Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 ottobre 2020, n. 22076

Licenziamento, Giusta causa di recesso, Reintegra nel posto
di lavoro, Indennità risarcitoria, Esito del giudizio penale, Insussistenza
di elementi di prova sulla commissione del fatto contestato in sede penale, non
vincolante nel giudizio civile, Principio di necessaria corrispondenza tra
addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare,
Circostanze confermative della condotta in relazione alle quali il lavoratore
possa agevolmente controdedurre

 

Fatti di causa

 

1. L.C. impugnò il licenziamento intimatole da E.
s.p.a. in data 17 aprile 2014 deducendo l’insussistenza della giusta causa di
recesso e chiedendo di essere reintegrata nel posto di lavoro con tutte le
conseguenze di ordine risarcitorio e la condanna della società a risarcirle il
danno non patrimoniale sofferto.

2. Il Tribunale in sede sommaria accolse il ricorso,
dispose la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro e condannò l’E.
al pagamento di un’indennità risarcitoria che quantificò in dodici mensilità di
retribuzione oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali
dal giorno del licenziamento alla effettiva reintegrazione. Con sentenza poi,
rigettò l’opposizione dell’E..

3. La Corte di appello di Roma, investita del
reclamo da parte di E. s.p.a., lo ha accolto ed ha rigettato l’originaria
domanda della C..

3.1. Il giudice di secondo grado, all’esito
dell’istruttoria svolta nel corso del giudizio sul reclamo, ha preliminarmente
rammentato che l’esito del giudizio penale – conclusosi nei confronti della C.
con un’assoluzione per insussistenza di sufficienti elementi di prova sulla
commissione del fatto contestato in sede penale – non era vincolante nel
giudizio civile.

3.2. Ha poi ritenuto che l’istruttoria svolta aveva
confermato che la C. conosceva, da data antecedente il fatto oggetto della
contestazione disciplinare, il dipendente che aveva messo a disposizione
dell’ex marito la SIM aziendale.

3.3. Ha poi evidenziato che i fatti oggetto
dell’addebito disciplinare erano risultati confermati in giudizio ed ha escluso
che le dichiarazioni rese dal teste L., che aveva confermato davanti alla Corte
di appello di aver consegnato alla C. ed alla presenza del suo ex marito una
SIM aziendale perché la usasse, dovessero essere considerate inattendibili.

3.4. Ha ritenuto che il fatto di esame in giudizio,
come rappresentato dalla società, non era differente rispetto a quello
contestato alla lavoratrice nel procedimento disciplinare evidenziando che
nucleo centrale dell’addebito era proprio la richiesta, proveniente dalla C. ed
accolta dal L., di una SIM e di un cellulare di proprietà aziendale. La
circostanza, poi, che la consegna fosse avvenuta direttamente nelle mani dell’ex
marito della C. è stata ritenuta irrilevante atteso che la consegna atteneva al
piano esecutivo di un accordo illecito già concluso e perfetto.

4. Per la cassazione della sentenza propone ricorso
L.C. che articola quattro motivi ai quali resiste con controricorso ENI s.p.a.
che ha depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art.
378 cod. proc.civ..

 

Ragioni della decisione

 

5. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la
violazione dell’art. 115, 116, 132 cod.proc.civ.,
dell’art.118 disp. att. cod.proc.civ. e dell’art. 1362 cod.civ. in relazione all’art.360 primo comma nn. 3, 4 e 5 cod. proc. civ..

5.1. Sostiene la ricorrente che la società le aveva
contestato di essersi fatta consegnare il telefono aziendale per farne un uso
non autorizzato. Nel corso dell’istruttoria era invece risultato che il
telefono era stato consegnato all’ex marito della C. e che quest’ultima lo
aveva utilizzato sporadicamente. La ricorrente ha posto in rilievo, inoltre,
che dai testi da escutere era stato escluso il D., ex marito della ricorrente,
nonostante che l’assunzione della sua testimonianza fosse stata reiteratamente
sollecitata.

5.2. Si osserva inoltre che la Corte,
nell’apprezzamento del materiale probatorio acquisito, sarebbe incorsa in
errori logici e di percezione. Ed infatti le dichiarazioni rese dal teste L.
non collimerebbero con i certificati di residenza esaminati; sono state
rettificate dal teste dopo che gli è stata segnalata la data a cui risalivano i
fatti contestati; diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello le
stesse non trovavano affatto una conferma nei certificati di residenza prodotti
in giudizio dai quali, al contrario, si evinceva che già dal 2001 la C. ed il
L. non risiedevano più nello stesso condominio. Inoltre il giudice di secondo
grado male interpreta le dichiarazioni rese ai carabinieri dallo stesso L. il
quale non dichiarò di conoscere l’odierna ricorrente ma piuttosto il suo ex
marito, il signor Danzi. Ritiene allora la ricorrente che così facendo la Corte
sia incorsa in un errore di apprezzamento e di interpretazione del documento
(l’informativa resa ai carabinieri dal L.) in violazione degli artt. 1362 e ss. cod.civ.. Un errore di percezione
che non costituisce un vizio di valutazione dei fatti accertati, non
ammissibile, ma piuttosto un errore nella percezione del fatto provato,
nell’individuazione del suo contenuto oggettivo, denunciabile ai sensi dell’ art. 115 cod.proc.civ. essendo, la circostanza che
il L. e la C. si conoscessero all’epoca dei fatti, decisiva per la corretta
risoluzione della controversia. Ritiene allora la ricorrente che l’aver
utilizzato le inattendibili dichiarazioni rese dal teste L. nella ricostruzione
dei fatti vizia irrimediabilmente la motivazione della sentenza della Corte di
appello.

