graduatorie, procedure che non possono trovare applicazione al di fuori dei
casi espressamente disciplinati;

– richiamato la sentenza della Corte Costituzionale n. 89 del 2003, ritenendo che
l’assunzione alle dipendenze della P.A. può avvenire solo nel rispetto della
regola del pubblico concorso, imposta dall’art. 97
della Costituzione e dall’art. 35 del d.lgs. n. 165 del
2001;

– affermato che la conversione del contratto, come
regola generale prevista in caso di violazione di norme imperative di cui all’art. 1 della L. 1369 del 1960 e all’art. 27 c. 1 del d. Igs n. 276 del
2003, non è applicabile al pubblico impiego, ostandovi la disposizione contenuta
nell’art. 36 del D. Lgs. n.
165 del 2001 ed ha osservato che l’art. 86 co. 9 del d. lgs. n. 276 del
2003 esclude la applicabilità della sanzione della conversione prevista
dall’art. 21 c. 4 (recte 27 c.
1) alle Pubbliche Amministrazioni;

– richiamato i principi affermati da questa Corte
con la sentenza n. 12964/2008;

– ritenuto irrilevante la questione di illegittimità
costituzionale dell’art. 1 della L. n. 1369 del
1960, dell’art. 10 della L.
n. 196 del 1997, degli artt.
35 e 36 del d. lgs. n. 165 del 2001, dell’art. 6 della L. n. n. 30 del 2003,
degli artt. 1 c. 2 e dell’art. 29 c. 3 bis, dell’art. 86 c. 9 del d. lgs. n. 276 del
2003, nella parte in cui escludono che la violazione di norme imperative
riguardanti l’assunzione e l’impiego di lavoratori da parte delle pubbliche
amministrazioni comporti la costituzione di un rapporto di lavoro con queste
ultime anche ove si tratti di qualifiche per le quali non è obbligatorio
l’accesso per pubblico concorso, sul rilievo che la fattispecie dedotta in
giudizio non rientrava tra le ipotesi per le quali non è richiesto l’accesso
mediante pubblico concorso;

– ritenuto infondata la domanda di risarcimento del
danno patrimoniale in misura pari alle differenze retributive tra quanto spettante
secondo il C.C.N.L. Ministeri e quanto in
concreto ricevuto durante il rapporto di lavoro, non avendo il ricorrente
neppure indicato quanto fosse stato da lui percepito;

il ricorrente ha impugnato per cassazione la predetta
sentenza con nove motivi, poi illustrati da memoria;

Be Think ha resistito con controricorso, mentre il
Ministero ha depositato soltanto atto di costituzione, le cui copie si
riferiscono a tale Anna Vari, mentre l’originale nel fascicolo di parte riguarda
correttamente L.A.;

 

Considerato che

 

con il primo motivo il ricorrente adduce, ai sensi
dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e
falsa applicazione degli artt. 1
della L. n. 1369/1960, della L. n. 196/197,
del D. Lgs. n. 276/2003, degli artt. 35 e 36 del d. lgs. n.
165/2001, della L. n. 57/1987, in relazione
all’art. 97 Cost., degli artt. 112 e 113 c.p.c.
anche in relazione alla L. n. 56/1987;

con il secondo motivo è invece dedotta l’omessa
considerazione di un fatto decisivo (art. 360 n. 5
c.p.c.) in merito all’impossibilità di costituzione di un rapporto di
lavoro subordinato alle dipendenze del Ministero della Giustizia, sulla base
dell’affermazione apodittica che la L. 56/1987
fisserebbe procedure eccezionali non applicabili al di fuori dai casi
tassativamente previsti e sulla base dell’esclusione, in forza di motivazione
insufficiente, dell’applicabilità al caso di specie della sanzione della
conversione prevista dall’art. 29
d. lgs. 276/2003;

con il terzo motivo è addotto “error in
procedendo” (art. 360 n. 4 c.p.c.) in
relazione agli artt. 132 c.p.c.e 118 disp. att. c.p.c., con
nullità della sentenza, insufficiente ed incongrua esposizione delle ragioni di
fatto e di diritto in punto di esclusione dell’applicabilità della regola
generale della conversione del rapporto, di tassatività delle ipotesi previste
dalla L. 56/1987, di esclusione della
applicabilità della sanzione di cui all’art. 29 del d. lgs. 276/2003;

