Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 ottobre 2020, n. 23620
Incidente stradale per recarsi da casa sul luogo di lavoro,
Riconoscimento della causa di servizio, Liquidazione dell’indennizzo,
Inabilità accertata non determina il raggiungimento della misura minima per il
riconoscimento delle prestazioni assicurative, Mansioni dequalificanti,
Risarcimento del danno morale e del danno biologico
Ritenuto
1. Che la Corte d’Appello di Torino ha rigettato
l’impugnazione, proposta da F. P. nei confronti dell’INAIL, avverso la sentenza
resa tra le parti dal Tribunale di Torino con la quale era stata respinta la
domanda del lavoratore.
2. La Corte d’Appello richiama le vicende
processuali del giudizio.
Il P. aveva convenuto in giudizio l’Istituto esponendo
di aver lavorato alle dipendenze del medesimo fino al 1998, e di essere stato
vittima in data 14 febbraio 1990 di un incidente stradale mentre percorreva a
bordo della propria auto il tragitto per recarsi da casa sul luogo di lavoro.
Con provvedimento del 23 febbraio 1997, l’INAIL
aveva respinto la domanda volta al riconoscimento della causa di servizio in
relazione a tale sinistro. Impugnato il provvedimento, il TAR Piemonte lo aveva
annullato con sentenza del 12 giugno 2006. Con provvedimento del 27 febbraio
2008, l’INAIL, preso atto del riconoscimento della causa di servizio da parte
del TAR, aveva comunque negato la liquidazione dell’indennizzo, in quanto
l’inabilità accertata non determinava il raggiungimento della misura minima
richiesta dalla legge per il riconoscimento delle prestazioni assicurative.
Esponeva, inoltre, che nel 1998, quando svolgeva le
funzioni di dirigente responsabile dell’Ufficio locale di Chivasso, era stato
trasferito al settore Vigilanza Assicurativa della Direzione regionale di
Torino con mansioni dequalificanti, e che tale situazione gli aveva procurato
uno stato di depressione che lo aveva portato a rassegnare le dimissioni
dall’impiego nel settembre 1998.
In ragione di ciò, il P. chiedeva la condanna
dell’INAIL al risarcimento del danno morale e del danno biologico occorsogli in
conseguenza dell’emissione dell’ingiusto provvedimento del 23 febbraio 1997,
del modo di conduzione dell’indagine ispettiva strumentale all’emanazione
dell’atto, della diffusione nell’ambiente di lavoro di notizie non vere ed
offensive della sua personalità, ed infine del trasferimento ad un incarico
dequalificante.
3. L’INAIL eccepiva l’intervenuta prescrizione
dell’azione.
4. La Corte d’Appello ha affermato che alla data
della prima richiesta di risarcimento del danno, avanzata con diffida all’INAIL
il 12 giugno 2008, oltre dieci anni dopo l’ultimo comportamento denunciato come
lesivo dei propri diritti, erano ormai trascorsi i termini di prescrizione sia
con riguardo alla responsabilità contrattuale che a quella extracontrattuale.
Il provvedimento che aveva respinto la domanda del
P. di riconoscimento della causa di servizio in relazione al sinistro stradale
del 14 febbraio 1990 risaliva al 23 febbraio 1997, l’indagine ispettiva
condotta dall’Istituto sulle circostanze del sinistro si era svolta in data
anteriore al 23 febbraio 1997, e la diffusione di notizie offensive sulla sua
reputazione era indicata dallo stesso appellante come coeva allo svolgersi
dell’ispezione. Il dies a quo della prescrizione,
dunque, non poteva farsi coincidere con la sentenza del TAR che nel 2006 aveva
annullato il provvedimento dell’INAIL, sentenza che non poteva costituire il
fatto illecito.
In particolare, afferma la Corte d’Appello, gli atti
e i comportamenti asseritamente lesivi dell’onore e
della reputazione del P. si sarebbero comunque verificati e avrebbero prodotto
i loro effetti molti anni prima dell’emissione della sentenza del TAR.
Il giudice di secondo grado ha respinto anche la
domanda di risarcimento danni da demansionamento,
atteso che non risultavano allegati in maniera specifica i danni che sarebbero
derivati al P.dallo stesso. Correttamente, il
Tribunale non aveva ammesso i capitoli di prova generici, valutativi e
suggestivi.
5. Per la cassazione della sentenza di appello
ricorre il lavoratore prospettando un motivo di ricorso.
6. Resiste l’INAIL con controricorso, eccependo in
via preliminare l’inammissibilità del motivo di ricorso mancando specifici
punti di interesse nel giudizio di legittimità.
7. In prossimità dell’adunanza camerale il
lavoratore ha depositato memoria.
Considerato
1. Che con l’unico motivo di ricorso il lavoratore
prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt.
112, 113, 115,
116, 132, 420, 421 cod. proc. civ., dell’art. 2935
cod. civ., in riferimento all’art. 360, nn. 3 e 4 cod. proc. civ.
2. Il ricorrente espone di aver riferito la
richiesta di risarcimento dei danni, correlata alla vicenda dell’infortunio, a
varie causali.
In particolare, aveva prospettato sia la
responsabilità per l’offesa diretta ad esso dipendente da parte dell’Ente
datore di lavoro con il provvedimento di diniego, sia l’offesa mediata
conseguente alla diffusione di notizie calunniose nell’ambiente di lavoro.
Erroneamente, la Corte d’Appello aveva riferito la
richiesta risarcitoria al modo di conduzione dell’indagine ispettiva e alla
diffusione nell’ambiente di lavoro di notizie offensive, così violando le
disposizioni richiamate quanto al dover pronuncia su tutta la domanda e alla
motivazione della sentenza — ragioni di fatto e di diritto della decisione. La
prescrizione, nella specie decennale, decorreva dal giudicato TAR per entrambi
i profili della domanda. Solo dall’accertamento giudiziale della illegittimità
del provvedimento di diniego poteva essere fatto valere il diritto al
risarcimento.
3. In relazione al profilo della domanda relativo al
demansionamento per assegnazione a compiti meno
importanti, e a quello relativo al pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale
per patologia neuro-psichica, il ricorrente deduce che la Corte d’Appello
avrebbe confuso i due profili dell’azione di danno da demansionamento,
e non si sarebbe accorta, oltre a violare le norme sopra richiamate, che per il
pregiudizio da demansionamento non occorreva
allegazione specifica atteso che il titolo principale di tale danno è non
patrimoniale.
4. Inoltre, nei ricorsi erano stati articolati
capitoli di prova sulla rimozione dall’incarico di responsabile dell’Ufficio
locale di Chivasso e sull’assegnazione al settore vigilanza della Direzione
regionale di Torino, nonché sulla circostanza che ciò era dequalificante. In
ordine agli stessi, la Corte non aveva spiegato la ritenuta genericità, potendo
peraltro il giudice di primo grado esercitare i poteri officiosi ex artt. 420 e 421 cod. proc. civ., ma su tale punto non vi era motivazione.
Esso ricorrente aveva depositato certificazione
medica relativa alla sindrome depressiva cronica di cui era sofferente e aveva
articolato capitoli di prova sul verificarsi della stessa per effetto della
situazione determinatasi.
5. Tanto premesso, si rileva che un primo profilo di
censura (sub. 2) attiene alla prospettata violazione delle disposizioni sulla
corrispondenza tra chiesto e pronunciato, in relazione al contenuto della
sentenza, con erronea applicazione della disciplina della prescrizione in
riferimento all’actio iudicati.
La censura che investe la qualificazione della
domanda da parte del giudice di merito è proposta sia come vizio di nullità
processuale, sia quale vizio del ragionamento logico decisorio, che si sarebbe
tradotto in un errore che coinvolge la qualificazione giuridica dei fatti
allegati nell’atto introduttivo in relazione al vizio di error
in iudicando.
