Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 ottobre 2020, n. 22438
Ammissione al passivo del Fallimento, Indennità sostitutiva
di ferie e permessi maturati e non goduti, Fogli presenze privi di data certa,
non opponibili alla curatela, Sussistenza in capo al lavoratore dell’onere di
contestare entro un anno eventuali errori contenuti nelle buste paga
Premesso
Che con decreto n. 4568/2017, depositato il 2 agosto
2017, il Tribunale di Treviso, decidendo in sede di opposizione ex art. 98 R.D. 16 marzo 1942, n. 267,
ha respinto la domanda di ammissione al passivo del Fallimento della P.
N.E.S.C. a r. I. per azioni in liquidazione proposta da S.P., già dipendente
della società dal 20 giugno 2011, per la somma di euro 3.195,80 a titolo di
indennità sostitutiva di ferie e permessi maturati e non goduti nel corso del
rapporto nonché per la somma di euro 7.366,34 a titolo di indebita trattenuta
nella busta paga di ottobre 2016 per “recupero” ferie e permessi fruiti
e non maturati;
– che a sostegno della propria decisione il
Tribunale ha ritenuto che il ricorrente non avesse assolto l’onere della prova
allo stesso spettante, non essendo rilevanti a tal fine, per difetto di
indicazione degli anni di riferimento, i “fogli presenze”
esclusivamente prodotti a contrasto delle risultanze delle buste paga, peraltro
anche privi di data certa e come tali non opponibili alla curatela; che,
d’altra parte, il P. non aveva sollevato alcuna contestazione, dalla costituzione
del rapporto fino alla sua risoluzione nel 2016, e ciò nonostante la
sussistenza in capo al lavoratore dell’onere di contestare entro un anno
eventuali errori contenuti nelle buste paga; che le istanze istruttorie
formulate dal ricorrente, per interrogatorio del fallito e per testi, come
l’istanza di esibizione del Libro unico del lavoro e dei moduli di
programmazione delle ferie, erano da considerarsi inammissibili;
– che avverso detto decreto ha proposto ricorso per
cassazione ex art. 99, ultimo
comma, del R.D. n. 267/1942, il P., affidandosi a otto motivi, assistiti da
memoria, cui ha resistito con controricorso il Fallimento della società P.
N.E.;
Rilevato
che con il primo motivo, denunciando la violazione
dell’art. 111, comma settimo, Cost.,
dell’art. 99, comma 9, R.D. n.
267/1942, degli artt. 112, 115, 116, 187, 188, 244, 253, 420, 421 cod. proc. civ. e degli artt.
2712 e 2724 cod. civ., nonché deducendo il
vizio di cui all’art. 360 n. 4 cod. proc. civ. per mancata ammissione della prova, il
ricorrente censura il decreto impugnato: – per avere ritenuto irrilevante la
documentazione prodotta e inammissibile la prova testimoniale, erroneamente
valutando talune circostanze (in particolare, quelle di cui ai capitoli 11, 12
e 13) di contenuto negativo o da dimostrarsi necessariamente in via documentale
e comunque omettendo di esercitare i propri poteri istruttori d’ufficio; – per
non avere considerato che la prestazione lavorativa può essere provata tramite
deposizione testimoniale, anche tenuto conto della presenza, nel caso di
specie, di un principio di prova per iscritto, costituito dai “fogli
presenze”; – per non avere rilevato che il Fallimento, limitandosi alla
contestazione della valenza probatoria dei “fogli presenze”, non
aveva, in realtà, contestato il fatto dai medesimi rappresentato e (con il cap.
13) espressamente e specificamente dedotto; – per avere erroneamente attribuito
rilevanza al difetto nei “fogli presenze” di data certa, potendo
l’effettivo svolgimento della prestazione, nei giorni registrati in busta paga
come giorni di ferie, essere provato con ogni mezzo; – per non avere ammesso,
oltre ai capitoli 11, 12 e 13, anche gli altri capitoli di prova dedotti, con
motivazione non condivisibile là dove aveva considerato alcuni di contenuto
valutativo e altri attinenti a circostanze negative o tali da richiedere una
prova documentale;
– che con il secondo motivo, denunciando il vizio di
violazione di legge con riferimento all’art. 111,
comma 7°, Cost., all’art.
