Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 ottobre 2020, n. 22063

Licenziamento annullato, Reintegrazione nel posto di lavoro e
condanna della parte datoriale a risarcimento del danno, Retribuzioni maturate
dal momento del recesso sino alla disposta reintegra, Opzione per l’indennità
sostitutiva, Spettanza dell’indennità risarcitoria, pur sempre condizionata
all’illegittimità del licenziamento, Alcuna facoltà alternativa
nell’ottemperanza dell’ordine del giudice

 

il Tribunale di Roma accoglieva parzialmente
l’opposizione al decreto ingiuntivo, emesso ad istanza del dipendente A., a
carico della datrice di lavoro T.I.S. .S.p.a., per il pagamento della somma di
euro 436.143,40 pretesa dal dipendente, quanto a euro 198.247 a titolo di 15
mensilità della retribuzione globale di fatto (€13216,47 mensili) e, quanto a
237.896,40 euro, per retribuzione globale di fatto relativa al periodo ottobre
2009 / marzo 2011.

A sostegno del provvedimento monitorio il creditore
istante aveva richiamato la sentenza, di primo grado, con la quale era stato
annullato il licenziamento intimatogli il 16 dicembre 2005, con ordine altresì
di reintegrazione nel posto di lavoro occupato e con la condanna di parte
datoriale a risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate dal momento
del recesso sino alla disposta reintegra, sulla base della retribuzione globale
di fatto percepita dal dipendente presso la sede di Hong Kong. In particolare,
il giudice adito aveva escluso la sussistenza del diritto del ricorrente ad
esercitare opzione a favore dell’ indennità sostitutiva, risultando provato che
il lavoratore, inviato dalla società, aveva ripreso servizio in Roma, dove
aveva lavorato dal 2 al 15 dicembre 2009, allorché aveva comunicato l’opzione
per l’indennità sostitutiva, sicché la ripresa del rapporto escludeva anche il
diritto al risarcimento del danno ex art. 18 I. n. 300/70 per il
periodo successivo. Tuttavia, era stato riconosciuto il diritto alla
retribuzione dovuta per i mesi di ottobre e novembre 2009, in ragione di
complessivi 17.111,51 euro, con esclusione dal computo della voce
“rimborso spese di viaggio”;

la sentenza veniva appellata dall’A., secondo il
quale, in particolare, nella specie non era configurabile la ripresa
dell’attività lavorativa, avendo la società opponente omesso di disporre
l’ordinata reintegra presso la sede di Hong Kong, laddove per l’accesso alla
sede romana, era stato rilasciato mero permesso d’ingresso come per gli ospiti,
donde anche l’erroneità della succitata esclusione della voce rimborso spese
viaggio dal computo della retribuzione globale dovuta. All’appello del
dipendente resisteva parte datoriale, che spiegava a sua volta impugnazione
incidentale, evidenziando l’erroneità dell’importo riconosciuto per le due
mensilità non corrisposte, tenuto conto della sopraggiunta, nelle more,
pronuncia d’appello nella causa relativa al licenziamento, con riforma parziale
di quanto ivi statuito in prime cure, rideterminando la retribuzione spettante in
base allo stipendio corrisposto presso la sede di Roma nell’anno 2005 e non già
a Hong-Kong, per cui si era trattato di una mera trasferta;

la Corte d’Appello di Roma con sentenza n. 7140 del
14 – 16 ottobre 2015 rigettava l’impugnazione principale, accogliendo quella
incidentale, nel senso che la retribuzione globale di fatto, con riferimento al
licenziamento annullato, andava commisurata a quella corrisposta in seguito al
rientro in Roma, sicché la gravata decisione veniva in parte riformata con la condanna,
quindi, della società al pagamento, in favore dell’A., delle due mensilità
della retribuzione, però rapportata alla retribuzione percepita in Roma alla
data del recesso (3271,85 euro mensili), oltre accessori di legge. Le spese
relative al secondo grado di giudizio, infine, venivano per intero compensate;

avverso la decisione d’appello ha proposto ricorso
per cassazione il sig. A.A., come da atto notificato in data 11 febbraio 2016,
affidato a tre motivi, cui ha resistito T.I.S. S.p.a. mediante controricorso di
cui alla posta elettronica certificata in data 21 marzo 2016.

