Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 05 ottobre 2020, n. 21314
Infortunio, Ponteggio apprestato dal datore di lavoro,
Domanda di regresso avanzata dall’Inail, Responsabilità del datore di lavoro,
Improcedibilità dell’azione di regresso per l’assenza di condanna penale,
Concorso di colpa del lavoratore
Rilevato che
La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 192 del
2014, ha rigettato l’impugnazione proposta da M.M. nei confronti dell’Inail
avverso la sentenza del Tribunale di Viterbo di accoglimento della domanda di
regresso, avanzata dall’Inail ai sensi degli artt. 10 ed 11 d.P.R. n. 1124 del
1965, in relazione alle somme erogate dall’Istituto a seguito
dell’infortunio occorso il 6 agosto 1997 ad E.C. (dipendente di M.M. impegnato
nel cantiere edile di Soriano nel Cimino) che si era procurato lesioni
gravissime cadendo dal ponteggio apprestato dal datore di lavoro; la Corte
territoriale, dopo aver rilevato l’inammissibilità per genericità dei motivi
d’appello relativi alla eccezione di prescrizione del credito ed a quella di
improponibilità ed improcedibilità dell’azione di regresso per l’assenza di
condanna penale, ha respinto l’unico motivo ritenuto ammissibile, con il quale
si era lamentata la erronea affermazione della responsabilità del D.M. nella
causazione dell’evento; in particolare, la Corte territoriale ha accertato,
valutando le risultanze istruttorie acquisite in primo grado e costituite dalla
documentazione del processo penale (conclusosi con sentenza di proscioglimento
per prescrizione) e da due testimonianze, la responsabilità del datore di
lavoro, in quanto non aveva impedito ai dipendenti di utilizzare il ponteggio
per accedere all’appartamento e per non avere predisposto una idonea vigilanza
sul rispetto del divieto; la sentenza impugnata ha pure riconosciuto il
concorso di colpa del lavoratore ai sensi dell’art.
1227, primo comma, c.c., in quanto lo stesso aveva, in modo immotivato ed
irragionevole ma non abnorme, utilizzato il ponteggio, apprestato solo per
appoggiarvi un tiro destinato solo a sollevare carichi, per salire nel
l’apparta mento da ristrutturare;
a fronte di una valutazione dell’apporto causale
fornito dall’infortunato pari al cinquanta per cento e di una stima dell’intero
danno civilistico (liquidato secondo le tabelle del Tribunale di Milano) subito
dal lavoratore pari ad Euro 850.220,23, la Corte d’appello ha rilevato che
l’importo richiesto dall’Inail era pari ad Euro 396.632,61 e, quindi, inferiore
alla somma dovuta dal datore di lavoro a titolo di risarcimento del danno per
cui nessuna decurtazione andava effettuata;
avverso tale sentenza, M.M. ricorre per cassazione
sulla base di due motivi: 1) errata e contraddittoria valutazione di un fatto
decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti,
nonché carenza di motivazione, e violazione e falsa applicazione di norme di
diritto in relazione alla circostanza che dall’istruttoria non era mai emersa
la prova che il datore di lavoro non avesse fatto osservare il divieto di
salire e o scendere lungo i montanti del ponteggio; 2) violazione e o falsa
applicazione di norme di diritto laddove la sentenza impugnata, pur
riconoscendo il concorso di colpa del lavoratore, non aveva dimezzato la
pretesa dell’Inail riducendola del cinquanta percento; ciò avrebbe, altresì,
determinato il vizio di ultra petizione;
l’Inail resiste con controricorso;
Considerato che
Il primo motivo è inammissibile; esso pur essendo
intitolato, in modo cumulativo, sia al vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 5) c.p.c., che alla
violazione di legge di cui al n. 3 del medesimo comma primo dell’art. 360 c.p.c., nella illustrazione si sofferma
solo sul vizio di motivazione in quanto, ad avviso del ricorrente, le ragioni
addotte dalla sentenza impugnata sarebbero carenti e contraddittorie laddove si
è dedotta la responsabilità del datore di lavoro derivante dalla omissione
dell’obbligo di fare osservare il divieto di salire e o scendere lungo i
montanti del ponteggio dal quale il lavoratore è precipitato, pur riconoscendo
che lo stesso datore non aveva l’obbligo di predisporre le misure di sicurezza
richieste in generale per i ponteggi, dal momento che il ponteggio in questione
era stato realizzato solo per sostenere un tiro e non per essere calpestato;
inoltre, la conclusione della sentenza non sarebbe coerente con i contenuti
della testimonianza di un certo P. resa nel corso del giudizio penale;
la doglianza non è conforme al modello di vizio
motivazionale accolto dalla formulazione vigente, ed applicabile alla
fattispecie ratione temporis, dell’art. 360, primo
comma n. 5, c.p.c.; questa Corte di legittimità ha, ormai da tempo,
affermato che il testo della citata disposizione, riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012,
conv. in I. n. 134 del 2012, introduce
nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo
all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza
risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito
oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire
che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia);
pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il
vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante
in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la
sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. 27415
del 2018; SS.UU. n. 8053 del 2014);
tale riformulazione dell’art.