i motivi sopra indicati, riguardando tutti la
questione sul riconoscimento, se del caso previa conversione, di un rapporto di
lavoro subordinato con il Ministero, possono essere esaminati assieme e sono da
disattendere;

quanto al terzo motivo, si osserva come l’anomalia
motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante,
integra un error in procedendo che comporta la nullità della sentenza solo nel
caso di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e
grafico”, di “motivazione apparente”, di “contrasto
irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, di “motivazione
perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass.
SS.UU n. 8053 e n. 8054 del 2014), quest’ultima ravvisabile nei soli casi
in cui la sentenza non renda percepibili le ragioni della decisione, perché
tale da consistere in argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere
l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non
consenta alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del
ragionamento del giudice” (Cass. SS.UU. n. 22232 del 2016);

ipotesi che, nel caso di specie e rispetto ai
profili giuridici coinvolti dai motivi qui in esame, non ricorre, avendo la
Corte territoriale motivato, nei termini riepilogati nell’ambito della
narrativa processuale, le ragioni delle proprie decisioni;

il secondo motivo è inammissibile perché le censure,
per essere correlate a questioni giuridiche (affermata impossibilità della
costituzione di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze del Ministero
della Giustizia), esorbitano dal perimetro del vizio di cui all’art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c. che, nel testo
applicabile ratione temporis (la sentenza impugnata è stata pubblicata il 1
ottobre 2012), prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione
“per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato
oggetto di discussione tra le parti” (Cass.
SSUU n. 8053 e n. 8054 del 2014);

come già ritenuto da Cass. 17 gennaio 2019, n. 1200
e Cass. 8 ottobre 2019, n. 25169, rese in controversie analoghe alla presente,
le cui motivazioni sul punto vanno qui ribadite perché condivise, sono altresì
infondate le censure, formulate nel primo motivo, con le quali il ricorrente
addebita alla Corte territoriale, ai sensi dell’art.
360 c. 1 n. 3 c.p.c., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1 della L. n. 1369 del 1960, della L. n. 196 del 1997, delle disposizioni contenute
nel d. Lgs. n. 276 del 2003, degli artt. 35 e 36 del d. Lgs. n.
165 del 2001, della L. n. 56 del 1987; il
divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro,
sancito dalla legge 23 ottobre 1960, n. 1369
(nel testo vigente ratione temporis), trova applicazione anche nel caso in cui
il rapporto intercorra con enti pubblici economici, in relazione alle sole
attività che presentino, per i loro contenuti sostanziali, carattere
imprenditoriale; pertanto le disposizioni che stabiliscono detto divieto, e le
relative conseguenze, non sono applicabili alle Amministrazioni dello Stato non
organizzate in forma di azienda, quali il Ministero della Giustizia, che restano
soggette alle disposizioni di legge che limitano o escludono la facoltà delle
Amministrazioni di assumere personale, senza le formali e pubbliche procedure
prescritte dal legislatore ed imposte dall’art. 97
Cost. (Cass. n.28260 del 2017, n. 20314 del 2015, n.
11383 del 2014, n. 6351 del 2013, n. 15783
del 2004, n. 5800 del 1985, n. 7110 del 1986); l’art. 1 c. 2 del d.lgs 10 settembre
2003 n. 276, nel prevedere che “il presente decreto non trova
applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale” è
chiaro nell’individuare il destinatario della esclusione, riferita all’intero
decreto, innanzitutto nell’ente pubblico (Cass. n. 9741 del 2018, n. 20327 del
2017); né la costituzione di un rapporto di lavoro in capo al Ministero può
ammettersi ai sensi degli artt. 20
e 27 del D. Lgs 276/2003,
posto che l’art. 86 c. 9 del D.
Lgs. 276 del 2003 dispone espressamente che la previsione della
trasformazione del rapporto di lavoro di cui all’articolo 27, comma 1, non trova
applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni (Cass. 6394/2017);

