Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 ottobre 2020, n. 28672

Omesso versamento delle ritenute previdenziali Inps sulle
retribuzioni dei lavoratori dipendenti, Modelli DM10 trasmessi in via
telematica, Prova della corresponsione delle relative retribuzioni, Causa di
esclusione della punibilità, Stato di insolvenza dell’imprenditore

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 02/05/2019, la Corte di appello
di L’Aquila confermava la sentenza del 22/02/2018 del Tribunale di Chieti, con
la quale B.M. era stato dichiarato responsabile del reato di cui agli artt. 81
cpv, cod.pen. e 2 comma 1-bis I
n. 638/1983 – perché, nella qualità di legale rappresentante della ditta
“S.A.” ometteva di versare all’INPS le ritenute previdenziali ed
assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti ne periodo
da gennaio ad ottobre 2014 per complessivi euro 16.846,06 – e condannato alla
pena di mesi sei di reclusione ed euro 600,00 di multa.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per
cassazione B.M., a mezzo del difensore di fiducia, articolando cinque motivi di
seguito enunciati.

Con il primo motivo deduce violazione di legge in
relazione all’art. 2 comma
1-bis I n. 638/1983, lamentando che erroneamente la Corte territoriale
aveva ritenuto che i modelli DM10 trasmessi in via telematica all’ente
previdenziale facessero prova della corresponsione delle relative retribuzioni.

Con il secondo motivo deduce violazione degli artt. 516 e 522
cod.proc.pen, lamentando che la Corte territoriale aveva confermato
l’affermazione di responsabilità nonostante l’indeterminatezza
dell’imputazione, con conseguente violazione del diritto di difesa, anche in
ordine alla possibilità di verificare l’applicabilità della causa di esclusione
della punibilità di cui all’art. 131-bis cod.pen.

Con il terzo motivo deduce vizio di motivazione in
relazione al ritenuto pagamento delle retribuzioni, lamentando che la Corte
territoriale aveva offerto sul punto una motivazione erronea e non
condivisibile.

Con il quarto motivo deduce violazione di legge in
relazione all’art. 2 comma 1
bis I n. 638/1983 ed all’art 45 cod.pen,
lamentando che la Corte territoriale aveva ritenuto, erroneamente, che lo stato
di insolvenza dell’imprenditore non integrasse la scriminate di cui all’art. 45 cod.pen.

Con il quinto motivo deduce violazione dell’art. 62 bis cod.pen, lamentando che la Corte
territoriale non aveva tenuto nel debito conto l’iniziativa economica assunta
personalmente dal B. per sostenere l’impresa e dato rilievo esclusivo ai
precedenti penali dell’imputato.

Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza
impugnata.

 

Considerato in diritto

 

1. Il  primo
ed il terzo motivo, che si trattano congiuntamente in quanto oggettivamente
connessi, sono manifestamente infondati.

Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte,
a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite 23
giugno 2003 n. 27641, il reato di cui all’art. 2, comma 1- bis, D.L. 12
settembre 1983, n. 463, conv. con modificazioni nella legge 11 novembre 1983, n. 638 e successive
modifiche, non è configurabile senza il materiale esborso, anche solo in nero (Sez.3, n.29037 del 20/02/2013, Rv.255454 – 01; Sez.3, n.6934 del 23/11/2017, dep.13/02/2018,
Rv.272120 – 01), della retribuzione, il quale, costituendo un presupposto
necessario della fattispecie criminosa, deve essere provato dall’accusa sia
mediante il ricorso a prove documentali che testimoniali ovvero attraverso il
ricorso alla prova indiziaria (Sez.3, n.38271 del 25/09/2007, Rv.237829 – 01;
Sez.3, n.32848 del 08/07/2005, Rv.232393 – 01).