6. Il motivo è inammissibile.

6.1. Anche a voler tralasciare che la censura viene
veicolata in giudizio, inammissibilmente, richiamando indistintamente un vizio
di violazione di legge (n.3), un error in procedendo (n.4) ed un vizio di
motivazione (n. 5) senza chiarire con esattezza, nel suo ambito, in cosa
sarebbero consistite le violazioni di legge, gli errori processuali ed i vizi
di motivazione, in ogni caso si osserva che il motivo investe nella sostanza la
valutazione operata dalla Corte di merito del materiale probatorio acquisito in
giudizio. Pur denunciandosi la violazione delle disposizioni in tema di prova (artt. 115 e 116),
la nullità della sentenza in relazione alla compiutezza della sua motivazione (artt. 132 cod. proc.civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ.) e
l’interpretazione data dalla Corte di merito alla documentazione acquisita in
giudizio (in particolare alle dichiarazioni rese in sede di informativa ai
Carabinieri dal teste L.) (artt. 1362 e ss. cod.
civ.), nella sostanza la ricorrente pretende dalla Corte di legittimità una
nuova e diversa ricostruzione dei fatti quali emersi nel corso dell’istruttoria
che in questa sede non è consentita.

6.2. Con riguardo al primo dei tre profili si
osserva che la questione della violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116
cod.proc.civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale
istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché
si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte
dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o ancora
abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove
legali oppure abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza
apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr.
Cass. . 27/12/2016 n. 27000 ed anche Cass. 17/01/2019 n. 1229). Nessuna delle
indicate ipotesi si è verificata nel caso in esame atteso che la Corte di
merito ha ricostruito i fatti sulla base della documentazione acquisita in
giudizio e delle prove ritualmente assunte. Ha accertato che l’odierna
ricorrente conosceva il dipendente/collega che consegnò la scheda aziendale al
suo ex marito da epoca più risalente rispetto al momento in cui il fatto contestato
si è verificato attraverso una ricostruzione del materiale probatorio che non
incorre nelle censure mosse e neppure omette l’esame di fatti decisivi né
trascura di ricostruirli accuratamente. Quanto alla lettura data al verbale di
informazioni reso dal L. alla Polizia giudiziaria va rilevato che la
ricostruzione data dalla Corte di merito è aderente al contenuto del documento
e ne costituisce una lettura del tutto plausibile. D’altro canto la censura non
precisa affatto quale sia il canone interpretativo violato e si limita ad un
generico richiamo alle norme in tema di interpretazione senza specificazioni
ulteriori sicché per tale aspetto risulta essenzialmente generica.

7. Anche il secondo motivo di ricorso – con il quale
è denunciata di nuovo la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod.
proc. civ., dell’art. 132 cod.proc.civ. e
dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ. oltre
che dell’ art. 111 Cost. il tutto in relazione
all’art. 360 primo comma, nn. 3,4 e 5 cod.proc.civ.
– non può essere accolto.

7.1. Accanto ai profili di inammissibilità della
censura già evidenziati con riguardo al primo motivo di ricorso, va qui
osservato, inoltre, che la scelta della Corte di merito di non ammettere a
testimoniare l’ex marito della ricorrente – avendo ritenuto sufficienti le
dichiarazioni da lui rese alla polizia giudiziaria, con le quali era stata
confermata la conoscenza del L. da parte della C. – non è censurabile in questa
sede. Va rammentato infatti che nell’ordinamento processuale vigente manca una
norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova ed il giudice può porre
a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche ed è legittimato ad
avvalersi delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari
svolte in sede penale, così come delle dichiarazioni verbalizzate dagli organi
di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali (cfr.
Cass. 04/07/2019 n. 18025 e 20/01/2017 n. 1593 ma già Cass. 15/10/2004 n.
20335).Tale scelta non è sindacabile in sede di legittimità quando dalla
motivazione della sentenza si evinca, come nel caso in esame, che la
valutazione compiuta sia stata estesa anche a tutte le successive risultanze
probatorie e non si sia limitata ad un apprezzamento della sola prova formatasi
nel procedimento penale. La ricostruzione operata dalla Corte, per addivenire
al convincimento espresso e posto a fondamento della decisione che all’epoca
del fatto che le è stato contestato la C. conoscesse bene il signor L. che, per
il suo tramite, procurò e consegnò al Danzi la scheda telefonica aziendale da lui
usata per fini del tutto personali, rientra nell’apprezzamento delle prove
riservato al giudice del merito che in questa sede non è censurabile.

8. Per analoghe ragioni è inammissibile il terzo
motivo di ricorso con il quale ancora una volta è denunciata la violazione
degli artt. 115 e 116
cod. proc.civ. in relazione all’art. 360 primo
comma n. 3 e 5 cod. proc. civ..

8.1. Sostiene la ricorrente che una volta che la
Corte di merito ha affermato che il giudicato penale formatosi non faceva stato
tra le parti allora avrebbe dovuto prendere in esame tutte le prove, anche
quelle acquisite in sede penale. Invece, evidenzia la ricorrente, la Corte di
merito ha ignorato, trascurando fatti decisivi per il giudizio che invece erano
stati puntualmente esaminati dal giudice della fase sommaria, desumibili dalle
dichiarazioni rese davanti al giudice penale relativamente all’utilizzazione ed
alla provenienza della scheda SIM ed alla conoscenza che la C. ne aveva.

8.2. Si tratta infatti della tipica attività di
ricostruzione dei fatti, effettuata attraverso la valutazione delle prove
acquisite al processo, che esorbita dal vizio di motivazione ove, come nel caso
in esame, non sia stata denunciata l’omessa valutazione di un fatto decisivo ma
piuttosto si propone una alternativa valutazione dei medesimi fatti presi in
esame dalla Corte di merito.

9. L’ultimo motivo di ricorso, con il quale è
dedotta la violazione dell’art.
7 della legge 30 maggio 1970 n.300 è anch’esso infondato.

9.1. Sostiene la ricorrente che la società avrebbe
mutato in giudizio l’oggetto della contestazione che era stata formulata in
sede disciplinare ed aveva costituito la base del provvedimento di
licenziamento impugnato.

9.2. Va rammentato che il principio di necessaria
corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della
sanzione disciplinare, che vieta di infliggere un licenziamento sulla base di
fatti diversi da quelli contestati, può ritenersi violato qualora il datore di
lavoro alleghi, nel corso del giudizio, circostanze nuove che, in violazione
del diritto di difesa, implicano una diversa valutazione dei fatti addebitati.
Tale modifica non è tuttavia ravvisabile nel caso in cui si tratti di
circostanze confermative della condotta in relazione alle quali il lavoratore
possa agevolmente controdedurre ovvero quando, come nel caso in esame, le
stesse non modifichino il quadro generale della contestazione (cfr. Cass.
25/03/2019 n. 8293). In sostanza le condotte sulle quali è incentrato l’esame
del giudice di merito non devono nella sostanza fattuale differire da quelle
poste a fondamento della sanzione espulsiva, pena lo sconfinamento dei poteri
del giudice in ambito riservato alla scelta del datore di lavoro (cfr. Cass. 18/04/2019 n. 10853 e 10/02/2020 n. 3079).

9.3. Tanto premesso rileva il Collegio che la Corte
di merito, in esito ad un’ampia ed accurata ricostruzione, ha verificato che il
fatto contestato alla lavoratrice, dal quale è poi scaturito il provvedimento
di licenziamento, era risultato provato in giudizio. La condotta addebitata era
stata quella di aver procurato all’ex marito una scheda telefonica aziendale
che era stata poi da quest’ultimo utilizzata per fini personali. Ha quindi
accertato che, al di là della terminologia usata nella contestazione e poi in
giudizio, non solo la condotta era risultata dimostrata ma chiarito che non ne
erano mutati i tratti essenziali per il fatto che la materiale consegna della
scheda Sim era stata effettuata alla presenza della C. da parte del collega di
lavoro al quale era stata sollecitata da lei e che gliel’aveva materialmente
procurata. Come affermato correttamente dalla Corte di merito, si tratta di un
dettaglio che in nulla modifica i tratti della condotta oggetto dell’addebito.
L’aver presenziato alla consegna della scheda all’ex marito per il quale aveva
intercesso presso il collega è condotta del tutto equiparabile alla sua
materiale dazione. Ne consegue che la Corte non ha affatto basato il suo
giudizio su di un fatto mutato ed anzi è pervenuta alla conferma del
licenziamento solo dopo aver accertato che il fatto contestato era risultato
provato in tutti i suoi elementi sia oggettivi che soggettivi, in adesione ai
principi affermati da questa Corte e più sopra ricordati.

10. In conclusione, per le ragioni esposte, il
ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e
sono liquidate in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma dell’art.13
comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità che si liquidano in € 4.000,00 per compensi
professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli
accessori dovuti per legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R.,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 ottobre 2020, n. 22076
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