Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 14 ottobre 2020, n. 213

Questione di legittimità costituzionale, Art. 22, co. 1, lett. c), L. 30
aprile 1969, n. 153, Art.
10, co. 6, D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, Art. 1, co. 189, L. 23 dicembre
1996, n. 662, Cumulo della pensione con la retribuzione, Diritto alla
pensione, Condizione che tali soggetti non prestino attività lavorativa
subordinata alla data della presentazione della domanda di pensione, Non
fondata

 

Ritenuto in fatto

 

1. – Con ordinanza iscritta al registro ordinanze n.
127 del 2019, la Corte d’appello di Torino, sezione lavoro, ha sollevato, «in
relazione» all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2 (recte: 22), primo comma, lettera c),
della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici
e norme in materia di sicurezza sociale), dell’art. 10, comma 6, del decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del
sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre
1992, n. 421) e dell’art. 1,
comma 189, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione
della finanza pubblica).

La prima delle disposizioni censurate è collocata
nella parte della legge n. 153 del 1969 che
detta la «Disciplina del cumulo della pensione con la retribuzione» (artt. 20-22). Essa, nel riferirsi a
coloro che risultano «iscritti alle assicurazioni obbligatorie per
l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, dei
lavoratori delle miniere, cave e torbiere, dei coltivatori diretti, mezzadri e
coloni, degli artigiani e degli esercenti attività commerciali», sottopone il
diritto alla pensione alla condizione che tali soggetti «non prestino attività
lavorativa subordinata alla data della presentazione della domanda di
pensione».

La seconda delle disposizioni censurate è stata
introdotta dall’art. 11, comma
9, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza
pubblica). Tale disposizione, nel dettare la disciplina del «cumulo tra
pensioni e redditi da lavoro dipendente ed autonomo», ha stabilito quanto
segue: «Le pensioni di anzianità a carico dell’assicurazione generale dei
lavoratori dipendenti e delle forme di essa sostitutive, nonché i trattamenti
anticipati di anzianità delle forme esclusive con esclusione delle eccezioni di
cui all’articolo 10 del decreto-legge
28 febbraio 1986, n. 49, convertito, con modificazioni, dalla legge 18
aprile 1986, n. 120, in relazione alle quali trovano applicazione le
disposizioni di cui ai commi 1, 3 e 4 del presente articolo, non sono
cumulabili con redditi da lavoro dipendente nella loro interezza, e con i
redditi da lavoro autonomo nella misura per essi prevista al comma 1 ed il loro
conseguimento è subordinato alla risoluzione del rapporto di lavoro».

La terza delle disposizioni censurate ha stabilito
quanto segue: «Con effetto sui trattamenti liquidati dalla data di cui al comma
185, le pensioni di anzianità a carico dell’assicurazione generale obbligatoria
dei lavoratori dipendenti e delle forme di essa sostitutive, nonché i
trattamenti anticipati di anzianità delle forme esclusive della medesima, non
sono cumulabili, limitatamente alla quota liquidata con il sistema retributivo,
con redditi da lavoro di qualsiasi natura e il loro conseguimento è subordinato
alla risoluzione del rapporto di lavoro. A tal fine trovano applicazione le
disposizioni di cui ai commi 3, 4, e 7 dell’articolo 10 del decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 503. Ai lavoratori che alla data del 30
settembre 1996 sono titolari di pensione, ovvero che hanno raggiunto il requisito
contributivo di 36 anni o quello di 35 anni, quest’ultimo unitamente a quello
anagrafico di 52 anni, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui alla
previgente normativa. Il regime previgente continua ad applicarsi anche nei
confronti di coloro che si pensionano con 40 anni di contribuzione ovvero con
l’anzianità contributiva massima prevista dall’ordinamento di appartenenza,
nonché per le eccezioni di cui all’articolo 10 del decreto-legge 28
febbraio 1986, n. 49, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 aprile
1986, n. 120».

2.- In punto di fatto, il giudice rimettente
riferisce di dover giudicare sull’appello presentato contro la sentenza del
Tribunale ordinario di Torino n. 1382 del 17 luglio 2017.

In primo grado, B. C. aveva proposto ricorso contro
l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), deducendo di essere stato
dipendente della S. spa dal 1968 e di essersi dimesso con decorrenza 31
dicembre 2007. Successivamente – come riferisce il giudice rimettente – egli
aveva iniziato, con la medesima società, un nuovo rapporto di lavoro a tempo
parziale con decorrenza 7 gennaio 2008 e cessazione in data 26 aprile 2012. A
seguito di domanda presentata in data 28 gennaio 2008, l’INPS gli aveva
corrisposto la pensione di anzianità con decorrenza 1° febbraio 2008. Tuttavia,
a seguito di ulteriore domanda presentata in data 25 maggio 2012 – volta a
ottenere la liquidazione del supplemento di pensione in ragione del lavoro
prestato tra il 7 gennaio 2008 e il 25 aprile 2012 – l’INPS, con comunicazioni
del 4 aprile 2014 e del 6 maggio 2016, ha chiesto la restituzione della somma
di euro 278.781,87, assumendo l’indebita percezione della pensione a partire
dal 1° febbraio 2008 «in quanto la pensione di anzianità non spettava “per
mancata cessazione dell’attività lavorativa”».

B. C., pertanto, nel dedurre il suo «buon diritto a
percepire il citato trattamento pensionistico, cumulabile con i redditi da
lavoro, nonché l’illegittimità della richiesta di ripetizione, anche derivante
dall’applicabilità dell’art. 13 L.
412/91», ha chiesto – previo accertamento dell’infondatezza della pretesa
dell’INPS – la condanna dell’Istituto alla restituzione dei ratei di pensione
trattenuti dal mese di luglio 2016 e non corrisposti.

Con la sentenza appellata, il Tribunale di Torino ha
respinto le domande proposte dal B. C., il quale ha quindi proposto appello,
chiedendo la riforma della sentenza di primo grado. L’INPS si è costituito nel
giudizio di appello, chiedendone la reiezione.

2.1.- Ciò premesso, la Corte d’appello di Torino
solleva, d’ufficio, questione di legittimità costituzionale dell’art. 22, primo comma, lettera c),
della legge n. 153 del 1969, «nella parte in cui prevede, come requisito di
accesso alla pensione di anzianità, che gli assicurati “non prestino attività
lavorativa subordinata alla data di presentazione della domanda di pensione”»,
nonché delle norme successive (art.
10, comma 6, del d.lgs. n. 503 del 1992 e art. 1, comma 189, della legge n.
662 del 1996) «che ribadiscono tale condizione».

2.1.1.- In punto di rilevanza, il giudice rimettente
evidenzia che la richiesta di ripetizione avanzata dall’INPS nei confronti di
B. C. è basata proprio sull’(assenza del) requisito indicato dall’art. 22, primo comma, lettera c),
della legge n. 153 del 1969. Tale requisito è poi ribadito dalle altre due
disposizioni sottoposte al vaglio di questa Corte.

Si tratterebbe, secondo il rimettente, di
disposizioni tutt’oggi in vigore. La tesi della loro «eventuale abrogazione»,
per effetto del successivo «sviluppo normativo» in materia di cumulo tra
trattamento pensionistico e redditi da lavoro, sarebbe stata sconfessata dalla
giurisprudenza della Corte di cassazione, sviluppatasi dal 1984 e fino ai giorni
nostri, secondo cui il requisito dell’inoccupazione avrebbe tuttora natura di
elemento costitutivo del diritto alla pensione di anzianità.

Nel caso di specie, al momento della domanda di
pensione di anzianità (28 gennaio 2008) l’assicurato aveva risolto il
precedente rapporto di lavoro, ma aveva già avviato il nuovo rapporto di lavoro
subordinato, con decorrenza dal 7 gennaio 2008.

Secondo il giudice rimettente, pertanto, non poteva
essere riconosciuto il suo diritto alla pensione di anzianità, poiché non
sussisteva il requisito dello stato di inoccupazione.

2.1.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il
rimettente osserva quanto segue.

Le disposizioni relative al requisito della
inoccupazione «rispondevano alla ratio di “manifestare” lo stato di bisogno
dell’assicurato» e sono state introdotte in un momento in cui vigeva «un rigido
divieto di cumulo tra il trattamento di anzianità e le retribuzioni derivanti
da rapporti di lavoro subordinato».

Successivamente, il quadro normativo sarebbe «radicalmente
mutato». A partire dall’art. 72,
comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria
2001)», sarebbero state introdotte «disposizioni che progressivamente approdano
alla previsione di totale cumulabilità delle pensioni dirette di anzianità a
carico dell’AGO con i redditi da lavoro dipendente». Il rimettente richiama, al
riguardo, l’art. 44 della legge 27
dicembre 2002, n. 289, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003)», e l’art. 19 del decreto-legge 25 giugno
2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e
la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n. 133.

Tale evoluzione normativa avrebbe incidenza nella
fattispecie per cui è causa.

Ancor prima di iniziare il nuovo rapporto di lavoro
subordinato con la propria società datrice di lavoro, B. C. aveva maturato, ai
sensi dell’art. 44 della legge n.
289 del 2002, «una posizione contributiva tale da poter fruire del regime
di totale cumulabilità tra redditi da lavoro dipendente e pensione di
anzianità». Il rimettente sostiene che «se avesse presentato la domanda di
pensione nell’intervallo temporale, anche minimo, tra la risoluzione del
precedente rapporto di lavoro con la S. e l’instaurazione del successivo,
l’Inps avrebbe riconosciuto il diritto alla pensione di anzianità e l’assicurato
avrebbe potuto fruire del regime di totale cumulabilità».

Apparirebbe «ormai priva di ragionevolezza» la
permanenza del requisito dello stato di inoccupazione al momento della
presentazione della domanda di pensione. Le previsioni normative che richiedono
tale requisito non sarebbero più sorrette, a giudizio del rimettente, «dalla
ratio consistente nello stato di bisogno che giustifica l’erogazione del
trattamento».

3.- Con atto depositato il 1° ottobre 2019 è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato.

La difesa erariale, preliminarmente, eccepisce
l’inammissibilità della questione sotto due distinti profili.

In primo luogo, la questione sarebbe inammissibile
per mancata completa ricostruzione del quadro normativo di riferimento.
L’ordinanza di rimessione si sarebbe limitata «a una serie di brevi richiami ad
alcune delle previsioni intervenute nel tempo sulla materia», senza tuttavia
offrirne una ricostruzione organica e senza coglierne l’«effettiva ratio».

In secondo luogo, l’inammissibilità deriverebbe
«dall’estrema genericità» delle argomentazioni spese per sostenere la
violazione dell’art. 3 Cost. e del principio di
ragionevolezza. Tale violazione sarebbe «affermata in modo apodittico ed
immotivato», senza alcun vaglio delle ragioni sottese all’evoluzione del quadro
normativo («peraltro neppure individuato nella completezza delle previsioni via
via introdotte»). In sostanza, secondo l’Avvocatura dello Stato, la questione
così sollevata finirebbe «per lamentare indirettamente – come violazione dei
parametri costituzionali – la stessa mancata declaratoria di retroattività
delle previsioni che sarebbero venute ad elidere il divieto di cumulo tra
pensione di anzianità e altri redditi da lavoro dipendente e che –
conseguentemente – avrebbero eliminato lo stato di inoccupazione dai
presupposti per il riconoscimento del trattamento pensionistico».

Nel merito, peraltro, la questione sarebbe infondata.

L’ordinanza di rimessione confonderebbe due distinti
profili: l’uno, sostanziale, concernente il divieto di cumulo tra pensione di
anzianità e reddito da lavoro; l’altro, formale, che individua l’inoccupazione
quale requisito per la domanda di riconoscimento della pensione di anzianità.

Quanto al primo dei due profili, il giudice a quo
ometterebbe di confrontarsi con un «dato essenziale», costituito dal passaggio
dal sistema “retributivo” a quello “contributivo”. Non sarebbe affrontato il
tema del bilanciamento, da parte del legislatore, di contrapposte esigenze
economiche e sociali, anche in relazione alle «contingenti emergenze
finanziarie», evocate dalla giurisprudenza costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 241 del 2016 e n. 416 del 1999 di questa Corte).

Quanto al secondo profilo – definito come «autonomo»
rispetto al primo – l’Avvocatura richiama la giurisprudenza della Corte di
cassazione (citata anche dal rimettente) secondo cui il trattamento
pensionistico di anzianità è subordinato alla condizione di cessazione
dell’attività lavorativa alla data di presentazione della domanda. Proprio la
mancanza di tale requisito comporterebbe, nella fattispecie sottoposta al
giudizio del rimettente, l’impossibilità di riconoscere il diritto
all’erogazione del trattamento pensionistico. In tale prospettiva, risulterebbe
«addirittura irrilevante» la questione di costituzionalità sul cumulo tra
pensione e reddito da lavoro, questione che potrebbe essere affrontata «solo
dopo aver superato il preliminare profilo “formale” della sussistenza del
diritto alla pensione».

4.- Con atto depositato il 1° ottobre 2019, si è
costituito in giudizio l’INPS, parte appellata nel giudizio a quo, concludendo
per l’infondatezza della questione di costituzionalità.