 

Considerato che

 

con il primo motivo il ricorrente deduce violazione
e falsa applicazione dell’art.
18, comma V, L. n. 300/1970 (secondo il testo ratione temporis vigente nel
caso di specie), per aver l’impugnata decisione ritenuto che il diritto di
opzione dell’indennità sostitutiva non fosse più esercitabile, anche se non era
decorso il termine di giorni trenta previsto dalla norma, nel caso di mera
ripresa fittizia del servizio per inottemperanza o elusione dell’ordine di
reintegrazione da parte del datore di lavoro. La Corte capitolina, infatti,
aveva ingiustamente ritenuto che in tal caso il diritto de quo si fosse
consumato con la mera adesione all’invito di parte datoriale, disapplicando il
principio dell’effettività dei rimedi giurisdizionali. Ad ogni modo, la Corte
distrettuale avrebbe dovuto individuare nel rispetto del termine di trenta
giorni il requisito sufficiente per il legittimo esercizio dell’opzione
all’indennità sostitutiva e del risarcimento del danno, anche nel caso di
ripresa del servizio, che nella specie comunque non vi era stata, non essendo
mai stata ripristinata la funzionalità di fatto del rapporto di lavoro;

con il secondo motivo il ricorrente ha lamentato
omesso esame di un fatto decisivo per il «giudizio, che aveva formato oggetto
di discussione tra le parti. In particolare, non si era tenuto conto di due
circostanze, peraltro non contestate tra le parti: l’accesso alla sede romana
del dipendente con il badge rilasciato agli ospiti e l’assenza di un ordine di
trasferimento, successivo al 2.12.2009 da Hong Kong a Roma per comprovate
esigenze organizzative. Al riguardo il ricorrente ha pure dedotto che all’epoca
del licenziamento prestava servizio a Roma, da circa dieci mesi in virtù di un
trasferimento dichiarato illegittimo, come da relativa pronuncia del giudice
del lavoro di Roma, che aveva individuato in Hong Kong la sede estera quale
luogo della disposta reintegrazione. La Corte capitolina, però, non aveva
esaminato in alcun modo dette circostanze, significative del mancato ripristino
della funzionalità del rapporto e della conseguente mancata consumazione del
diritto di opzione, stante l’assenza di un ritorno effettivo nel posto di
lavoro indicato nella sentenza n. 14320/09;

con il terzo motivo è stata dedotta la falsa
applicazione dell’art. 18 L.
n. 300/1970 ante riforma e dell’art. 336 c.p.c.,
avendo la Corte d’Appello erroneamente ritenuto che la riforma della pronuncia,
che aveva sancito l’illegittimità del trasferimento da Hong Kong a Roma (dove
il dr. A. era stato costretto a lavorare per dieci mesi), avesse privato di
pregio le argomentazioni dello stesso ricorrente circa l’inconfigurabilità di
una reintegrazione formale, dovendo giuridicamente questa avvenire nella sede
effettiva. In realtà, secondo parte ricorrente, la caducazione (parziale,
limitatamente al trasferimento) della succitata sentenza n. 14320/2009,
provvisoriamente esecutiva al momento dell’esercizio del diritto di opzione, ai
sensi dell’art. 336 c.p.c. propagava i suoi
effetti soltanto sugli atti dipendenti dalla stessa pronuncia riformata, ma non
sul diritto potestativo del lavoratore di richiedere l’indennità sostitutiva,
che non soggiaceva agli effetti espansivi di cui all’art.
336, come invece ritenuto erroneamente dalla Corte territoriale, a tal
proposito richiamandosi il precedente di Cass.
lav. n. 4874/15;

tanto premesso, le anzidette doglianze vanno
disattese per le seguenti ragioni; si devono, in primo luogo, rilevare non
trascurabili difetti di autosufficienza (in part. ex art.
366, co. 1, n. 6 c.p.c.), con ogni conseguente inammissibilità, nel ricorso
di cui è processo; si è, invero, omessa la compiuta riproduzione dei fatti e
degli antefatti di causa, nonché della decisione di primo grado, in seguito
pressoché integralmente confermata dalla sentenza qui impugnata, oltre che dei
motivi a sostegno del gravame interposto contro la prima pronuncia, (la
sentenza n. 14320/2009 pronunciata nel giudizio avverso il licenziamento del 16
dicembre 2005, la quale tra l’altro, secondo la Corte capitolina e la
controricorrente, non indicava affatto la sede Hong Kong come luogo della
reintegrazione ivi disposta, avendovi fatto riferimento soltanto per
l’individuazione della retribuzione globale da computare) e della successiva
decisione d’appello n. 6484/2013, che riformava quasi per intero quella gravata
del 2009 (sentenza d’appello, comunque, anch’essa provvisoriamente esecutiva
come per legge, peraltro secondo la controricorrente addirittura passata in
giudicato per difetto d’impugnazione, e che ad ogni modo non risulta essere
stata cassata);

