Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 ottobre 2020, n. 22985

Buoni pasto giornalieri, Pagamento del controvalore
pecuniario, Risarcimento del danno, Condizione dell’effettuazione della pausa
pranzo, Possibilità del dipendente di rinunciare alla pausa, Natura
assistenziale e non retributiva del buono

 

Rilevato che

 

1. A.L., dipendente del Ministero della Giustizia
addetta alla cancelleria Gip del Tribunale di Roma, ha prestato servizio dal
2001 al 2005, sulla base di un orario giornaliero dalle 8 alle 15,12, per
cinque giorni la settimana, rinunciando, con il consenso dell’Amministrazione,
alla pausa pranzo;

la L., non avendo percepito in tale periodo i buoni
pasto giornalieri, ha agito giudizialmente per ottenere il pagamento del
controvalore pecuniario, oltre al risarcimento del danno, con domanda che è
stata respinta dal Tribunale di Roma, la cui sentenza è stata poi confermata
dalla Corte d’Appello della medesima città;

la Corte d’Appello affermava che l’art. 4 del CCNL di riferimento
condizionava il riconoscimento del buono pasto all’effettuazione della pausa
pranzo, cui invece la ricorrente aveva rinunciato; d’altra parte, aggiungeva la
Corte, la circolare ministeriale del 10.2.1998,
nel riconoscere la possibilità del dipendente di rinunciare alla pausa, ma con
mantenimento del diritto al buono pasto, si riferiva al caso di recupero in
soli due giorni delle ore non effettuate nella sesta giornata settimanale, con
orario di lavoro di nove ore e restava subordinato ad esigenze di servizio;

nel caso di specie nulla era risultato in ordine
alla ricorrenza di ragioni organizzative di interesse dell’Amministrazione
nell’accogliere la domanda della L. di rinuncia alla pausa pranzo e dunque, al
di là del fatto che la circolare non poteva rivestire effetti normativi,
comunque non ricorrevano neppure i presupposti da essa indicati;

la L. ha proposto ricorso per cassazione con tre
motivi, resistiti da controricorso del Ministero;

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo la ricorrente afferma la
violazione del d.p.r. 3/1957, dell’art. 22 L. 724/1994, dell’art. 8 d. Igs. 66/2003, dell’art. 2, co. 11 L. 550/1995,
dell’art. 3, co. 1, L. 334/1997,
dell’art. 52 d. Igs. 29/1996, della Circolare 10 febbraio
1998 ed inoltre dell’Accordo Sindacale 30.4.1996, integrato dall’Accordo
12.12.1996, nonché dell’art. 19,
co. 4 CCNL (orario di lavoro) e dell’art. 7, co. 1 CCNL 12.1.1996;

il motivo è infondato;

come è noto, il diritto alla fruizione dei buoni
pasto ha natura assistenziale e non retributiva, finalizzata ad alleviare, in
mancanza di un servizio mensa, il disagio di chi sia costretto, in ragione
dell’orario di lavoro osservato, a mangiare fuori casa (Cass. 28 novembre 2019, n. 31137; Cass. 8 agosto
2012, n. 14290);

esso, data tale natura, dipende strettamente dalle
previsioni delle norme o della contrattazione collettiva che ne consentano il
riconoscimento;

in particolare, qualora di regola esso sia
riconnesso ad una pausa, destinata al pasto, il sorgere del diritto dipende dal
fatto che quella pausa sia in concreto fruita;

le norme primarie (art. 3, co. 1, L. 334/1997 e art. 2, co. 11, L. 550/1995)
si limitano del resto a rinviare, per le regole di attribuzione dei buoni
pasto, ad appositi accordi collettivi;

nel caso di specie i presupposti del diritto sono
fissati dall’art. 4, co. 2, dell’accordo collettivo sul riconoscimento dei
buoni pasto, secondo cui «il buono pasto viene attribuito per la singola
giornata lavorativa nella quale il dipendente effettua un orario di lavoro
ordinario superiore alle sei ore, con la relativa pausa prevista dall’art. 19,
comma 4, del CCNL, all’interno della quale va consumato il pasto»;

l’art.
19, co. 4, del CCNL del 1995, ivi richiamato, stabilisce a propria volta
che «dopo massimo sei ore continuative di lavoro deve essere prevista una pausa
che comunque non può essere inferiore ai 30 minuti», previsione sostanzialmente
analoga a quella dell’art. 7, co.
1, CCNL 1996 cui fa parimenti riferimento il motivo di ricorso; questa
Corte, interpretando norme di formulazione sostanzialmente identica a quelle
appena evidenziate, seppure in relazione all’area dirigenziale, ha in effetti
ritenuto che «in materia di trattamento economico del personale del comparto
Ministeri, il cosiddetto buono pasto non è, salva diversa disposizione,
elemento della retribuzione “normale”, ma agevolazione di carattere
assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente
occasionale», la quale quindi «spetta solo ove ricorrano i presupposti di cui
all’art. 4 dell’accordo di comparto del personale appartenente alle qualifiche
dirigenziali del 30 aprile 1996, che ne prevede l’attribuzione ai dipendenti
con orario settimanale articolato su cinque giorni o turnazioni di almeno otto
ore, per le singole giornate lavorative in cui il lavoratore effettui un orario
di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la pausa all’interno della
quale va consumato il pasto, dovendosi interpretare la regola collettiva nel
senso che l’effettuazione della pausa pranzo è condizione di riconoscimento del
buono pasto» (Cass. 14290/2012 cit.); nel caso di specie è pacifico che la
pausa pranzo non sia stata fruita, per rinuncia ad essa della lavoratrice,
evidentemente al fine di poter terminare anticipatamente, nel primo pomeriggio,
la prestazione di lavoro;

