Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 settembre 2020, n. 20913

Rapporto di lavoro, Inquadramento superiore, Requisiti,
Transazione giudiziale, Illegittimità

 

Rilevato che

 

1. con sentenza n. 1003/2014, resa in data 16 giugno
2014, la Corte d’appello di Bari, pronunciando sull’impugnazione del Comune di
Orta Nova nei confronti di A.D., accoglieva la domanda proposta dal Comune e
dichiarava la nullità della transazione giudiziale stipulata in data 12/7/2004
ordinando al D. di restituire al Comune tutte le somme percepite in esecuzione
di detta transazione;

2. la complessa vicenda è ricostruita attraverso le
seguenti tappe salienti:

– con ricorso innanzi al Giudice del lavoro iscritto
al n. 500/2002 A.D. agiva nei confronti del Comune di Orta Nova per ottenere il
riconoscimento del suo diritto all’inquadramento nella categoria D, posizione
economica DI, a far data dall’entrata in vigore del nuovo c.c.n.I. di settore,
per essere il predetto in possesso dei requisiti previsti dall’art. 29 della
preintesa siglata in data 7/7/2000 tra ARAN e sindacati, e la condanna del
Comune al pagamento di tutte le spettanze economiche;

– nel corso di tale giudizio interveniva transazione
tra le parti (avente ad oggetto il riconoscimento da parte del Comune al D.
dell’inquadramento richiesto a far data dal 5/9/2000 e della retribuzione
corrispondente al nuovo inquadramento a decorrere dal mese di agosto 2004, con
la rinuncia da parte del D. al 50% delle differenze retributive connesse al
superiore inquadramento maturate nel periodo 5/9/2000-31/7/2004) e conseguente
verbale di conciliazione in data 12/7/2004;

– con successivo ricorso sempre innanzi al Giudice
del lavoro il Comune chiedeva che fosse accertata l’illegittimità di tutti gli
atti amministrativi presupposti della transazione di cui al verbale di
conciliazione sottoscritto tra l’Ente e il D. nell’ambito del giudizio n.
500/2002 R.G.L. ed in particolare della delibera di G.C. del Comune di Orta
Nova n. 126 del 24/6/2004 con cui tale transazione era stata autorizzata;

– a tal riguardo rappresentava che il Collegio dei
Revisori dei Conti aveva espresso forti perplessità sulla legittimità della
transazione in questione e che in ragione di detto parere il segretario
Generale del Comune aveva

invitato il Sindaco ad impartire direttive al fine
di un provvedimento in autotutela;

– nel frattempo, il Sindaco aveva attribuito al
Segretario generale la competenza ad adottare gli atti necessari al fine di
dare esecuzione alla transazione (comprese le determinazioni relative alle
corrispondenti assunzioni di spesa), atti che erano stati emanati e che avevano
portato alla corresponsione al D. delle somme come determinate in sede di
transazione;

– era, invece, rimasta ineseguita la transazione
quanto all’aspetto dell’inquadramento del D. in DI mancando persino la
previsione del posto in pianta organica;

– il D. aveva, quindi, proposto ricorso innanzi al
TAR per l’ottemperanza a tale transazione, ricorso che era stato accolto con
sentenza del TAR Puglia n. 3719/2006;

– in conseguenza il commissario ad acta aveva
provveduto ad inquadrare il D. in DI dal 5/9/2000, riconoscendo al medesimo i
successivi inquadramenti in D2 e D3 e determinando in favore dello stesso la
retribuzione corrispondente ai previsti nuovi inquadramenti;

– successivamente il Consiglio di Stato aveva
riformato la sentenza del TAR giudicando il ricorso del D. inammissibile per
non avere la transazione giudiziale natura giurisdizionale per la cui
esecuzione fosse possibile il giudizio di ottemperanza;

– nel giudizio instaurato dal Comune innanzi al
Giudice del lavoro il Tribunale respingeva il ricorso con decisione poi
riformata dalla Corte territoriale con la pronuncia qui impugnata;