invero, la Corte di merito ha motivatamente
accertato, in punto di fatto, con conseguente insindacabilità della circostanza
in questa sede, in base ai plurimi elementi di cognizione già richiamati dal
giudice di primo grado, l’intervenuta reintegrazione del lavoratore istante nel
posto di lavoro, a seguito della dichiarata illegittimità del recesso, poiché
egli, invitato a riprendere servizio con lettera del 27 novembre 2009, il
successivo due dicembre rientrò in azienda per essere assegnato ad una
specifica struttura (Consulting Service Business Development), ricevendo in
dotazione un cellulare ed una sim card aziendale, frequentando poi/locali
d’ufficio sino al 15 dicembre, allorché soltanto manifestò l’opzione per
l’indennità sostitutiva, dopo aver dato atto tra l’altro delle ragioni addotte
a sostegno dell’appello, tra cui pure la dotazione di un permesso di accesso
alla sede romana proprio degli ospiti (ossia il badge provvisorio, così
indicato da parte controricorrente). In tale contesto fattuale, quindi, secondo
la Corte di merito, risultava ineccepibile quanto ritenuto dal Tribunale circa
l’effettiva accettazione dell’invito datoriale , comunicato all’A. dopo la
pronuncia che aveva disposto la reintegrazione dello stesso nel posto di
lavoro, con ovvia preclusione per il successivo ripensamento e per la tardiva
richiesta di opzione; altrettanto correttamente, secondo la Corte capitolina,
il Tribunale aveva evidenziato che gli inadempimenti lamentati dall’appellante
non interferivano sulla ripresa della collaborazione lavorativa, potendo solo
costituire autonome ragioni di tutela in altre sedi, «nella misura in cui, può
aggiungersi, possano risultare indipendenti dal concorso di volontà del
ricorrente, certamente sussistente ai fini della ripresa de/lavoro in Roma,
attese le peculiarità sopra descritte…», per giunta senza la formulazione di
riserve di sorta. Per di più, secondo la Corte distrettuale, le statuizioni
della sentenza d’appello, versata in atti (ossia quella che nell’anno 2013
aveva riformato la prima pronuncia, risalente al 2009), soprattutto circa
l’esclusione del pregresso trasferimento di sede a Hong-Kong, risultando il
ricorrente ivi in trasferta, privavano di ogni pregio il più suggestivo degli
argomenti dedotti a sostegno del gravame, ossia l’insussistenza di una formale
reintegrazione, dovendo la stessa giuridicamente avvenire presso la sede
effettiva. «E ciò a tacere del duplice rilievo, da un lato, che l’intimato
licenziamento, poi annullato, è avvenuto per vicende occorse quando il
ricorrente era rientrato e rendeva ormai, da circa dieci mesi, la prestazione
nella sede romana, e, dall’altro, che nella sentenza (quella, evidentemente,
relativa all’impugnativa di licenziamento) non è indicata la sede estera quale
luogo della disposta reintegra», laddove, poi, quanto alla misura della
retribuzione globale di fatto, operava la precedente sentenza d’appello (del
2013), secondo cui occorreva aver riguardo “alla retribuzione corrisposta
successivamente al rientro in Roma”;

risulta, pertanto, inammissibile il primo motivo,
con il quale in effetti parte ricorrente pretende il riesame, in questa sede di
legittimità, di quanto in punto di fatto accertato dalla Corte di merito circa
la riscontrata piena reintegrazione, nei primi giorni di dicembre 2009, del
lavoratore nel posto occupato prima del licenziamento dichiarato illegittimo.
Parimenti, quindi, va detto in relazione al secondo motivo di ricorso, tenuto
conto di quanto conformemente e motivatamente ritenuto dai giudici di primo e
secondo grado del giudizio di merito, laddove non risulta, evidentemente,
omesso l’esame di alcun fatto decisivo ex art. 360
n. 5 c.p.c. per le sopraindicate ragioni, non rilevando in proposito le
contrarie opinioni del ricorrente né sul punto alcuna quaestio juris;

sono altresì infondate le doglianze mosse con il
terzo motivo, peraltro largamente inammissibili alla stregua dell’anzidetto
difetto di autosufficienza, tenuto conto, in via principale, anche qui,
dell’accertamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, circa
l’intervenuta valida reintegrazione nel posto di lavoro in forza di quanto
disposto dalla sentenza d’invalidazione del licenziamento intimato nel dicembre
2005, con conseguente «ovvia preclusione per il successivo ripensamento» in
ordine all’opzione ormai tardivamente manifestata. Né giovano al riguardo le
tesi di parte ricorrente con riferimento al richiamato precedente di cui alla
sentenza di questa Corte, sezione lavoro, n.
4874/15, in data 22 ottobre 2014 / 11 marzo 2015, alle cui articolate
motivazioni conviene, invero, compiutamente e correttamente, rapportarsi [«

12. Questa ricostruzione del diritto all’indennità
sostitutiva sganciata dall’ordine del giudice e con effetti
“sostanziali” (rectius: estintivi) sulla stessa persistenza del
rapporto di lavoro, è confermata anche dalla recente sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte, del 27 agosto 2014, n.
18353, la quale, pur riconoscendo che l’indennità sostitutiva nasce
“per così dire come istituto processuale connesso alla prescritta
provvisoria esecutorietà dell’ordine di reintegrazione (pronuncia in primo
grado o, in ipotesi, in grado d’appello)…. Quest’ultima poi si evolve come
istituto sostanziale nel momento in cui si sgancia dall’ordine di
reintegrazione: diventa una delle conseguenze del licenziamento illegittimo in
regime di tutela reale. Se il lavoratore illegittimamente licenziato può
chiedere al giudice solo la condanna del datore di lavoro al pagamento
dell’indennità sostitutiva, quest’ultima si “affianca” all’indennità
risarcitoria e va a completare il quadro delle conseguenze economiche
compensative del licenziamento illegittimo. Ossia assume la veste di istituto
sostanziale e non più solo processuale. C’è comunque che nell’uno e nell’altro
caso la spettanza dell’indennità risarcitoria è pur sempre condizionata
all’illegittimità del licenziamento che è controverso e per il cui accertamento
c’è una lite tra le parti. Rimane quindi un nesso che lega l’indennità
sostitutiva al processo: l’opzione del lavoratore non è in alcun caso
equivalente ad un’indennità per recesso per dimissioni per giusta causa.
Insomma non c’è un’obbligazione del datore di lavoro che nasca dal rapporto e
in ordine alla quale ci si debba interrogare in quale categoria civilistica sia
da inquadrare nelle obbligazioni con prestazioni alternative oppure in quelle
con facoltà alternativa, caratterizzate, le prime, dalla deduzione nel vincolo
obbligatorio di più prestazioni poste sul piano di parità, e le seconde da più
prestazioni poste in subordinazione tra loro, in modo che il debitore può liberarsi
-eseguendo la prestazione secondaria solo se rispetto ad essa sia stata
esercitata, dal soggetto a cui è rimessa, la facoltà di scelta. C’è una
pronuncia del giudice di condanna del datore di lavoro a reintegrare nel posto
di lavoro il lavoratore illegittimamente licenziato, pronuncia provvisoriamente
esecutiva alla quale il datore di lavoro deve prestare ottemperanza; ove però
il lavoratore eserciti l’opzione per l’indennità sostitutiva, non si innesta
alcuna facoltà alternativa nell’ottemperanza dell’ordine del giudice, ma questo
risulta mutato nell’oggetto perché dal momento in cui l’opzione del lavoratore
è comunicata al datore di lavoro e quindi è efficace, l’ottemperanza all’ordine
di reintegra è possibile solo con la corresponsione dell’indennità sostitutiva.
Il datore di lavoro non può più dare esecuzione all’ordine del giudice
pretendendo che il lavoratore riprenda il servizio, così come il lavoratore in
ipotesi reintegrato non può più pretendere, re melius perpensa. il pagamento
dell’indennità sostitutiva”.