pertanto, in mancanza di pause, non sono integrati
gli estremi cui la disciplina collettiva subordina il diritto alla prestazione;

il motivo, nella parte in cui denuncia la
«violazione e/o falsa applicazione della Circolare 10 febbraio 1998» è invece
inammissibile; è noto infatti che le circolari non sono fonte del diritto ma
semplici presupposti chiarificatori della posizione espressa dalla P.A. su un
dato oggetto (Cass. 12 gennaio 2016, n. 280; Cass. 14 dicembre 2012, n. 23042; Cass. 27 gennaio 2014, n. 1577; Cass. 6 aprile
2011, n. 7889), sicché la loro ipotetica violazione non è denunciabile in
cassazione sotto il profilo (art. 360 n. 3 c.p.c.)
della violazione o falsa applicazione di norme di diritto (Cass. 10 agosto
2015, n. 16644; Cass. 30 maggio 2005, n. 11449),
né la censura è stata fatta come violazione dei criteri ermeneutici (art. 1362 ss. c.c.) relativi ad atti unilaterali
(amministrativi nella specie);

né ha rilievo la veridicità o meno della rinuncia
della L. ai buoni pasto, da essa negata, in quanto è sufficiente che vi sia
stata rinuncia alle pause, quale elemento necessario al riconoscimento del
diritto; quanto poi all’argomento sviluppato dalla ricorrente secondo cui l’articolazione
dell’orario, nel pubblico impiego, non potrebbe mai basarsi su esigenze
personali del lavoratore, esso non muta le conclusioni da assumere;

è indubbio infatti che la P.A. possa negare il
consenso alla rinuncia alla pausa pranzo, se ciò entri in contrasto con le
proprie esigenze di servizio, ma ciò non significa che una tale articolazione
oraria, se derivante da richiesta del lavoratore, non risalga ad un’autonoma
decisione di quest’ultimo della quale, se l’effetto sia quello di far venire meno
uno dei presupposti per la fruizione dei buono pasto, lo stesso non possa
lamentarsi nei riguardi del proprio datore di lavoro; non può poi affermarsi la
coincidenza della rinuncia alla pausa concomitante con l’esigenza di un
servizio ininterrotto, di cui alla Circolare, con il consenso ad una rinuncia
alla pausa prospettata dal dipendente e cui la P.A. si limiti a consentire, in
quanto in quest’ultimo caso non vi è la ineludibile esigenza amministrativa di
un servizio ininterrotto, ma solo l’accettazione di esso come tale, per
avallare la domanda del dipendente;

altra questione è se l’organizzazione oraria
comunque definita risulti eventualmente in contrasto con la disciplina sui
riposi e le pause, tra cui le norme, citate dalla ricorrente nel motivo, di cui
all’art. 22 L. 724/1994 e
dell’art. 8 d. Igs. 66/2003;

ciò tuttavia potrebbe avere rilievo non sul diritto
a percepire i buoni pasto, che dipende dal verificarsi dei corrispondenti e
specifici presupposti, ma semmai rispetto ad eventuali danni, anche alla
persona, che dovessero essere derivati dall’indebita modalità di organizzazione
del lavoro, ma non è questo l’oggetto del contendere quale impostato in causa;

il secondo motivo afferma, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa
applicazione degli artt. 1218 e 1223 c.c., sostenendo che alla ricorrente sarebbe
spettato il risarcimento del danno per equivalente derivante da inadempimento
della controparte;

l’inadempimento, anche in tale motivo, è
identificato nel rifiuto di corrispondere i buoni pasto, ma è evidente
l’insostenibilità dell’assunto, in quanto se i buoni pasto non erano dovuti,
tale inadempimento non può esservi, mentre del tutto evanescente e non meglio
specificato risulta, nei tratti concreti ulteriori rispetto ad un inadempimento
che in sé non vi è stato, il richiamo, parimenti contenuto nel motivo, ai
principi di buona fede e correttezza;

il terzo motivo è dedicato infine alla denuncia di
violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 2697 c.c. e 115
e 414 c.p.c. (art.
360 n. 3 c.p.c.) oltre che all’omesso esame circa un fatto decisivo per il
giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.);

nel corpo del motivo si censura in realtà
esclusivamente il fatto che i giudici di appello non abbiano ammesso le prove
pur articolate nel ricorso di primo grado e sulle quali la ricorrente aveva
insistito anche con l’atto di appello;

il motivo è del tutto generico, non indicando
neppure il contenuto di tali prove, sicché ne è palese l’inammissibilità;

al rigetto del ricorso segue la regolazione secondo
soccombenza delle spese del giudizio di legittimità;

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità,
che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115
del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
-bis, dello stesso articolo 13,
se dovuto.

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