l’art.
16 della L. 28 febbraio 1987, n. 56 è stato sostanzialmente trasfuso nel d.lgs. 29 febbraio 1993, n. 29,
art. 36, prò parte, poi recepito dall’attuale del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165,
art. 35, il quale testualmente prevede che «l’assunzione nelle
amministrazioni pubbliche avviene con contratto individuale di lavoro: a)
tramite procedure selettive, conformi ai principi del comma 3, volte
all’accertamento della professionalità richiesta, che garantiscano in misura
adeguata l’accesso dall’esterno; b) mediante avviamento degli iscritti nelle
liste di collocamento ai sensi della legislazione vigente per le qualifiche e
profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo,
facendo salvi gli eventuali ulteriori requisiti per specifiche professionalità»
(comma 1);

l’art.
35 del richiamato d. lgs. n. 165 del 2001 nella parte in cui prevede che le
assunzioni di alcune categorie di pubblici dipendenti possano avvenire mediante
espletamento di procedure selettive, o mediante avviamento dei soggetti
iscritti nelle liste di collocamento, rappresenta solo una semplificazione
dello strumento tecnico (il pubblico concorso), ma non il superamento delle
esigenze di trasparenza ed imparzialità insite nel concetto di concorsualità e
imposte dall’art. 97 della Costituzione (Corte
Costituzionale n. 159 del 2005);

a tanto consegue che le assunzioni nella P.A.
mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento per le
qualifiche e i profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola
dell’obbligo (art. 35 del
d.lgs. n. 165 del 2001), vanno effettuate nel rispetto della graduatoria
risultante dalle liste delle circoscrizioni territorialmente competenti, avuto
riguardo agli iscritti alla prima classe delle liste medesime, secondo quanto
precisato dalla L. n. 56 del
1987, art. 10, comma 1, lett. a) e cioè lavoratori disoccupati o in cerca
di prima occupazione, ovvero lavoratori con occupazione temporanea subordinati
o autonomi (Cass. SSUU n. 4685 del 2015; Cass. nn. 12961/2008, 19108/2003);

ancora Cass. 1220/2019 e Cass. 25169/2019, citt.,
sottolineano, ed è qui condiviso al fine di rispondere alla questione di
legittimità costituzionale prospettata, come non sussista alcun contrasto fra
l’art. 1, comma 2, d. Igs.
276/2003 e la legge delega 14
febbraio 2003, n. 30 perché l’art. 1 c. 1 del decreto delegato, nel
disporre che “Il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche
amministrazioni e per il loro personale” si limita ad esplicitare ciò che
era già contenuto nell’art. 6 della
L 30/2003, che aveva disposto che le disposizioni contenute negli articoli
da 1 a 5 non si applicano al personale delle pubbliche amministrazioni ove non
siano espressamente richiamate;

né è ravvisabile alcun contrasto delle disposizioni
contenute nell’art. 1 della L. 1369/1960,
nell’art. 10 della L. 196/1997,
negli artt. 35 e 36 del d.
Igs. 165/2001, negli artt. 1
c. 2, 29 c. 3 bis, 86 c. 9 del d. Igs. 276/2003,
avuto riguardo ai principi affermati dalla Corte Costituzionale e gli artt. 3 e 97 della
Costituzione (Corte Costituzionale C. Cost. nn. 180/2015, 134/2014, 277/2013, 217/2012,
310/2011, 9/2010,
293/2009, 215/2009,
81/2006, 190/2005, 159/2005);

con il quarto motivo il ricorrente afferma la
violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 n. 4 c.p.c.) per omessa pronuncia sulla
domanda volta alla condanna dei convenuti al pagamento delle differenze
retributive ed alla regolarizzazione contributiva, anche ai sensi dell’art. 2126 c.c.;

il motivo è infondato, in quanto la pronuncia della
Corte territoriale non può essere intesa nel senso di avere omesso di decidere
sulla questione relativa al pagamento delle retribuzioni per l’attività che, di
fatto ed a prescindere dalla possibilità giuridica di costituire un valido
rapporto di lavoro formale, sarebbe stata svolta con modalità subordinate in
diretta dipendenza dal Ministero;

la pronuncia di appello va viceversa intesa come
tale da aver ricompreso la reiezione di tale pretesa nella complessiva
pronuncia di rigetto delle domande patrimoniali di differenze retributive,
quale che fosse il titolo giuridico esatto di esse, per essere mancata
sufficiente prova del perceptum;

il fatto che tale assimilazione comporti un errore
rispetto alla domanda ex art. 2126 c.c., per
quanto si dirà subito di seguito rispetto al quinto motivo, nulla ha a che vedere
con il vizio di omessa pronuncia, che erroneamente è stato quindi posto a
fondamento del motivo qui in esame;

