Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 ottobre 2020, n. 23436
Riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro
subordinato, Rapporto risolto per mutuo consenso, Appalto dedotto in
giudizio, non illecito, Utilizzazione, da parte dell’appaltatore, di capitali,
macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante, Presunzione legale assoluta
di sussistenza della fattispecie di pseudoappalto,
Conferimento di mezzi di rilevanza tale da rendere del tutto marginale ed
accessorio l’apporto dell’appaltatore, Sussistenza o modestia dell’apporto va
accertata in concreto dal giudice
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Roma, con sentenza del 17
giugno 2016, ha respinto l’appello proposto da A.S. avverso la pronuncia di
primo grado che aveva rigettato il ricorso di questi volto al riconoscimento
della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato intercorso con la UBIS –
S.C.p.A., benché formalmente inquadrato alle
dipendenze di altra società dal 1998 sino al all’agosto 2008;
2. la Corte di Appello – in estrema sintesi – ha
ritenuto infondato il motivo di gravame avverso la pronuncia di prime cure che
aveva ritenuto risolto per mutuo consenso il rapporto di lavoro tra le parti e,
“in ogni caso”, ha confermato anche l’assunto del Tribunale secondo cui
l’appalto dedotto in giudizio non fosse illecito;
3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso il soccombente con 3 motivi, illustrati da memoria, cui ha resistito la
società con controricorso, pure illustrato da memoria con cui si deduce e
documenta il mutamento di denominazione sociale in U. Services S.C.p.A.;
Considerato che
1. I motivi di ricorso possono essere come di
seguito sintetizzati: con il primo si denuncia “violazione e falsa
applicazione dell’art. 1372 c.c. nonché degli artt. 115, 116 e 434 del codice di rito”, denunciando la
contraddittorietà della motivazione della Corte territoriale posta a fondamento
della ritenuta risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso;
con il secondo motivo si denuncia: “Violazione
e falsa applicazione degli articoli 112, 115, 116, 421 e 437 c.p.c., oltre che degli articoli 1 e 3 della legge n. 1369 del 1960
e degli articoli 20-29 del d. Igs.
n. 276/03. Nullità della sentenza”; si lamenta che la Corte di Appello
avrebbe trascurato taluni fatti nel negare l’illegittimità dell’appalto;
con il terzo mezzo si denuncia: “violazione e
falsa applicazione degli articoli
1 e 3 della legge 1369 del
1960, violazione e falsa applicazione degli articoli 20-29 del d. Igs.
276 del 2003, violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c.“; a sostegno si illustrano varie censure
circa: “l’errore sulla regola di diritto e la carenza di motivazione
sull’inapplicabilità della presunzione di cui all’art. 1 comma 3 della legge 1369”;
“l’erronea applicazione dell’art. 3 della legge 1369 del 1960”;
“sul rischio economico”; “sulla violazione e falsa applicazione
degli articoli 20-29 del d. Igs.
276 del 2003″;
2. il ricorso non può trovare accoglimento;
come ricordato nello storico della lite, la sentenza
impugnata risulta ancorata a due distinte rationes decidendi, autonome l’una dall’altra, e ciascuna, da sola,
sufficiente a sorreggerne il dictum da un lato, vi è
la conferma del rigetto della domanda attorea sull’assunto che, comunque, il
rapporto di lavoro dedotto in giudizio si sarebbe risolto per mutuo consenso;
dall’altra, vi è l’accertamento in fatto che nega la sussistenza del preteso
appalto non genuino;
orbene è ius receptum, nella giurisprudenza di questa Corte, il
principio per il quale qualora la sentenza impugnata sia basata su una motivazione
strutturata in una pluralità di ordini di ragioni, convergenti o alternativi,
autonomi l’uno dallo altro, e ciascuno, di per sé solo, idoneo a supportare il
relativo dictum, la resistenza di una di queste rationes agli appunti mossigli con l’impugnazione comporta
che la decisione deve essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua
ratio non, o mal, censurato privando in tal modo l’impugnazione dell’idoneità
al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione
della pronuncia contestata (cfr., in merito, ex multis,
Cass. 26 marzo 2001 n.
4349, Cass. 27 marzo 2001 n 4424; Cass. 20
novembre 2009 n. 24540); applicando siffatto principio al caso di specie
consegue che se una delle indicate rationes decidendi “resiste” all’impugnazione proposta dal
ricorrente è del tutto ultronea la verifica di detta resistenza rispetto
all’autonoma, alternativa e distinta ratio decidendi;
3. tanto premesso, va evidenziato che mentre il
primo motivo di ricorso censura la sentenza impugnata per errata applicazione
dell’art. 1372 c.c., il secondo ed il terzo
riguardano la dedotta illiceità dell’appalto e le doglianze in essi contenute,
congiuntamente esaminabili per connessione, non meritano accoglimento, in
continuità con quanto già affermato da questa Corte in analoga vicenda con la
medesima parte datoriale (cfr. Cass.
n. 251, 6948 e 14371
del 2020, cui si rinvia per ogni ulteriore aspetto);
nell’impugnata sentenza risulta essere stato
coerentemente applicato il principio secondo cui in tema d’interposizione nelle
prestazioni di lavoro, l’utilizzazione, da parte dell’appaltatore, di capitali,
macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante dà luogo ad una presunzione
legale assoluta di sussistenza della fattispecie (pseudoappalto)
vietata dall’art. 1, primo
comma, della legge n. 1369 del 1960 solo quando detto conferimento di mezzi
sia di rilevanza tale da rendere del tutto marginale ed accessorio l’apporto
dell’appaltatore; la sussistenza (o no) della modestia di tale apporto (sulla
quale riposa una presunzione “iuris et de iure”)
deve essere accertata in concreto dal giudice, alla stregua dell’oggetto e del
contenuto intrinseco dell’appalto; con la conseguenza che (nonostante la
fornitura di macchine ed attrezzature da parte dell’appaltante) l’anzidetta
presunzione legale assoluta non è configurabile ove risulti un rilevante
apporto dell’appaltatore, mediante il conferimento di capitale (diverso da
quello impiegato in retribuzioni1 ed in genere per sostenere il costo del
lavoro), know how, software
e, in genere, beni immateriali, aventi rilievo preminente nell’economia
dell’appalto (tra le altre v. Cass. n. 25064 del 2013; Cass. n. 16488 del 2009;
Cass. n. 4585 del 1994);
detto criterio assume pregnanza ancora maggiore con
l’entrata in vigore del d. Igs.
n. 276 del 2003 laddove la descritta presunzione della I. n. 1369 del 1960 – concepita peraltro in
un’epoca non ancora pervasa dalla automazione della produzione e dalle
tecnologie informatiche – è stata oggetto di abrogazione e “non è più
richiesto che l’appaltatore sia titolare dei mezzi di produzione, per cui anche
se impiega macchine ed attrezzature di proprietà dell’appaltante, è possibile provare
altrimenti – purché vi siano apprezzabili indici di autonomia organizzativa –
la genuinità dell’appalto … così, mentre in appalti che richiedono l’impiego
di importanti mezzi o materiali cd. “pesanti”, il requisito
dell’autonomia organizzativa deve essere calibrato, se non sulla titolarità,
quanto meno sull’organizzazione di questi mezzi, negli appalti cd.
“leggeri” in cui l’attività si risolve prevalentemente o quasi
esclusivamente nel lavoro, è sufficiente che in capo all’appaltatore sussista
una effettiva gestione dei propri dipendenti” (in termini, da ultimo,
Cass. n. 21413 del 2019);
in realtà, nei motivi di ricorso, sebbene formulati
facendo riferimento a pretese violazioni e false applicazioni di legge, che
presupporrebbero una ricostruzione della vicenda storica come narrata nella
sentenza impugnata (v., tra molte, Cass. n. 6035 del 2018; Cass. n. 18715 del 2016),
nella sostanza si invoca esplicitamente ed inammissibilmente una rivalutazione
dei fatti di causa e delle risultanze istruttorie, postulando un sindacato di
merito chiaramente inibito a questa Corte di legittimità, tanto più nel vigore
del novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c., così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014 (con principi costantemente
ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n.
417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici);
invero parte ricorrente prospetta errores in iudicando, quando invece le doglianze tendono a
contestare gli accertamenti compiuti dalla Corte del merito, evidentemente
anche al fine di evitare la preclusione prevista per il n. 5 dell’art. 360 c.p.c., disposizione
che, per i giudizi di appello instaurati dopo il trentesimo giorno successivo
alla entrata in vigore della legge 7 agosto 2012
n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83,
non può essere evocata, rispetto ad un appello promosso nella specie il 28
novembre 2012 dopo la data sopra indicata (art. 54, comma 2, del richiamato d.l. n. 83/2012), con ricorso per cassazione avverso la
sentenza della Corte di Appello che conferma la decisione di primo grado
(sicché l’eventuale errato riferimento al nome del soggetto interposto nella
sentenza impugnata non può che ascriversi ad errore di carattere materiale),
qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di
primo e di secondo grado (art. 348 ter, ultimo
comma, c.p.c., in base al quale il vizio di cui
all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c.,
non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme; v. Cass. n. 23021 del 2014);
il travalicamento nel giudizio di fatto è altresì
comprovato dall’improprio riferimento agli artt.
115 e 116 c.p.c.
di cui si assume, in entrambi i motivi, la violazione; in tema di valutazione
delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli
articoli richiamati, opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito,
insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle
predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di
violazione o falsa applicazione di norme bensì un errore di fatto, che deve
essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di
motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art.
360, comma 1, n. 5, c.p.c. (tra le altre v. Cass.
n. 23940 del 2017);
4. pertanto, la ragione della decisione legata
all’accertata insussistenza di un appalto illecito resiste alle censure che le
sono mosse e risulta ultroneo l’esame del primo motivo di ricorso, perché la
motivazione della sentenza impugnata è sorretta da una autonoma ratio decidendi che ha superato il vaglio di legittimità;
5. conclusivamente il ricorso deve essere respinto,
con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo; ai sensi
dell’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto
dall’art. 1, comma 17, della
legge 24 dicembre 2012, n. 228, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo
a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a
norma del comma 1-bis dello stesso art.
13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al
pagamento delle spese liquidate in euro 4.000,00, oltre euro 200,00 per
esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto
per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.