L’INPS, preliminarmente, precisa che l’art. 22, primo comma, lettera c),
della legge n. 153 del 1969 è stato interpretato dallo stesso istituto, in
via amministrativa, «nel senso che la condizione di non prestare attività
lavorativa subordinata deve sussistere l’ultimo giorno del mese nel quale è
fatta la domanda». Ciò al fine di soddisfare l’esigenza del lavoratore di
mantenere lo stipendio «anche nell’arco di tempo tra la presentazione della
domanda e l’ultimo giorno del mese per poi passare a godere della pensione dal
primo giorno del mese successivo». L’INPS aggiunge che l’assicurato può
presentare domanda di pensione di anzianità «in un certo giorno di un certo
mese e deve risultare cessato dall’attività lavorativa dipendente l’ultimo
giorno di quello stesso mese, per poi accedere alla pensione, da inoccupato, il
primo giorno del mese successivo».

Sarebbe, pertanto, affetta da «travisamento»
l’affermazione, contenuta nell’ordinanza di rimessione, secondo cui, se
l’assicurato avesse presentato domanda nel breve intervallo temporale tra la
risoluzione del precedente rapporto di lavoro e l’instaurazione del successivo,
l’INPS gli avrebbe riconosciuto il diritto alla pensione di anzianità e il
regime di totale cumulabilità. Al contrario, egli non avrebbe comunque visto
garantito quel diritto, «poiché lavorava come dipendente l’ultimo giorno del
mese della domanda».

Il giudice rimettente non avrebbe tenuto conto della
differenza tra accesso a pensione e regime di cumulo tra reddito e pensione.
L’accesso alla pensione, coerentemente con i principi di cui all’art. 38 Cost., si giustificherebbe in relazione
allo «stato di bisogno», inteso come «la condizione di chi lascia la vita
lavorativa». In tale quadro, la condizione della cessazione dell’attività di
lavoro dipendente sarebbe «coerente con la natura della pensione che
costituisce l’esito di un rapporto assicurativo nel quale l’evento tutelato è
proprio la cessazione dal lavoro», e consisterebbe in «un presupposto destinato
ad incidere sul momento genetico del diritto».

Né vi sarebbe alcuna contraddizione con la
disciplina del cumulo, attinente al diverso e successivo momento
dell’esecuzione del rapporto obbligatorio già sorto. In tale frangente
verrebbero in rilievo scelte di «politica previdenziale» lasciate alla
discrezionalità del legislatore, cui spetta stabilire se affiancare al
requisito dell’inoccupazione (quale condizione per l’accesso alla pensione) il
divieto di cumulo dei redditi percepiti dopo tale accesso.

Del resto, consentire l’accesso alla pensione anche
a coloro che non abbiano cessato la propria attività lavorativa porterebbe a
«sovvertire la funzione dell’istituto, sganciandolo da ogni valutazione circa
la sua naturale vocazione a sostituire il reddito da lavoro dipendente».

 

Considerato in diritto

 

1.- Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte
d’appello di Torino, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento all’art. 3
della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 (recte:
22), primo comma, lettera c),
della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti
pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), «nella parte in cui
prevede che gli iscritti alle assicurazioni obbligatorie per la invalidità, la
vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti abbiano diritto alla
pensione di anzianità a condizione che “non prestino attività lavorativa
subordinata alla data della presentazione della domanda di pensione”».

La Corte rimettente dubita anche della
costituzionalità delle «norme successive», che «ribadiscono tale condizione», e
le individua nell’art. 10,
comma 6, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il
riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a
norma dell’articolo 3 della
legge 23 ottobre 1992, n. 421), nonché nell’art. 1, comma 189, della legge 23
dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica).

Nella controversia sottoposta, in grado d’appello,
alla cognizione del giudice a quo, un lavoratore dipendente è stato chiamato in
giudizio dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) per aver
indebitamente beneficiato di un trattamento di anzianità erogatogli per quattro
anni.

Secondo l’INPS, tale erogazione non sarebbe spettata
in quanto il lavoratore, al momento della domanda di pensione, aveva già
avviato – peraltro con lo stesso datore di lavoro – un nuovo rapporto di
lavoro, così facendo venir meno il requisito della “inoccupazione”.

Secondo la Corte rimettente, tale requisito sarebbe
in contrasto con il principio di ragionevolezza, in quanto «non rispondente ai
canoni di cui all’art. 3 della Costituzione». Esso è stato introdotto quando
vigeva il divieto di cumulo tra trattamento di anzianità e reddito da lavoro e
sarebbe ancora in vigore, come attestato dalla giurisprudenza della Corte di
cassazione, intesa quale «diritto vivente». Tuttavia, il quadro normativo
sarebbe poi radicalmente cambiato, poiché quel divieto è stato sostituito da
una regola opposta, che consente il cumulo tra pensione e retribuzione.
Apparirebbe ormai priva di ragionevolezza la perdurante vigenza del requisito
della “inoccupazione”, non più assistito, come in origine, dallo stato di
bisogno che giustifica l’erogazione del trattamento.

2.- Nell’intervenire in giudizio, il Presidente del
Consiglio dei ministri ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità della
questione per l’incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento e
per l’«estrema genericità» delle argomentazioni spese dal rimettente quanto al
profilo della non manifesta infondatezza.

Entrambe le eccezioni, da trattare congiuntamente,
sono fondate.

2.1.- La disciplina relativa al cumulo fra
trattamento pensionistico e retributivo, posta a fondamento della censura di
incostituzionalità per contrasto con l’art. 3 Cost.,
è evocata dal rimettente senza scandirne l’evoluzione diacronica e senza
indagare la ratio sottesa alle disposizioni medesime. L’ordinanza di rimessione
si limita a citare, in senso cronologico, le disposizioni che, a partire da
quanto in origine previsto dall’art.
22, settimo comma, della legge n. 153 del 1969, hanno via via disciplinato
la materia, giungendo infine a consentire il cumulo tra pensione e
retribuzione.

Senza addentrarsi in un’analisi testuale e
sistematica delle disposizioni, la Corte rimettente richiama l’art. 72, comma 1, della legge 23
dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», l’art. 44 della legge 27 dicembre 2002,
n. 289, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003)», e l’art. 19 del decreto-legge 25 giugno
2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e
la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n. 133.

Pur sostenendo che, per effetto della successione di
tali norme, sarebbe divenuto irragionevole il requisito della “inoccupazione”
ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione di anzianità, la Corte
rimettente non ha approfondito i tratti più significativi dell’evoluzione
normativa in materia di cumulo tra pensione e redditi da lavoro ma,
soprattutto, ha omesso di illustrare le ragioni dell’affermato legame fra
disciplina del cumulo e disciplina dei presupposti del diritto alla pensione di
anzianità e di individuarne la ratio sottostante.

Le disposizioni censurate sono presentate in ordine
cronologico al solo fine di far emergere un dato ritenuto comune: il
legislatore avrebbe ancorato il sorgere del diritto al trattamento
pensionistico di anzianità all’assenza di un rapporto di lavoro. Le norme
richiamate, sia pure con enunciazioni diverse, intenderebbero collegare la
condizione dello stato di inoccupazione del lavoratore alla questione del
divieto di cumulo fra trattamento pensionistico e reddito lavorativo. Il
diritto del lavoratore all’erogazione della pensione di anzianità, condizionato
allo stato di “inoccupazione”, risulterebbe connesso a tale divieto.

2.2.- La ricostruzione del quadro normativo fornita
dal giudice a quo si presenta lacunosa.

Ai fini dell’ammissibilità della questione di
costituzionalità, questa Corte non ritiene sufficiente la mera evocazione di
disposizioni distinte, collocate in contesti normativi diversi, senza che siano
illustrati i nessi che fra le stesse intercorrono.

Le lacune evidenziate finiscono per riverberarsi sul
petitum formulato dal giudice a quo, quanto alla mancata individuazione del
momento in cui, nel susseguirsi delle disposizioni censurate, si sarebbe
manifestato un vulnus tale da inficiarne la costituzionalità.

La Corte rimettente omette inoltre di esaminare
compiutamente il «diritto vivente» della Corte di cassazione, con riferimento
alla perdurante vigenza del requisito della inoccupazione. Tale giurisprudenza
si sofferma su quest’ultimo requisito e sulla disciplina del cumulo tra
pensione e reddito da lavoro, per segnalare che si tratta di regole e fasi
distinte (Corte di cassazione, sezione sesta
civile, ordinanza 20 luglio 2018, n. 19337, pur richiamata dal rimettente;
inoltre, anche più di recente, Corte di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 27 maggio 2019, n. 14417).

Tanto basta per ritenere carenti gli argomenti posti
a sostegno del requisito della non manifesta infondatezza della questione di
costituzionalità, poiché le lacune prima evidenziate si riflettono sull’iter
argomentativo che il rimettente pone a fondamento delle censure (ex multis,
ordinanze n. 147, n. 108 e n. 42 del 2020 e n. 202 del 2018).

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 22,
primo comma, lettera c), della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione
degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), dell’art. 10, comma 6, del decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del
sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre
1992, n. 421) e dell’art. 1,
comma 189, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di
razionalizzazione della finanza pubblica), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte d’appello
di Torino, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 14 ottobre 2020, n. 213
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