in effetti il quinto motivo, adducendo la violazione
e falsa applicazione dell’art. 2126 c. c. in
relazione all’art. 2697 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c.,
dell’art. 2697 c.c. in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c.
ed agli artt. 414, 421, 437, 345 c.p.c.e omessa valutazione delle prove
documentali con riferimento alla domanda volta al pagamento delle differenze
retributive per le prestazioni di fatto rese alle dipendenze del Ministero, è
in sé fondato nella parte in cui imputa alla sentenza impugnata in via diretta,
e non per il tramite dell’omessa pronuncia, l’errore di diritto
nell’applicazione del predetto art. 2126 c.c.;

in primo grado, il ricorrente ha agito insistendo
per il riconoscimento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con il
Ministero, in ragione dell’illegittima interposizione o somministrazione da
parte del proprio formale datore di lavoro e dello svolgimento di fatto delle
prestazioni alle dipendenze dirette di personale ministeriale anche al di là
delle previsioni dei contratti di fornitura di manodopera ed oltre il termine
finale degli stessi, con la consequenziale condanna del Ministero al pagamento
delle differenze retributive rispetto a quanto percepito dalla propria datrice
formale (D.S. s.p.a., ora BE s.p.a.);

appellando la pronuncia di rigetto del Tribunale, il
ricorrente ha censurato la sentenza di primo grado per non avere esaminato, pur
se il rapporto di lavoro formale non poteva essere riconosciuto, la domanda di
pagamento delle differenze retributive sub specie dell’art. 2126 c.c., in ragione dell’attività in
concreto svolta in un rapporto di fatto munito delle sembianze proprie della
subordinazione diretta con il Ministero; tale pretesa poteva essere fatta
valere con l’atto di appello, in quanto essa costituisce un minus ricompreso
nell’ambito della più ampia domanda dispiegata sui medesimi presupposti
fattuali;

la domanda di accertamento, in ragione delle
modalità di attuazione delle prestazioni, dell’esistenza di un rapporto di
lavoro con un certo datore di lavoro, si fonda, in fatto, sulla deduzione delle
predette modalità come tali da far ravvisare in capo ad una parte la posizione
datoriale ed in capo all’altra quella del lavoratore dipendente; l’effetto
giuridico del sorgere di un rapporto di lavoro dipendente con chi operi come
datore può poi essere ipotizzato quale conseguenza della fattispecie minima del
verificarsi, in sé solo, di tale relazione di fatto, come anche essere, nei
casi in cui si manifestino vicende di interposizione, da possibili invalidità
dell’interposizione o fornitura di manodopera o quant’altro;

se da tali fatti deriva il sorgere di un rapporto di
lavoro, le differenze retributive sono dovute quale effetto dello stesso;

se però da tali fatti, per divieti normativi che lo
impediscono, quel rapporto non sorge, la previsione dell’art. 2126 c.c. è essa stessa fonte del diritto al
trattamento retributivo dovuto per il lavoro in concreto prestato;

come già ritenuto da Cass. 25169/2019 cit., la
pretesa di riconoscimento di quest’ultimo diritto, quale conseguenza di quei
fatti storici, non introduce dunque elementi nuovi nel contraddittorio delle
parti, né altera la connotazione della causa petendi, ma solo ne valorizza un
unico aspetto minore (svolgersi di fatto della prestazione subordinata) che, in
diritto, secondo il principio iura novit curia, va soltanto giudizialmente
qualificato come tale da produrre l’effetto perseguito (differenze
retributive), in ragione del disposto della corrispondente norma che lo
prevede, ovverosia dell’art. 2126 c.c.;

caso diverso sarebbe quello in cui l’azione di
pagamento fosse stata intentata in ipotesi sull’esclusivo fondamento della
sottoscrizione di un contratto di lavoro, potendosi in tal caso sussistere un
disallineamento tra causa petendi originaria (esistenza di un formale
contratto) e fattispecie di cui all’art. 2126 c.c.
(attuazione della prestazione pur in assenza di un valido contratto o rapporto)
che non consentirebbe di ravvisare quella relazione tra allegazioni che sta a
fondamento della valutazione di continenza che fonda il decisum;

nel caso di specie l’intera causa petendi è stata
palesemente centrata sulle modalità di fatto di svolgimento del rapporto e
dunque non vi è ostacolo alla disamina della domanda di pagamento delle
retribuzioni ex art. 2126 c.c.;

ciò premesso, in analogia a quanto deciso da Cass.
25169/2019 cit., va affermata la fondatezza del quinto motivo, nella parte in
cui con esso si fa rilevare come, avendo l’azione ex art.
2126 c.c. natura non risarcitoria, il lavoratore è tenuto ad allegare e
provare i fatti costitutivi dello svolgimento delle prestazioni lavorative,
mentre spetta al datore di lavoro dimostrare quanto percepito in ragione della
medesima vicenda sostanziale;

si tratta di fare applicazione degli ormai risalenti
e più che consolidati principi generali per cui in tema di prova
dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per (…)
l’adempimento o che agisca deducendo anche solo l’inesatto adempimento «deve
soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto …, limitandosi
alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte,
mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto
estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento» (Cass.,
S.U. 30 ottobre 2001, n. 13533), poi applicati anche a vicende di ambito
lavoristico (v. ad es., in sostanza Cass. 27 marzo
2009, n. 7524, in tema di mansioni superiori); è del resto pacifico che
l’azione ex art. 2126 c.c. quale fonte di un’obbligazione
prevista direttamente dalla legge e non derivante (come è per la responsabilità
extracontrattuale da fatto illecito) dalla violazione del principio generale
del neminem laedere, ha titolo lato sensu contrattuale (secondo argomenti già
in parte desumibili da Cass., S.U. 26 giugno 2007,
14712) e natura retributivo-corrispettiva (Cass.
13 marzo 2018, n. 6046; Cass. 3 febbraio 2012,
n. 1639);

né ha rilievo il fatto che, in casi come quello di
specie, i pagamenti da detrarre provengano da un terzo, ovverosia dalla società
interposta;

infatti, nulla osta a che il debitore, al fine di
dimostrare il percepito, insti per le opportune esibizioni da parte del S.ns,
se del caso disponibili anche ex officio ai sensi degli artt. 421 o 437 c.p.c.
o attraverso il licenziamento di c.t.u. mirata, in occasione dell’incarico
inerente i corrispondenti calcoli, all’acquisizione anche dei documenti a ciò
necessari (Cass. 10 dicembre 2019, n. 32265), ferma altresì la possibilità di
ricorrere, ove se ne diano i presupposti di gravità, precisione e concordanza,
alla prova presuntiva, sempre per la deroga che l’art.
421 c.p.c. consente anche rispetto all’art.
2726 e 2729, co. 2, c.c.;

vanno invece disattesi, come già fu per analoghi
motivi proposti nella causa decisa da Cass. 25169/2019 cit., il sesto, il
settimo e l’ottavo motivo;

essi sono formulati con riferimento alla domanda
proposta “in ogni caso” di risarcimento del danno conseguente al
comportamento tenuto dalla P.A. in particolare, il sesto motivo afferma la
violazione e falsa applicazione dell’art. 36 del d. Igs. 165/2001,
anche in relazione agli artt. 2727, 2697 c.c. e agli artt.
115 e 116 c.p.c., violazione e falsa
applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., dell’art.
2697 c.c. in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art.
36 della Costituzione, nonché omessa ed errata valutazione delle prove
documentali in relazione alla domanda di risarcimento dei danni;

il settimo motivo, dedotto ai sensi dell’art 360 n. 5 c.p.c., assume invece l’omesso esame
di un fatto decisivo, avendo la Corte d’Appello deciso «su di una realtà
diversa da quella processualmente ricavabile dagli atti del giudizio» ed infine
l’ottavo motivo denuncia la violazione degli artt. 132 c.p.c.e 118 disp.
att. c.p.c. ed afferma la nullità della sentenza e l’insufficiente ed
incongrua esposizione delle ragioni di fatto e di diritto in punto di mancato
assolvimento dell’onere probatorio;

da un primo punto di vista, la sentenza di appello
ha disatteso le pretese risarcitone ritenendo che quanto afferente alla c.d. precarizzazione
fosse stato oggetto di deduzione assolutamente generica, senza contare che le
lavoratrici non avrebbero potuto vantare alcun diritto all’assunzione;

rispetto a tale profilo, il sesto motivo di ricorso
è parimenti del tutto generico, fondandosi sull’apodittica e non meglio
motivata affermazione secondo cui tale danno, come anche quello per le
differenze retributive perdute, sarebbe in re ipsa, il tutto senza reale
aggancio critico rispetto alla motivazione del giudice di merito, mancano dunque
i minimi estremi utili allo scrutinio di tale aspetto in sede di legittimità;

da altro punto di vista la Corte territoriale, pur
ritenendo fondato il rilievo del ricorrente secondo cui il trattamento
retributivo da prendere a riferimento avrebbe potuto essere acquisito anche
d’ufficio da parte del giudice, ha affermato che sarebbe difettata, nel caso di
specie, l’indicazione di quanto fosse stato già percepito nel corso del
rapporto di lavoro;

tale affermazione è corretta in fatto ed in diritto;

lo stesso ricorrente fa riferimento, per gli importi
percepiti, alle retribuzioni desumibili dalle buste paga, ma egli stesso, nel
riferirsi alla corrispondente produzione (n. 85) precisa (v. pag. 44 del
ricorso) che si trattava di una sola busta paga, come tale del tutto inidonea a
comprovare l’effettiva percezione di somme verificatasi nell’arco di tutto il
rapporto di lavoro;

pertanto, sul punto, la critica mossa alla sentenza
impugnata – che esprime una ben precisa motivazione, il che evidenzia
l’assoluta infondatezza anche dell’ottavo motivo con cui è addotta la
violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. – va
disattesa e ciò anche al di là del fatto, comunque da rilevare, che «in materia
di pubblico impiego privatizzato, il danno subito dal lavoratore nell’ipotesi
di contratto di lavoro nullo per violazione delle disposizioni che regolano le
assunzioni alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, di cui sia chiesto
il risarcimento ai sensi dell’art. 36, comma 5, del d. lgs.
n. 165 del 2001 non coincide con le retribuzioni ed i correlati oneri
contributivi e previdenziali, dal momento che tali voci sono comunque dovute,
in virtù del principio di corrispettività di cui all’art.
2126 c.c., per le prestazioni eseguite durante lo svolgimento in via di
fatto del rapporto di lavoro» (Cass. 6046/2018,
cit. ); deve del resto considerarsi la diversità che sussiste tra azione
risarcitoria, in cui il presunto danneggiato deve allegare e dimostrare il
danno (sicché, ove per danno si dovessero intendere differenze retributive,
effettivamente il lavoratore sarebbe onerato dell’allegazione anche del
perceptum, onde fissare il ristoro nella differenza rispetto al percipiendum) e
l’azione di adempimento, quale è quella ex art.
2126 c.c. ove, per le regole generali sopra richiamate, chi agisce è tenuto
solo ad allegare quanto spettante ed è il debitore a dover provare il
percepito, quale fatto estintivo del proprio debito;

in definitiva, con la reiezione dei primi tre motivi
di ricorso, resta confermato il rigetto della domanda di accertamento del
sorgere di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra il ricorrente ed il
Ministero convenuto, mentre la reiezione del sesto, settimo e ottavo motivo
rende definitivo il rigetto della domanda a titolo risarcitorio; resta invece
da esaminare in sede di rinvio, per effetto dell’accoglimento del quinto motivo,
la domanda di adempimento ex art. 2126 c.c.,
previa verifica in merito alla ricorrenza di un rapporto lavorativo di fatto
tra il ricorrente ed il Ministero e quindi, in caso positivo di tale scrutinio,
con valutazione dei profili istruttori e dei rispettivi oneri probatori secondo
l’assetto delineato al punto 4 che precede;

va da sé l’assorbimento del nono motivo, con cui si
lamenta il mancato accoglimento delle istanze istruttorie, in quanto l’esame di
esse, omesso anche perché la domanda ex art. 2126
c.c. è stata respinta dalla Corte d’Appello per valutazioni sulla prova del
quantum ritenute assorbenti ma erroneamente impostate in diritto, dovrà avere
corso a cura del giudice del rinvio;

 

P.Q.M.

 

Accoglie il quinto motivo di ricorso, rigetta i
primi quattro motivi nonché il sesto, il settimo e l’ottavo motivo, assorbito
il nono, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia
alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di
provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 05 ottobre 2020, n. 21315
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