13. Anche le Sezioni Unite di questa Corte
riaffermano, così, l’inscindibile e stretto collegamento tra pronuncia di
illegittimità del licenziamento e diritto potestativo del lavoratore di
richiedere l’indennità sostitutiva, diritto che, una volta esercitato produce
effetti sostanziali irreversibili, determinando l’estinzione del rapporto e,
conseguentemente, liberando il datore di lavoro dall’obbligo della
reintegrazione.

14. Del resto, questo è l’effetto pratico tipico
dell’altematività, quale diritto potestativo che consente al debitore (o, come
in questo caso, al creditore) di sostituire “in limine solutionis” la
prestazione dovuta con altra prestazione: una volta effettuata la scelta. si
determina la cosiddetta “concentrazione” ossia, come inseana la
dottrina. “il fenomeno Per cui si risolve l’alternativa. Si determina
l’unica prestazione e si eliminano le altre”. L’effetto della
“concentrazione” è dunque Quello di estromettere dall’obbliaazione
tutte le altre Prestazioni, con esclusione di Quella su cui la concentrazione è
caduta.

15. Ed è pure di tutta evidenza che la scelta,
sostanziandosi dal punto di vista economico in una situazione di vantaggio
attribuita al soggetto ad essa legittimato, deve essere riguardata non solo
sotto l’aspetto dell’attribuzione del relativo potere ad uno dei soggetti
dell’obbligazione ma anche sotto quello del perfezionamento della fattispecie
solutoria.

17. L’art. 18, quinto comma, nel testo applicabile
ratione temporis alla presente fattispecie, prevede tale termine, disponendo
che: “Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento
dell’invito del . -datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia
richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza
il pagamento dell’indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si
intende risolto allo spirare dei termini predetti”. Lo spirare,
alternativamente, dell’uno o dell’altro termine, è dal legislatore inteso come
manifestazioni implicita della volontà del lavoratore di non proseguire il
rapporto, ma, nel contempo, consuma la facoltà di questi di optare per
l’indennità sostitutiva, in un’evidente ottica di bilanciamento dei
contrapposti interessi, nel senso che, se è vero che, come sopra si è
sostenuto, tale facoltà può essere esercitata anche prima della sentenza che
accerti l’illegittimità del licenziamento – non potendo essere rimessa
all’arbitrio del datore di lavoro che, revocando il licenziamento, pregiudichi
il diritto di opzione -, è altrettanto vero che il lavoratore non può lasciare
indefinitamente in sospeso la determinazione della prestazione del datore di
lavoro. E ciò “nell’ovvia esigenza di contenere in tempi ragionevoli la
situazione di incertezza conseguente ad una pronunzia di accoglimento”
(cfr. Cass., n. 25210/2006, cit.).

17.1. La scelta diviene irrevocabile con
l’esecuzione d’una delle due Prestazioni, ovvero con la dichiarazione di scelta
comunicata all’altra parte (art. 1286 c.c..
comma 2): “esercitando la facoltà di scelta. il lavoratore rinuncia alla
prestazione alternativa: scegliendo l’indennità, egli rinuncia alla
continuazione del rapporto di lavoro. In tal modo, il rapporto di lavoro si
risolve al momento dell’esercizio dell’opzione: con la scelta dell’indennità.
Come negozio giuridico, la scelta è irreversibile” (Cass., 17 febbraio 2009, n. 3775; Cass. 13 agosto 1997, n. 7581).

19. L’alternatività delle facoltà riconosciute
lavoratore e l’irreversibilità della sua scelta operano, evidentemente, anche
quando il lavoratore abbia ripreso servizio, manifestando in tal modo una
volontà incompatibile con la rinuncia alla prosecuzione del rapporto (Cass., n. 3775/2009, cit.), non potendosi
consentire un regime diverso tra le due ipotesi né giustificare il mantenimento
del rapporto di lavoro in uno stato di incertezza circa la sua stabilità ed il
suo ulteriore svolgimento.

20. Una tale soluzione appare dettata anche da
ragioni di coerenza interna nell’ordinamento, oltre che dalle stesse finalità
del diritto di opzione sopra evidenziate: esse sarebbero evidentemente
frustrate ove si riconoscesse al lavoratore che, per effetto della sentenza che
abbia disposto la sua reintegra nel posto di lavoro, abbia accettato di
proseguire nel rapporto, il diritto di optare per l’indennità sostitutiva in un
momento successivo, ritenuto a lui Più conveniente.

21. Diversamente opinando, per un verso, si
altererebbe quell’equilibrio tra i due contrapposti -interessi in campo, che
invece deve ritenersi imprescindibile, là dove si è attribuita al lavoratore
una posizione di vantaggio, costituita dal diritto di scelta, che non può
gravare oltre misura sulla posizione del datore di lavoro, dovendosi
ragionevolmente presumere che quest’ultimo, per effetto di tale scelta, abbia
predisposto o mantenuto una certa organizzazione dell’impresa; per altro verso,
si ostacolerebbe quella “ratio” deflattiva del processo e di
semplificazione dei rapporti, che è stata una delle ragioni dell’intervento
de/legislatore del 1990 sull’art.
18.

22. Ricostruito il diritto di opzione in termini
“sostanziali” e di autonomia rispetto all’ordine giudiziale di
reintegrazione, appare inconferente il richiamo all’art.
336 c.p.c., comma 2, nel testo modificato a seguito della riforma
introdotta dalla L. 26 novembre
1990, n. 353, art. 48.

23. Non è qui in discussione l’affermazione che
tanto la reintegrazione quanto l’indennità sostitutiva sono destinate ad essere
travolte dalla riforma della sentenza (ancorché con sentenza non passata in
giudicato) che abbia dichiarato la legittimità del licenziamento: ne’ è in
contestazione il principio secondo cui, per l’art.
336 c.p.c., gli effetti espansivi esterni della sentenza di riforma
comportano non soltanto la caducazione immediata della sentenza riformata (le
cui statuizioni vengono sostituite automaticamente da quelle della sentenza di
riforma), ma anche l’immediata propagazione delle conseguenze della sentenza di
riforma agli atti dipendenti dalla sentenza impugnata, senza necessità di
attendere il passaggio in giudicato.

23.1. È infatti indubbio che, in forza di tale
norma, la riforma in appello della sentenza che ha accertato l’illegittimità di
un licenziamento e ordinato la reintegrazione del lavoratore comporta non soltanto
la perdita di effetti dell’accertamento dell’illegittimità e dell’ordine
ripristinatorio, ma altresì il venir meno della ricostituzione del rapporto di
lavoro provvisoriamente riaffermata da quell’ordine e la restituzione al
licenziamento della sua piena efficacia estintiva fin dalla data della sua
intimazione (Cass., 14 gennaio 2005, n. 637; Cass.,
16 marzo 2004, n. 5347; Cass., 27 giugno 2000, n. 8745; v. pure Cass., ord. 3 luglio 2014, n. 15251, e Cass., 17 agosto 2004, n. 16037, che ritengono
ripetibili le somme corrisposte in esecuzione di un provvedimento d’urgenza
“ante causam”, emanato ai sensi dell’art.
700 c.p.c., successivamente revocato dalla sentenza di merito che accertava
la legittimità del recesso, in quanto giustificate dall’obbligo risarcitorio,
derivante dall’illegittimità del licenziamento).

23.2. Così come è indubbio che, nel caso in cui sia
stata esercitata l’opzione di cui al comma 5, la -sentenza, che in riforma di
una precedente pronuncia dichiari la legittimità del licenziamento, comporta
l’obbligo del lavoratore di restituire l’indennità ricevuta (Cass., 22 agosto 2003, n. 12364; Cass., 12 novembre 2007, n. 23483; Cass., 13
giugno 2014, n. 13492).

23.3. Ed anche l’estromissione de/lavoratore
dall’azienda a seguito della riforma della sentenza che aveva dichiarato
l’illegittimità del licenziamento “non può essere considerato come un
nuovo licenziamento, bensì come mera comunicazione della definitiva cessazione
del rapporto per effetto della riconosciuta legittimità del precedente
licenziamento e quindi della sua riacquistata idoneità a determinare “ex
tunc” il suddetto effetto. (Cass., 27 giugno 2000, n. 8745).