115, comma 1°, cod. proc. civ. e all’art. 2697 cod. civ., il ricorrente censura il
provvedimento impugnato per non avere considerato che con i capitoli 11, 12 e
13 egli aveva analiticamente indicato sia i periodi di ferie e i permessi
fruiti, sia le giornate e gli orari di effettiva prestazione incompatibili con
le assenze dal lavoro registrate in busta paga, e che tali fatti storici non
avevano formato oggetto di alcuna contestazione da parte del Fallimento, come
poteva chiaramente desumersi dalla memoria di costituzione dello stesso;
– che con il terzo motivo, deducendo la violazione
dell’art. 111, comma 7°, Cost.,
dell’art. 116 cod. proc.
civ. e degli artt. 2214, 2215 bis, 2709 e 2710 cod. civ., il ricorrente si duole del rilievo
probatorio attribuito, in danno del dipendente, alle buste paga, sebbene esse
possano fornire dimostrazione dei soli dati sfavorevoli al datore di lavoro;
– che con il quarto motivo, deducendo violazione di
legge con riferimento all’art. 111, comma 7°, Cost. e agli artt. 2697,
2946, 2948 cod.
civ., nonché, in subordine, agli artt. 2966,
2967, 2968 e 2969 cod. civ., il ricorrente censura la sentenza
impugnata per avere affermato la sussistenza di un onere per il lavoratore –
nella specie, non assolto – di contestare entro un anno eventuali errori
contenuti nelle buste paga, senza, tuttavia, indicare quale fosse la fonte di
tale onere e senza considerare né l’inoperatività di una eventuale clausola di
decadenza, a fronte del diritto indisponibile ad una retribuzione proporzionata
e sufficiente, né il difetto di una formale e tempestiva eccezione di
decadenza, restando il diritto fatto valere conseguentemente soggetto al solo
termine della prescrizione (decennale o quinquennale);
– che con il quinto motivo, deducendo il vizio di
cui all’art. 360 n. 4 cod. proc.
civ. in relazione all’art. 112 cod. proc. civ., il ricorrente si duole della omessa
pronuncia sulla domanda di ammissione al passivo della somma di euro 7.366,34
per ferie e permessi non fruiti ma (indebitamente) trattenuti sulle competenze
di fine rapporto nell’ultima busta paga (ottobre 2016);
– che con il sesto motivo è dedotto il vizio di cui
all’art. 360 n. 5 in riferimento alla medesima
domanda, essendo ad essa estranea la questione, esaminata dal Tribunale,
concernente la forzata collocazione in ferie nel mese di agosto 2016;
– che con il settimo motivo, ancora in riferimento
alla domanda di ammissione al passivo per la somma di euro 7.366,34, è dedotta
dal ricorrente la violazione dell’art. 2697 cod.
civ., per non avere il Tribunale fatto corretta applicazione dei principi
in materia di riparto dell’onere della prova: in particolare, per non avere
considerato che il Fallimento, pur a ciò tenuto, trattandosi dei fatti
costitutivi del proprio credito restitutorio ex art.