3. la Corte territoriale, in particolare, riteneva:
– che la transazione giudiziale fosse assoggettabile come qualsiasi altro
negozio giuridico alle azioni di nullità; – che alla stessa, come affermato
anche dal Consiglio di Stato intervenuto nella vicenda, non potessero
attribuirsi gli effetti di una sentenza passata in giudicato; – che la nullità
del riconosciuto inquadramento derivava dal limite imposto dall’art. 97 Cost. e dall’art. 35 del d.lgs. n. 165/2001
e dalle norme imperative che presiedono al reclutamento del personale ed anche
dalla regola del concorso pubblico che 
vale anche per i passaggi alle categorie e fasce funzionali superiori; –
che, in conseguenza, la transazione in questione doveva considerarsi nulla;

2. per la cassazione di tale decisione ha proposto
ricorso A.D., affidando l’impugnazione a quattro motivi;

3. il Comune di Foggia ha resistito con
controricorso;

7. il D. ha depositato memoria.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo il ricorrente denuncia la
violazione e falsa applicazione dell’art. 360, nn.
3 e 5, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Cost. e dell’art. 35 del d.lgs. n. 165 del
2001;

sostiene che la Corte d’appello avrebbe malamente
percepito la portata del contenzioso instaurato atteso che non si trattava del
riconoscimento di un inquadramento superiore per l’esercizio di mansioni di
fatto ma del riconoscimento del corretto inquadramento per effetto diretto
dell’applicazione delle norme contrattuali;

assume che con il ricorso introduttivo del giudizio
aveva lamentato il mancato reinquadramento nella categoria D previsto, a
seguito del nuovo c.c.n.I., “per il personale al quale con atti formali da
parte dell’Amministrazione di appartenenza siano attribuite le funzioni di
responsabile del servizio complessivo dell’intera area di vigilanza”;

rileva che erroneamente la Corte territoriale
avrebbe richiamato la normativa sull’accesso al pubblico impiego e principi
applicabili alla diversa ipotesi dello svolgimento di fatto di mansioni
superiori;

2. con il secondo motivo il ricorrente denuncia la
violazione e falsa applicazione dell’art. 360, nn.
3 e 5, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Cost e dell’art. 35 del d.lgs. n. 165 del
2001;

censura la sentenza impugnata per avere erroneamente
interpretato la portata della sentenza di primo grado che, contrariamente a
quanto osservato dal giudice di appello, aveva affrontato il tema posto dal
Comune della mancata osservanza della disciplina sul blocco delle assunzioni
rilevando che questa asserzione era rimasta sprovvista di sostegno probatorio;

3. con il terzo motivo il ricorrente denuncia la
violazione e falsa applicazione dell’art. 360,
nn. 3 e 5, in relazione agli artt. 409, 410 e 411 cod. proc.
civ.;

sostiene che fosse precluso l’accertamento di
violazioni inderogabili di legge in presenza di una transazione giudiziale;

4. con il quarto motivo il ricorrente denuncia la
violazione e falsa applicazione dell’art. 360, nn.
3 e 5, cod. proc. civ., dell’art. 112 cod.
proc. civ., dell’art.
78 del T.U. n. 267/2000 sugli enti locali;

sostiene che la Corte territoriale erroneamente non
si sarebbe pronunciata sulla eccepita inammissibilità dell’appello per difetto
di valida delibera comunale alla proposizione dell’impugnativa;

rileva che delibera autorizzativa fosse stata
adottata con la partecipazione del sindaco G.M. su parere di M.D., nella
qualità di funzionario comunale dirigente, i quali dovevano astenersi dalla
partecipazione al provvedimento deliberativo in quanto denunciati dal D. l’uno
per dichiarazioni diffamatorie in merito alla transazione l’altra per non aver
dato esecuzione a tale atto;

5. logicamente preliminare è l’esame del quarto
motivo;

5.1. tale motivo è inammissibile per plurime
concorrenti ragioni che, invero, riguardano anche gli altri motivi di ricorso
(v. infra);

5.2. sono denunciate la violazione e falsa
applicazione dell’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc.
civ., senza che sia adeguatamente specificato quale errore, tra quelli
dedotti, sia riferibile a vizi di così diversa natura lamentati, in tal modo
non consentendo una sufficiente identificazione del devolutum e dando luogo
alla convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, “di censure
caratterizzate da … irredimibile eterogeneità” (v. Cass., Sez. Un., 24 luglio
2013, n. 17931; Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, n. 26242; Cass. 13 luglio
2016, n. 14317; Cass. 7 maggio 2018, n. 10862);

infatti, il vizio di violazione o falsa applicazione
di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360, co. 1,
n. 3, cod. proc. civ. ricorre o non ricorre per l’esclusivo rilievo che, in
relazione al fatto così come accertato dai giudici del merito, la norma, della
cui esatta interpretazione non si controverte, non sia stata applicata quando
doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero
che sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente
sussumibile nella norma (v. Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre
2007, n. 22348), sicché il sindacato sulla violazione o falsa applicazione di
una norma di diritto presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto
incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. che invece postula
un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti;

5.3. si ricorda, poi, che il ricorso per cassazione
deve essere redatto nel rispetto dei requisiti imposti, a pena di
inammissibilità, dall’art. 366 cod. proc. civ.
che al comma 1, n. 6, richiede “la specifica indicazione degli atti
processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il
ricorso si fonda”;

è, quindi, necessario che il ricorrente, oltre a
riportare nel ricorso il contenuto del documento, quanto meno nelle parti
essenziali, precisi in quale fase processuale è avvenuta la produzione ed in
quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione;

va ricordato, al riguardo, che il requisito di cui
al richiamato art. 366 n. 6 cod. proc. civ. è
imprescindibile ed autonomo e non può essere confuso con quello di
procedibilità (egualmente richiesto) previsto dall’art.
369, n. 4, cod. proc. civ. in quanto il primo risponde all’esigenza di
fornire al giudice di legittimità tutti gli elementi necessari per avere la
completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti
esterne, mentre la produzione (laddove effettuata) è finalizzata a permettere
l’agevole reperibilità del documento la cui rilevanza è invocata ai fini
dell’accoglimento del ricorso (v. fra le più recenti, sulla non
sovrapponibilità dei due requisiti, Cass. 28 settembre 2016, n. 19048);

gli indicati principi sono stati di recente ribaditi
(v. Cass., Sez. Un., 27 dicembre 2019, n. 34469) precisandosi che in tema di
ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, cod. proc. civ., le
censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il
ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel
ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni
necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello
svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la
Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza
precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro
acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità;

orbene, nella specie, sostiene il ricorrente che la
questione relativa al dedotto difetto di validità della delibera comunale
autorizzativa della proposizione del ricorso fosse stata già sottoposta al
giudice di primo grado il quale la aveva ritenuta “assorbita dalle
considerazioni che si andranno a sviluppare” e cioè dal rigetto del ricorso nel
merito;

sostiene, altresì, di aver riproposto tale questione
innanzi alla Corte d’appello;

tuttavia, in ricorso è trascritta solo parte della
comparsa di costituzione nel giudizio di appello (pagg. 16 e 17 del ricorso per
cassazione) mentre nulla è dato evincere circa il contenuto dell’atto del
giudizio di primo grado nel quale la questione sarebbe stata prospettata per la
prima volta;

si aggiunga che i suddetti atti non sono prodotti in
uno con il ricorso per cassazione né degli stessi è indicata la collocazione
nel fascicolo d’ufficio ovvero in quello di parte al fine di renderne possibile
l’esame;

inoltre, non sono in questa sede trascritti i
documenti che si assume siano stati posti a fondamento della eccezione
formulata innanzi ai giudici di appello (e non esaminata) e ciò impedisce a
questa Corte di valutare la rilevanza della stessa;

5.4. peraltro il motivo è principalmente
inammissibile anche perché a base della doglianza non è posto un reale e
“concreto” motivo di astensione ovvero una oggettiva posizione di
conflittualità o anche solo di divergenza di un interesse personale rispetto a
quello, generale, affidato alle cure dell’organo di cui l’amministratore o il
dipendente pubblico fanno parte, tale non potendo essere la pretesa situazione
di incompatibilità determinata dalla stessa parte che ha sollevato l’eccezione
(denunce presentate ai Carabinieri di Ortanova nei confronti del funzionario
comunale dirigente e del sindaco aventi ad oggetto comportamenti e
dichiarazioni riguardanti la transazione per cui è causa), risultando, al
contrario, l’interesse sotteso all’adozione della delibera comunale autorizzativa
della costituzione dell’Ente in giudizio coincidente con quello pubblico
perseguito con l’annullamento della transazione;

6. sono egualmente inammissibili gli altri tre
motivi di ricorso (da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca
connessione) i quali, nella sostanza, tendono ad una rivisitazione del fatto,
non consentita in questa sede;

6.1. peraltro, anche in questo caso, si riscontrano
pregiudiziali profili di inammissibilità nella formulazione dei motivi
contenendo gli stessi promiscuamente la contemporanea prospettazione di errores
in iudicando e vizi di motivazione, senza alcuna specifica indicazione di quale
errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi;

6.2. inoltre, la denuncia di violazione dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., non rispettando
gli enunciati posti da Cass., Sez. Un., 7 aprile
2014, nn. 8053 e 8054, individua come fatto posto a fondamento dell’omesso
esame una diversa ricostruzione della vicenda;

6.3. tutti i rilievi ruotano, poi, intorno al
contenuto della transazione della quale, però, non è riprodotto il testo
completo e che non è allegata al ricorso per cassazione in violazione dei
principi già sopra richiamati;

6.4. si aggiunga che le censure, nella parte in cui
sostanzialmente si incentrano sulla pretesa sussistenza di un automatismo
contrattualmente nell’attribuzione del livello DI e sulla diversità della
situazione oggetto di causa rispetto a quella del riconoscimento di mansioni
superiori, neppure scalfiscono il ragionamento della Corte territoriale che ha
mostrato consapevolezza dei principi di diritto affermati in sede di
legittimità Corte laddove, a sostegno della ritenuta illegittimità della
transazione stipulata tra il Comune di Orta Nova e A.D., ha posto la regola
generale di cui all’art. 97 della Cost.,
funzionale ad assicurare il rispetto dei principi di efficiente ed imparzialità
nell’organizzazione ed azione amministrativa;

questa Corte, pronunciandosi proprio con riferimento
all’art. 29 del c.c.n.I. (v. Cass. 9 maggio 2006, n. 10528; Cass. 22 giugno 2010, n. 15056; Cass. 16 gennaio
2017 n. 852), ha evidenziato che la disciplina legale del lavoro alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni (desunta principalmente dall’art. 97 Cost., secondo la lettura che ne ha dato
ripetutamente la Corte costituzionale, del quale sono attuazione il d.lgs. n. 165 del 2001, artt.
35 e 52), non
consente inquadramenti automatici del personale, neppure in base al profilo
professionale posseduto o alle mansioni svolte ed altresì precisato che nel
caso di passaggio da un’area di inquadramento ad altra superiore (come nella
specie, da C a D), è richiesta, di norma, una procedura concorsuale pubblica
con garanzia di adeguato accesso dall’esterno;

così è stato evidenziato che l’indicata disposizione
contrattuale non si pone in contrasto con i richiamati principi e regole
inderogabili, siccome si limita a disporre che le amministrazioni devono
assumere le iniziative necessarie per realizzare il passaggio alla categoria D,
posizione economica D1, del personale dell’area di vigilanza dell’ex 6a q.f.,
nel caso in cui, per il suddetto personale, ricorrano le condizioni descritte
nelle lettere a), b) e c) del comma 1;

con la conseguenza, ben posta in rilievo nei
precedenti citati, che manca ogni automatismo e che l’inquadramento nella
categoria superiore è condizionato all’esito positivo delle procedure previste;

le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n.
28328 del 22 dicembre 2011, hanno ulteriormente ribadito che, alla luce della
suddetta interpretazione della norma collettiva (la quale, diversamente
opinando, violerebbe i già richiamati principi e norme inderogabili), deve
convenirsi che anche la “verifica selettiva” di cui all’art. 29 c.c.n.I., comma
5, citato, prevista per il personale di cui ai punti a) e b) del comma 1,
costituisce comunque, al pari delle “selezioni” previste per il personale di
cui alla lett. c) del medesimo comma 1, una procedura selettiva di tipo
concorsuale per il passaggio alla categoria superiore, con conseguente
applicazione del principio fissato dal d.lgs. n. 165 del 2001, art.
63, comma 4;

la normativa contrattuale, dunque, demanda
all’amministrazione l’assunzione delle “iniziative necessarie” per
realizzare il suddetto passaggio di categoria, nonché l’istituzione nella
dotazione organica dei corrispondenti posti della categoria superiore;

ancorché in attuazione di un accordo sindacale, le
suddette attività, di carattere discrezionale, sono quindi lasciate
all’amministrazione, la quale, peraltro, dovrà assumere tali iniziative al fine
di attuare una “verifica selettiva” del personale interessato, previsione,
quest’ultima, che non avrebbe ragion d’essere laddove il mero possesso del
requisito previsto dall’accordo sindacale comportasse il diritto soggettivo al
transito nella categoria superiore;

quindi, nella specie, non poteva sussistere alcun
automatismo e l’inquadramento era condizionato all’esito positivo delle
procedure previste, in totale conformità con le previsioni di cui all’art. 97 Cost.;

7. né idoneamente il ricorrente censura la sentenza
impugnata per aver ritenuto non precluso al giudice, in presenza di una
transazione giudiziale, l’accertamento della violazione di disposizioni
inderogabili di legge;

7.1. la transazione contenuta nella conciliazione
giudiziale che ha posto fine alla lite a suo tempo promossa dal ricorrente, è
sottratta, in quanto perfezionatasi in giudizio, al regime della impugnabilità di
cui all’art. 2113 cod. civ. (v. comma 4 art.
cit.), mentre rimangono esperibili le normali azioni di nullità e di
annullamento dei contratti, rispetto alle quali, pertanto, l’intervento del
giudice (limitato al rispetto delle formalità di cui all’art. 88 disp. att. cod. proc. civ.) non può
esplicare alcuna efficacia sanante o impeditiva (v. si veda, ad esempio, Cass.
6 marzo 1984, n. 1552 in una fattispecie di illiceità della causa; Cass. 2 febbraio 1991, n. 10056 in tema di
determinabilità dell’oggetto del negozio transattivo);

7.3. riguardo ai diritti già maturati, infatti, il
negozio dispositivo integra una mera rinuncia o transazione, rispetto alla
quale la dipendenza del diritto da norme inderogabili comporta appunto, in
forza dell’art. 2113 cod. civ., l’eventuale
mera annullabilità dell’atto di disposizione, ma non la sua nullità;

invece è nei confronti di diritti ancora non sorti o
maturati che la preventiva disposizione può comportare la nullità dell’atto,
poiché esso è diretto a regolamentare gli effetti del rapporto di lavoro in
maniera diversa da quella fissata dalle norme di legge o di contratto
collettivo (Cass. 13 marzo 1992, n. 3093; Cass. 13 luglio 1998, n. 6857; Cass. 14 dicembre 1998, n. 6857; Cass. 8 novembre 2001, n. 13834; Cass. 26 maggio 2006, n. 12561);

gli effetti attribuiti al verbale di conciliazione
giudiziale non possono, del resto, equipararsi a quelli di una sentenza passata
in giudicato, bensì a quelli di un titolo contrattuale esecutivo, con la
conseguenza che esso resta soggetto alle ordinarie sanzioni di nullità;

8. del tutto non pertinente rispetto al decisum è
poi il rilievo secondo il quale la Corte barese avrebbe malamente interpretato
la sentenza di prime cure in punto di mancata osservanza del blocco delle
assunzioni, risultando assorbente, nel complessivo argomentare della sentenza
impugnata, l’evidenziato limite per l’accesso ad una categoria superiore
costituito dalla regola di cui all’art. 97 Cost.;

9. dalle suesposte considerazioni discende che il
ricorso deve essere dichiarato inammissibile;

10. l’onere delle spese del giudizio di legittimità
resta a carico di parte ricorrente, in applicazione della regola generale della
soccombenza;

11. sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, previsto dall’art.
13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013), ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

Dichiara l’inammissibilità del ricorso; condanna il
ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del
presente giudizio, che liquida in euro 200,00 per esborsi ed auro 5.000,00 per
compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura
del 15%.

Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 -bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 settembre 2020, n. 20913
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