24. Ciò vale anche in caso di sentenza d’appello e
di sentenza resa a seguito di cassazione con rinvio, dovendosi ritenere che, in
tal caso, non si ha una reviviscenza della sentenza di primo grado, posto che
la sentenza del giudice di rinvio non si sostituisce ad altra precedente
pronuncia, riformandola o modificandola, ma statuisce direttamente sulle
domande delle parti, con la conseguenza che non sarà mai più possibile procedere
in “executivis” sulla base della sentenza di primo grado (riformata
della sentenza d’appello cassata con rinvio), potendo una nuova esecuzione
fondarsi soltanto, eventualmente, sulla sentenza del giudice di rinvio (Cass.,
8 luglio 2013, n. 16934).

25. In altri termini, l’opzione prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18,
comma 5, non è insensibile alle vicende della sentenza con cui è stata
dichiarata l’illegittimità del licenziamento e ordinata la reintegrazione. Al
contrario, tanto il diritto alla reintegrazione quanto quello all’indennità
sostitutiva presuppongono l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento e
ne seguono la sorte, con le conseguenze sopra evidenziate. Ciò che invece esula
dagli effetti espansivi della sentenza di riforma è solo il diritto del
lavoratore di scegliere tra la prosecuzione del rapporto o la sua definitiva
estinzione, mediante il pagamento dell’indennità sostitutiva. E ciò per la
forte connotazione negoziale del diritto all’opzione, in sé e per sé
considerato, diritto che, una volta esercitato, non è più suscettibile di
revoca né di reviviscenza.

26. In definitiva, deve affermarsi il seguente
principio di diritto:

“In caso di illegittimità de/licenziamento, il
diritto riconosciuto al lavoratore dalla L. n. 300 del 1970, art. 18,
comma 5 (nel testo nove/lato dalla L. 11 maggio
1990, n. 108, e antecedentemente alla riforma del 28 giugno 2012, n. 92, applicabile ratione
temporis), di optare fra la reintegrazione nel posto di lavoro e l’indennità
sostitutiva prevista dal quinto comma dell’art. 18 citato, in quanto
esercizio di un diritto potestativo che nasce dalla declaratoria
dell’illegittimità del licenziamento ed -ha natura di atto negoziale autonomo,
non soggiace agli effetti espansi della sentenza di riforma previsti dall’art. 336 c.p.c.: ne consegue che, ove in
esecuzione della sentenza di primo grado che abbia dichiarato l’illegittimità
del licenziamento e disposto la reintegrazione nel posto di lavoro, il
lavoratore rinunci all’indennità sostitutiva dal cit. art. 18, comma 5 e scelga di
riprendere il lavoro, tale scelta, al pari di quella dell’indennità sostitutiva
è irreversibile e consuma in via definitiva il diritto di opzione”.».
Nella specie, pertanto, veniva confermata l’impugnata sentenza di merito, che
aveva accolto la domanda di parte datoriale, volta ad accertare l’insussistenza
del diritto all’indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro,
a seguito di licenziamento invalidato in precedente separato giudizio, nel
corso del quale il lavoratore interessato, in forza della sentenza di primo
grado a lui favorevole, aveva ripreso servizio, così rinunciando ad avvalersi
dell’opzione di cui all’art.
18, co. 5, secondo il testo allora vigente, sentenza poi riformata in
appello, la cui decisione però venne cassata, sicché il giudice di rinvio
confermò, definitivamente, la pronuncia di prime cure. All’esito del giudizio
di rinvio, tuttavia, il lavoratore ebbe a comunicare la volontà di avvalersi
dell’indennità sostitutiva, cui però si oppose parte datoriale, la quale
inoltre instaurò il nuovo giudizio, di accertamento negativo, conclusosi quindi
in senso favorevole per detta attrice, in quanto la relativa sentenza
d’appello, venne poi confermata dal questa Corte con la succitata pronuncia n. 4874/15, di rigetto del ricorso
proposto dal convenuto lavoratore];

pertanto, il ricorso va respinto con conseguente condanna
del soccombente al rimborso delle relative spese;

sussistono, inoltre, i presupposti di legge in
ordine al versamento dell’ulteriore contributo unificato, atteso l’esito
completamente negativo dell’impugnazione qui proposta.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che
liquida a favore della controricorrente in euro 5200,00 (cinquemiladuecento/00)
per compensi professionali ed in euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre
spese generali al 15% i.v.a. e c.p.a. come per legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis
dello stesso articolo 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 ottobre 2020, n. 22063
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