2033 cod. civ., non aveva provato né il pagamento anticipato della
retribuzione per ferie e permessi né il necessario collegamento causale tra
esso e la sua non doverosità;
– che con l’ottavo motivo, infine, il ricorrente
lamenta la mancata concessione di termine per note al fine di replicare ai
rilievi del Fallimento sulla inammissibilità delle istanze istruttorie;
Osservato
che il primo e il secondo motivo, da esaminarsi
congiuntamente per parziale comunanza delle questioni proposte, non possono
trovare accoglimento;
– che, in particolare, risulta inammissibile la censura
avente ad oggetto la ritenuta non rilevanza, sul piano dell’attitudine
dimostrativa, dei “fogli presenza” (documento n. 4), poiché con tale
censura il ricorrente esprime un dissenso “di merito” rispetto alla
motivata valutazione del Tribunale e cioè, attraverso una difforme lettura del
materiale probatorio e un nuovo e diverso apprezzamento di fatto, tende a
sollecitare a questa Corte di legittimità una pronuncia che non appartiene alle
funzioni e al ruolo alla stessa assegnati dall’ordinamento;
– che invero è del tutto consolidato il principio,
secondo il quale i vizi posti a base del ricorso per cassazione non possono
risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da
quella operata dal giudice di merito, o consistere in censure che investano la
ricostruzione della fattispecie concreta, o che siano attinenti al difforme
apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a
quello preteso dalla parte, spettando soltanto al giudice di merito individuare
le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne
l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie
quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza
all’uno o all’altro mezzo di prova, salvi i casi tassativamente previsti dalla
legge (Cass. n. 2991/2009, fra le numerose conformi);
– che risulta egualmente inammissibile la censura
relativa alla mancata ammissione delle prove richieste, dovendosi ribadire il
principio, secondo il quale “Il vizio di motivazione per omessa ammissione
della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per cassazione
solo nel caso in cui esso investa un punto decisivo della controversia e,
quindi, ove la prova non ammessa o non esaminata in concreto sia idonea a
dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di
mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno
determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi risulti priva di fondamento” (Cass. n. 16214/2019; conforme Cass.
n. 5654/2017): idoneità, qualificata e specifica, di cui non è offerta evidenza
nella specie, a fronte di una motivazione articolata che, a giustificazione
delle conclusioni raggiunte, pone un complesso di elementi convergenti
(inattendibilità dei documenti prodotti dallo stesso ricorrente, in quanto
privi di riferimenti essenziali, e comunque loro inopponibilità al Fallimento;
singolarità del comportamento del lavoratore, il quale, per un obiettivamente
lungo e accertato periodo di tempo, dal 2011 al 2016, non ha mosso al proprio
datore di lavoro alcuna contestazione, al di là della questione relativa
all’esistenza di un onere in tal senso da adempiersi entro una precisa
scadenza);
– che deve altresì essere disattesa la censura
relativa al mancato esercizio, da parte del Tribunale, dei poteri ex art. 421 cod. proc. civ.,
non conformandosi la stessa al principio di diritto, secondo il quale “Nel
rito del lavoro, il ricorrente che denunci in cassazione il mancato esercizio
dei poteri istruttori di ufficio nel giudizio di merito, deve riportare in
ricorso gli atti processuali dai quali emerge l’esistenza di una ‘pista
probatoria’ qualificata, ossia l’esistenza di fatti o mezzi di prova, idonei a
sorreggere le sue ragioni con carattere di decisività, rispetto ai quali
avrebbe potuto e dovuto esplicarsi l’officiosa attività di integrazione
istruttoria demandata al giudice di merito, ed allegare, altresì, di avere espressamente
e specificamente richiesto tale intervento nel predetto giudizio” (Cass. n. 22628/2019
);
– che ad analoga
conclusione deve pervenirsi con riguardo alla censura, svolta tanto nel primo
come nel secondo motivo, relativa alla non contestazione dei fatti allegati dal
ricorrente;
– che al riguardo si deve
in primo luogo rilevare il difetto del requisito di cui all’art. 366, comma 1°, n. 6 cod. proc.
civ., là dove (secondo motivo) è richiamata la memoria di
costituzione del Fallimento, la cui lettura, secondo il ricorrente, darebbe
chiaramente conto della mancata contestazione delle circostanze oggetto dei
capitoli di prova 11 e 13, e peraltro senza trascrivere il contenuto di tale
atto difensivo, quanto meno nei passi rilevanti a fondare l’assunto così
proposto;
– che, d’altra parte, nell’indicare
(primo motivo di ricorso, pp. 21-22) il punto della memoria di costituzione in
cui il Fallimento ha sostenuto che il lavoratore non avesse assolto il proprio
onere probatorio e che alcuna valenza di prova potesse essere attribuita ai
“fogli presenza”, il ricorrente non si confronta con l’orientamento,
secondo il quale determinati fatti possono essere considerati come pacifici
solo quando l’altra parte abbia impostato la propria difesa su argomenti
logicamente incompatibili con il loro disconoscimento (Cass.