360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54,
conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere
interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo
costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto,
è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in
violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente
all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della
sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali;
tale anomalia si esaurisce nella “mancanza
assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella
“motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra
affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed
obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice
difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014);
nel caso di specie, la doglianza non evidenzia il ricorrere di tali vizi ma,
semmai, una lettura delle risultanze istruttorie giudicata non coerente con una
complessiva valutazione del quadro probatorio; ma ciò, oltre a non derivare
dalla esatta riproduzione ed allegazione degli atti cui ci si riferisce, altro
non è che una critica alla discrezionale attività di prudente apprezzamento del
materiale istruttorio che spetta esclusivamente al giudice del merito e che non
può essere sindacato dal giudice di legittimità; il secondo motivo pare
alludere (visto che non è espressamente indicata quale sarebbe la norma
violata, ai sensi del n. 3 dell’art. 360, primo
comma c.p.c.) ad un presunto errore in cui sarebbe incorsa la sentenza
impugnata laddove, pur riconoscendo che il lavoratore aveva posto in essere una
condotta del tutto imprudente, arrampicandosi sul ponteggio, tale da limitare
al cinquanta per cento la entità del danno risarcibile da parte del datore di
lavoro, non aveva decurtato della medesima percentuale la pretesa avanzata
dall’Inail in applicazione dell’art. 1227, secondo
comma, c.c.; tale motivo è infondato, giacché, come correttamente riportato
dalla sentenza impugnata, l’azione di regresso riconosciuta all’Inail nei
confronti del datore di lavoro dagli artt. 10 ed 11 del d.P.R. 30
giugno 1965 n. 1124, ove sia accertata la responsabilità di quest’ultimo in
sede penale o civile in ordine all’infortunio subito dal lavoratore assicurato
e per il quale l’istituto abbia corrisposto le prestazioni di legge, ha natura
diretta ed autonoma, derivando dal rapporto assicurativo, senza che sia
possibile alcuna riduzione o riproporzionamento della somma dovuta a titolo di
rivalsa ove risulti che alla produzione dell’evento abbia concorso il
comportamento colpevole del lavoratore stesso, bensì, nei limiti dettati dalla
norma di portata generale di cui all’art. 1916 cod.
civ., potendo l’istituto pretendere dal datore di lavoro una somma non
maggiore di quella che quest’ultimo sarebbe obbligato a corrispondere al
danneggiato a titolo di risarcimento del danno. Pertanto il giudice, adito
dall’Inail con l’azione di regresso, prima deve effettuare la liquidazione del
danno patito dal lavoratore infortunato, secondo gli ordinari criteri
utilizzabili per la liquidazione del danno da fatto illecito, decurtando tale
liquidazione di quanto deve esser posto a carico del danneggiato stesso per il
suo concorso nella produzione dell’evento e, quindi, operata la rivalutazione
del detto credito risarcibile che, essendo di valore, va accertato al momento
della decisione, deve procedere al raffronto dello ammontare del risarcimento,
così calcolato, con il credito, che forma oggetto dell’azione di regresso, per
attribuire all’Inail una somma non eccedente l’ammontare del primo; dunque, una
volta riconosciuto il concorso di colpa dell’infortunato, il giudice non può,
per questo solo fatto, ridurre proporzionalmente l’ammontare delle somme richieste
dall’INAIL in via di rivalsa nei confronti del responsabile dell’infortunio
stesso, ma deve previamente determinare, come in qualsiasi altra ipotesi di
rivalsa, l’ammontare del danno risarcibile in relazione alla misura
dell’accertato concorso di colpa e, quindi, verificare se sulla somma così
determinata vi sia capienza per la rivalsa dell’INAIL, procedendo, solo in caso
di esito negativo di tale accertamento, a ridurre la somma spettante
all’Istituto per le prestazioni erogate all’assicurato (o ai suoi eredi) in
modo che la stessa non superi quanto dovuto dal danneggiante” (in tal
senso, Cass. n. 4879 del 2015; Cass. n. 15633
del 2001, cui adde Cass., 2 febbraio 2010, n. 2350;
Cass., 20 agosto 1996, n. 7669);
a tali principi la sentenza impugnata si è attenuta,
per cui il ricorso va rigettato;
le spese seguono la soccombenza nella misura
liquidata in dispositivo;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento, in favore del contro ricorrente, delle spese del giudizio di
legittimità, che liquida in Euro 11000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00
per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte delta ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13, ove
dovuto.