Costituisce principio consolidato, inoltre, che, in
tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, la
presentazione da parte del datore di lavoro degli appositi modelli DM 10 –
attestanti le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e l’ammontare degli
obblighi contributivi – è valutabile, in assenza di elementi di segno
contrario, come prova della effettiva corresponsione degli emolumenti ai
lavoratori ( Sez.3, n. 21619 del 14/04/2015,
Rv.263665; Sez. 3, n. 37330 del 15/07/2014, Rv. 259909); e l’onere incombente
sul pubblico ministero di dimostrare l’avvenuta corresponsione delle
retribuzioni ai lavoratori dipendenti è assolto con la produzione del modello
DM 10, con la conseguenza che grava sull’imputato il compito di provare, in
difformità dalla situazione rappresentata nelle denunce retributive inoltrate,
l’assenza del materiale esborso delle somme (Sez.3, n.7772 del
05/12/2013,Rv.258851 – 01).

Gli appositi modelli attestanti le retribuzioni
corrisposte ai dipendenti e gli obblighi contributivi verso l’istituto
previdenziale (cosiddetti modelli DM 10) hanno, infatti, natura ricognitiva
della situazione debitoria del datore di lavoro e fanno piena prova (art. 2709 cod.civ.) a carico dell’imprenditore; la
loro presentazione equivale all’attestazione di aver corrisposto, fino a prova
contraria, le retribuzioni in relazione alle quali è stato omesso il versamento
dei contributi (Sez. 3, n.37145 del 10/04/2013, Deiana, ed altro, Rv. 256957;
Sez.3, n.46451 del 07/10/2009, Rv.245610 – 01; Sez.3, n.26064 del 14/02/2007,
Rv.237203 – 01; Sez.3, n.32848 del 08/07/2005, Rv.232393).

Tanto è avvenuto nella specie, come si dà atto in
sentenza (valutandosi generica la prova orale e non pertinente quella
documentale, offerte a discarico dalla difesa), con motivazione congrua ed
esente da vizi logici ed in linea con il suesposto principio di diritto.

Va rimarcato che tale consolidato principio trova
applicazione anche nel caso di elaborazione telematica dei modelli DM 10 da
parte dell’INPS.

Va ricordato che la legge
n. 326/03 ha previsto l’obbligatorietà della presentazione telematica delle
denunce contributive mensili; i titolari e legali rappresentanti delle aziende
o soggetti delegati (consulenti del lavoro, avvocati, dottori commercialisti,
ragionieri e periti commerciali iscritti negli appositi albi) devono essere
autorizzati dall’Istituto mediante l’assegnazione di un codice PIN che consente
anche di consultare i dati di propria pertinenza presenti negli archivi Inps:
la situazione anagrafica, l’inquadramento, le coperture contributive, la
visualizzazione di tutti i DM10/2 già presenti sugli archivi centrali dell’Istituto.
Le denunce mensili relative ai lavoratori dipendenti dovevano essere inoltrate
all’INPS tramite due diversi moduli, denominati, rispettivamente, DM10/2 ed
EMENS. La EMENS, la denuncia di tutti i dati retributivi riferiti al singolo
lavoratore che riguardano il rapporto assicurativo con l’Ente previdenziale e
il modello DM10/2 contenente i dati contributivi in forma aggregata, ossia in
riferimento al complesso dei lavoratori presenti in azienda, distinti per
categorie. Da maggio 2009 si è passati gradualmente ad un nuovo sistema che
prevede la trasmissione di un’unica dichiarazione, l’UNIEMENS, che raccoglie le
informazioni retributive e contributive relative ad ogni lavoratore, a livello
individuale, a partire dal quale l’INPS ricostruisce un DM10 virtuale. In
questo unico documento telematico confluiscono i due separati flussi costituiti
dai modelli DM10/2 (tramite cui venivano comunicati i dati contributivi in
forma aggregata cioè con riferimento al complesso dei lavoratori presenti in
azienda, distinto per categorie ed espresso in forma numerica) ed EMENS.

Orbene, è stato, condivisibilmente, affermato da
questa Corte che i modelli DM 10, formati secondo il sistema informatico
UNIEMENS possono essere valutati come piena prova della effettiva corresponsione
delle retribuzioni, trattandosi di 
dichiarazioni che, seppure generate dal sistema informatico dell’INPS,
sono formate esclusivamente sulla base dei dati risultanti dalle denunce
individuali e dalla denuncia aziendale fornite dallo stesso contribuente; in
particolare, UNIEMENS è soltanto un flusso di dati che va a creare il contenuto
del modello DM 10, per così dire di nuova generazione, che ancorchè generato
dal sistema informatico dell’INPS, ha le stesse caratteristiche ed informazioni
del DM 10 “cartaceo”; la modifica delle modalità di redazione del
modello medesimo, ossia il passaggio dal “cartaceo” inviato all’INPS
al “telematico” generato dal sistema dell’Istituto, non ha importato
alcuna modifica sotto il profilo della necessaria provenienza dei “flussi
informativi” dall’azienda interessata (Sez.3,
n.42715 del 28/06/2016, dep. 10/10/2016, Rv.267781 – 01).

2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente
infondato.

La nullità del decreto di citazione a giudizio per
la mancata o insufficiente enunciazione del fatto oggetto dell’imputazione,
prevista dall’art. 429, secondo comma, cod. proc.
pen., deve ritenersi sanata qualora non sia stata dedotta entro il termine
stabilito, a pena di decadenza, dall’art. 491,
primo comma, dello stesso codice; poiché infatti la predetta omissione non
attiene nè all’intervento dell’imputato nè alla sua assistenza o
rappresentanza, la nullità che ne deriva non può riconnprendersi fra quelle di
ordine generale, di cui all’art. 178, lett. c),
bensì tra quelle relative, previste dall’art. 181
cod. proc. pen., con la conseguenza che deve essere eccepita – a pena di
preclusione – subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della
costituzione delle parti (Sez. 2, n.16817 del
27/03/2008, Rv.239757 – 01)

In ogni caso, va ricordato che, secondo la
consolidata giurisprudenza di questa Corte non sussiste alcuna incertezza
sull’imputazione, quando questa contenga con adeguata specificità, i tratti
essenziali del fatto di reato contestato in modo da consentire un completo
contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa (Sez.2, n.36438
deI21/07/2015, Rv.264772; Sez.3, n.35964 del
04/11/2014, dep.04/09/2015, Rv.264877; Sez. 5, n. 6335 del 18/10/2013, dep.
2014, Rv. 258948); tanto è, con tutta evidenza, avvenuto nella specie, essendo
stato indicato espressamente in imputazione l’ammontare delle omissioni
contributive, per il periodo da gennaio ad ottobre 2014, pari a complessivi
euro 16.846,06.

Va anche rimarcato che la difesa dell’imputato,
contrariamente a quanto dedotto, ha formulato richiesta ex art. 131-bis cod.pen. e la Corte territoriale ha
correttamente denegato l’applicazione della causa di esclusione della
punibilità in questione, rimarcando come il discostamento dalla soglia di
punibilità (pari ad euro 10.000,00 annui) era consistente e, quindi,
dimostrativo della non tenuità del fatto (cfr in merito, Sez.3, n.30179 del
11/05/2018, Rv.273686 – 01: In tema di reato di omesso versamento di ritenute
previdenziali, ai fini dell’applicabilità della causa di non punibilità per
particolare tenuità del fatto di cui all’art.
131-bis cod. pen. occorre tener conto dell’importo complessivo dei
contributi non versati e della entità del superamento della soglia di punibilità).

3. Il quarto motivo di ricorso è manifestamente
infondato.

Il reato di omesso versamento delle ritenute
previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori
dipendenti (art. 2 D.L. n. 463
del 1983, conv. in I. n. 638 del 1983) è
integrato, siccome è a dolo generico, dalla consapevole scelta di omettere i
versamenti dovuti, sicchè non rileva, sotto il profilo dell’elemento
soggettivo, la circostanza che il datore di lavoro attraversi una fase di
criticità e destini risorse finanziarie per far fronte a debiti ritenuti più
urgenti o abbia deciso di dare preferenza al pagamento degli emolumenti ai
dipendenti (Sez.3, n.38269 del 25/09/2007, Rv.237827; Sez.3, n.13100 del
19/01/2011, Rv.249917; Sez.3, n.3705 del 19/12/2013, dep.28/01/2014, Rv.
258056; Sez.3, n.43811 del 10/04/2017, Rv.271189).

La Corte territoriale, facendo buon governo del
principio di diritto suesposto, ha evidenziato, con argomentazioni congrue e
logiche, che la situazione di difficoltà economica in cui versava l’imputato al
momento dei fatti, espressamente considerata nei termini fattuali rappresentati
con i motivi di appello, non escludeva la rilevanza penale della condotta, emergendo
la consapevolezza della scelta di omettere i versamenti dovuti.

Non sussiste, pertanto, il vizio dedotto.

4. Il quinto motivo di ricorso è manifestamente
infondato.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte,
l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, oggetto di un giudizio
di fatto, non costituisce un diritto conseguente all’assenza di elementi
negativi connotanti la personalità del soggetto, ma richiede elementi di segno
positivo, dalla cui assenza legittimamente deriva il diniego di concessione
delle circostanze in parola; l’obbligo di analitica motivazione in materia di
circostanze attenuanti generiche qualifica, infatti, la decisione circa la
sussistenza delle condizioni per concederle e non anche la decisione opposta
(Sez.1, n. 3529 del 22/09/1993, Rv. 195339; Sez. 2, n. 38383 del 10.7.2009,
Squillace ed altro, Rv. 245241; Sez.3,n. 44071 del 25/09/2014, Rv.260610).

Inoltre, secondo giurisprudenza consolidata di
questa Corte, il giudice nel motivare il diniego della concessione delle
attenuanti generiche non deve necessariamente prendere in considerazione tutti
gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli
atti; è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o
comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale
valutazione , individuando, tra gli elementi di cui all’art.133 cod.pen., quelli di rilevanza decisiva ai
fini della connotazione negativa della personalità dell’imputato (Sez.3,
n.28535 del 19/03/2014, Rv.259899; Sez.6, n.34364 del 16/06/2010, Rv.248244;
sez. 2, 11 ottobre 2004, n. 2285, Rv. 230691).

L’obbligo della motivazione non è certamente
disatteso quando non siano state prese in considerazione tutte le prospettazioni
difensive, a condizione però che in una valutazione complessiva il giudice
abbia dato la prevalenza a considerazioni di maggior rilievo, disattendendo
implicitamente le altre. E la motivazione, fondata sulle sole ragioni
preponderanti della decisione non può, purchè congrua e non contraddittoria,
essere sindacata in cassazione neppure quando difetti di uno specifico
apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati
nell’interesse dell’imputato.

Nella specie, la Corte territoriale, con motivazione
congrua e logica, ha negato la concessione delle circostanze attenuanti
generiche a cagione dei precedenti penali, tre dei quali specifici.

Ha, quindi, ritenuto assolutamente prevalente il
richiamo, sia pure implicito, alla personalità negativa dell’imputato, quale
emergente dal certificato penale, per negare l’invocato beneficio (cfr in
merito alla sufficienza dei precedenti penali dell’imputato quale elemento
preponderante ostativo alla concessione delle circostanze attenuanti generiche,
Sez.2, n.3896 del 20/01/2016, Rv.265826; Sez.1, n.12787 del 05/12/1995,
Rv.203146).

Non sussiste, quindi, il vizio dedotto.

5. Consegue, pertanto, la declaratoria di
inammissibilità del ricorso.

6. Essendo il ricorso inammissibile e, in base al
disposto dell’art. 616 cod. proc. pen, non
ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del
13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella
misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila
in favore della Cassa delle ammende.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 ottobre 2020, n. 28672
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