n. 9424/2000);
– che, in ogni caso, come
ripetutamente precisato nella giurisprudenza di questa Corte, l’onere di
contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di
prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte, non anche per quelli ad
essa ignoti (Cass. n. 87/2019; conforme, fra altre, Cass. n. 14652/2016); con la conseguenza della
impossibilità di esigere dal curatore, che riveste la qualità di terzo rispetto
al rapporto giuridico posto a base della pretesa creditoria fatta valere con
l’istanza di ammissione (Sez. U n. 4213/2013), una specifica
contestazione di fatti e circostanze estranei alla sua sfera di conoscenza;
– che devono essere
disattesi altresì il terzo e il quarto motivo, da trattarsi anch’essi
congiuntamente per connessione;
– che in proposito si deve
osservare come il provvedimento impugnato, diversamente da quanto dedotto, non
abbia inteso attribuire alle annotazioni contenute nelle buste paga alcun
rilievo probatorio in pregiudizio del dipendente (non vi è nel decreto alcuna
affermazione che possa condurre a una tale conclusione), ma le abbia
semplicemente e unicamente richiamate quale mera premessa della propria analisi
circa l’offerta di prova del ricorrente, sottolineando, al riguardo, da una
parte, l’inidoneità dei documenti (“fogli presenza”) prodotti e,
dall’altra, la valenza dimostrativa in sé del comportamento tenuto dal
lavoratore, rimasto silente e inattivo per lungo periodo di tempo pur in
presenza – per sua stessa ammissione – di ripetute anomalie nel computo di
ferie e permessi;
– che parimenti devono
essere trattati congiuntamente il quinto, il sesto e il settimo motivo di
ricorso, concernenti tutti la domanda di ammissione al passivo del credito di
euro 7.366,34;
– che i motivi in esame
risultano anzitutto affetti da una inammissibilità che è il portato del
conflitto logico delle stesse censure in cui ciascuno di essi si sostanzia,
proponendo, nei confronti della medesima domanda, una censura di omessa
pronuncia, di carenza motivazionale (che presuppone l’intervenuto esame della
domanda ed una qualche pronuncia su di essa), di violazione di legge (che presuppone
una motivazione tale da consentire di enucleare l’erronea applicazione della
norma);
– che deve in ogni caso
rilevarsi come il Tribunale abbia avuto presente la domanda ed abbia
pronunciato anche su di essa, secondo ciò che è dato desumere dallo sviluppo
motivazionale del decreto (cfr. p. 3, penultimo capoverso), con conseguente
infondatezza del quinto motivo;
– che la censura ex art. 360 n. 5, formulata nel sesto motivo,
risulta inammissibile, non conformandosi al modello normativo del nuovo vizio
motivazionale, quale risulta dalle modifiche introdotte nel 2012 e dalle
precisazioni fornite, quanto a perimetro applicativo e oneri di deduzione, da
questa Corte a Sezioni Unite (sentenze n. 8053 e n. 8054/2014), in
particolare non indicando il fatto “decisivo” che sarebbe stato
omesso dal giudice di merito e che, ove debitamente considerato, avrebbe
determinato un esito diverso della causa: fatto che deve consistere in un
preciso accadimento o in una precisa circostanza in senso
storico-naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o
“argomentazioni”, le quali, pertanto, restano irrilevanti (Cass. n. 22397/2019, fra altre conformi);
– che parimenti
inammissibile risulta il settimo motivo, il quale, dietro lo schermo della
denunciata violazione dell’art. 2697 cod. civ., si risolve in una
critica del modo in cui il Tribunale ha fatto applicazione, nella fattispecie
concreta, di una regola pur esattamente enunciata (cfr. ricorso, p. 32) e cioè
in una censura di merito, diretta ad un riesame del materiale di prova, come
tale estranea al presente giudizio di legittimità;
– che infondato è poi l’ottavo e
ultimo motivo di ricorso, non prevedendo il procedimento, di cui all’art. 99 del R.D. n. 267/1942, la
concessione di un termine per note difensive e ben potendo il ricorrente
valersi dell’udienza successiva al deposito della memoria di costituzione del
Fallimento per replicare ai rilievi di inammissibilità delle proprie istanze
istruttorie;
Ritenuto
conclusivamente
che il ricorso deve essere respinto;
– che le
spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo