Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 settembre 2020, n. 20904

Riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro
– Presunzione di gratuità della prestazione lavorativa, Prestazione resa
normalmente affectionis vel benevolentiae causa, Onere del lavoratore di
dimostrare il carattere subordinato della prestazione resa, Contestazione
della valutazione degli elementi probatori operata dai giudici di merito

 

Rilevato

 

Che la Corte territoriale di Bologna, con sentenza
pubblicata il 27.11.2014, ha respinto l’appello interposto da P.U., nei
confronti di E.S., avverso la pronunzia del Tribunale di Rimini n. 336/2010,
depositata il 6.10.2010, con la quale era stato rigettato il ricorso della U.,
diretto ad ottenere il riconoscimento della natura subordinata del rapporto di
lavoro intercorso tra le parti dall’1.5.1997 al 27.4.2005, le mansioni di
commessa di 4° livello del CCNL del settore commercio ed il pagamento, in suo
favore, delle retribuzioni non pagate, nella misura di Euro 177.973,93;

che per la cassazione della sentenza ricorre P.U.
articolando quattro motivi, cui resiste con controricorso E.S.;

che sono state depositate memorie nell’interesse di
entrambe le parti;

che il PG non ha formulato richieste;

 

Considerato

 

che, con il ricorso, si deduce: 1) la violazione e
falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in
riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
e si lamenta che la Corte di merito avrebbe <<violato la regola di
giudizio riguardante la prova della subordinazione ignorando al proposito i
principi di rilievo costituzionale di cui agli artt.
3 comma II, 35 comma I, 36 comma I della Costituzione>>, perché
avrebbe erroneamente onerato la lavoratrice dell’onere di dimostrare il
carattere subordinato della prestazione resa; 2) la <<violazione o falsa
applicazione di norme di diritto ex art. 360 n. 3
c.p.c. in relazione all’art. 2127 c.c. e
all’epoca regolata dalla legge 23.10.1960 n. 1369>>,
perché <<la sentenza impugnata rende lecita l’interposizione nelle
prestazioni di lavoro, espressione con la quale si intende parlare della
fattispecie in cui un imprenditore scelga di non assumere direttamente i
lavoratori dei quali ha bisogno per le esigenze della propria attività
produttiva, ma di farli ingaggiare da un altro soggetto (appunto l’interposto),
per poi utilizzarne ugualmente la prestazione senza assumere nei confronti di
chi lavora alcun obbligo né responsabilità>>; 3) la <<violazione o
falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360
n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 2594 c.c.
e 230 bis c.c., in connessione all’art. 2094 c.c., in quanto la sentenza impugnata
nega la subordinazione invece configurando un’associazione in partecipazione
oppure un’impresa familiare tra la lavoratrice stessa ed il coniuge, mentre
tale configurazione è incompatibile con le norme di legge sopra
richiamate>>; 4) <<l’omesso esame circa la sussistenza del vincolo
di subordinazione, che costituisce l’accertamento primario richiesto dalla
ricorrente e al tempo stesso il presupposto fattuale e giuridico per
l’accoglimento di tutte le altre domande avanzate dalla ricorrente>>, per
avere i giudici di merito omesso l’esame del fatto concernente l’esistenza o
meno della subordinazione, oggetto principale della discussione intervenuta tra
le parti;

che i motivi, da trattare congiuntamente per
evidenti ragioni di connessione, non sono meritevoli di accoglimento, essendo
tesi, nella sostanza, a contestare la valutazione degli elementi probatori
operata dai giudici di seconda istanza i quali, alla stregua di quanto è
rimasto delibato, hanno negato la sussistenza, nella fattispecie, degli
elementi che connotano la subordinazione ed hanno affermato che le modalità di
svolgimento del lavoro della U. <<non consentono di affermare
l’automatica imputabilità all’impresa dell’associante delle predette
prestazioni rese a favore dell’associato (M.G.) dalla moglie (la U., appunto)
nell’ambito di una collaborazione di tipo familiare ovvero anche ascrivibile al
disposto dell’art. 230-bis c.c., come invece
sotteso nelle riproposte tesi dell’appellante. Sul punto l’interrogatorio delle
parti e del Gaddi (associato in partecipazione della nipote E.S. nella gestione
di due negozi siti nel riminese) non attestano altro che una presenza comunque
sopradica della Sivieri presso i negozi e di suoi interventi non continuativi e
non pregnanti di supervisione…. Che non contraddicono la devoluzione della
gestione dell’attività allo zio associato in conformità agli accordi
intervenuti, prima e dopo la registrazione del contratto di associazione in
partecipazione…>>;

che va, altresì, osservato, per quanto più
specificamente attiene al secondo motivo, che la ricorrente non ha osservato la
prescrizione di specificità di cui art. 366, primo
comma, n. 4, c.p.c., che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, del codice di rito,
debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale
indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche con specifiche
argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate
affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in
contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione
delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra
le molte, Cass., Sez. VI, ord. n. 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009);
peraltro, il motivo non appare centrato, in quanto nella sentenza impugnata non
si <<rende lecita l’interposizione di manodopera>>, come affermato
dalla ricorrente, ma si osserva motivatamente, come innanzi osservato, che gli
elementi delibatori non consentono di acclarare che il rapporto di cui si
tratta avesse i connotati della subordinazione; che, nel caso di specie, i
giudici di appello, attraverso un percorso motivazionale condivisibile sotto il
profilo logico-giuridico, sono pervenuti alla decisione oggetto del presente
giudizio, dopo aver analiticamente vagliato le risultanze dell’istruttoria
espletata in primo grado (al riguardo, cfr., tra le molte, Cass. n. 18921/2012); pertanto, le doglianze
articolate dalla parte ricorrente si risolvono, in sostanza, in una
ricostruzione soggettiva del fatto, tesa a condurre ad una valutazione difforme
rispetto a quella cui è pervenuta la Corte distrettuale, sulla base di una
diversa lettura del materiale probatorio ed appaiono inidonee, per i motivi
anzidetti, a scalfire la coerenza della sentenza oggetto del giudizio di
legittimità. Quest’ultima, peraltro, è del tutto in linea con gli arresti
giurisprudenziali di questa Corte, poiché, tra persone legate da vincoli di
parentela o di affinità opera una presunzione di gratuità della prestazione
lavorativa, che trova la sua fonte nella circostanza che la stessa viene resa
normalmente affectionis vel benevolentiae causa; con la conseguenza che, per
superare tale presunzione, è necessario fornire la prova rigorosa degli
elementi tipici della subordinazione, tra i quali, soprattutto,
l’assoggettamento al potere direttivo-organizzativo altrui e l’onerosità (cfr.,
ex plurimis, Cass. nn. 8364/2014; 9043/2011; 8070/2011;
17992/2010; per ciò che più specificamente
attiene a tutti gli indici di subordinazione, cfr., ex multis, Cass. n.
7024/2015). Ed al riguardo, in particolare, i giudici di seconda istanza hanno
condivisibilmente affermato che le risultanze istruttorie non solo non hanno
fornito alcun elemento per accertare il vincolo della subordinazione…, ma
hanno dimostrato che l’attività della ricorrente si inseriva in un rapporto di
collaborazione familiare;

che, per tutto quanto esposto, il ricorso va
rigettato;

che le spese del presente giudizio, liquidate come
in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R.
n. 115 del 2002;

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00,
di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed
accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 settembre 2020, n. 20904
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