6. La censura non è fondata.
Occorre premettere che l’ actio
indicati si sostanzia nel diritto a procedere esecutivamente sulla base di un
titolo giudiziale, nella specie sentenza passata in giudicato.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, in
relazione all’art. 2953 cod. civ. (cfr., Cass. n. 430 del 2019, n. 2003 del 2017), la sentenza
passata in giudicato, che si aziona con l’adio
iudicati, per poter determinare la conversione del termine di prescrizione,
deve essere “di condanna”, come esplicitamente sancito dall’art. 2953 cod. civ., e cioè consistere in un
provvedimento giudiziale definitivo che imponga, a chi vi è obbligato,
l’esecuzione della prestazione dovuta per il soddisfacimento del diritto
altrui, con conseguente esclusione, dall’ambito di applicabilità della norma,
delle sentenze di mero accertamento.
Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 25572 del 2014
hanno affermato che l’azione promossa per il risarcimento dei danni, una volta
annullati gli atti illegittimi, è soggetta non più al termine quinquennale di
cui all’art. 2947 cod. civ., ma al termine
decennale di prescrizione del!’ actio indicati, termine
decorrente da quando la sentenza, che quella illegittimità ha riconosciuto e
dichiarato, è diventata incontestabile.
Tali principi hanno come condizione giuridica di
applicabilità, in coerenza con l’art. 2953 cod. civ.,
la diretta riferibilità della richiesta risarcitoria alla accertata
illegittimità dell’atto amministrativo con sentenza di condanna passata in
giudicato.
La lesione della propria posizione giuridica
accertata con sentenza passata in giudicato deve, quindi, costituire il danno
oggetto della domanda risarcitoria.
Dunque, per l’actio
iudicati, la lesione della propria posizione giuridica accertata con sentenza
passata in giudicato deve, quindi, costituire il danno oggetto della domanda
risarcitoria.
Tanto non è ravvisabile nella fattispecie in esame,
ove da quanto riportato nella sentenza di appello e nel ricorso la vicenda
posta alla base della richiesta risarcitoria è ben più complessa del mero
annullamento giurisdizionale di cui alla sentenza TAR Piemonte.
Il ricorrente riferisce che la contestazione della
sussistenza della causa di servizio avveniva con l’affermazione della
sostanziale falsità nella rappresentazione dei fatti, con la lesione della
propria onorabilità, deducendo a sostegno di ciò che nei fatti avrebbero potuto
ricorrere gli elementi della diffamazione. Prospetta che nel provvedimento
negativo del 1997, in sostanza, veniva tacciato di falso e di profittatore,
venendo a perdere credibilità e autorità rispetto ai colleghi di lavoro (pagg. 5-7 del ricorso).
Il P. ricorda (pag. 5) che la sentenza del TAR
annullava il provvedimento dell’INAIL per difetto di motivazione e
contraddittorietà, e pertanto emergeva che i funzionari avevano rappresentato
una realtà fantasiosa e falsa, avvalorando il sospetto di una illecita condotta
di esso ricorrente tesa a beneficiare di trattamenti non dovuti.
Come ha affermato la Corte d’Appello, vengono in
rilievo quali circostanze che hanno concorso al danno per cui il P. agiva in
giudizio, vicende e modalità di gestione dell’indagine ispettiva che
precedevano il provvedimento di diniego annullato dal giudice amministrativo, e
alle quali la Corte d’Appello attribuisce autonoma ed esaustiva valenza lesiva.
La censura rivolta alla statuizione d’appello (si v.
pagg. 31e 32 del ricorso), che prospetta un’erronea
qualificazione della domanda e la violazione del principio di corrispondenza
tra chiesto e pronunciato anche in relazione all’art.
132 cod. pro. civ., con erronea applicazione dell’art. 2935 cod. civ., non coglie nel segno atteso
che il giudice di appello proprio tenendo presente (si legga a pag. 3 della
sentenza di appello) che “il ricorrente chiedeva la condanna dell’INAIL al
risarcimento del danno morale e del danno biologico causatogli in conseguenza
dell’emissione dell’ingiusto provvedimento del 23 febbraio 1997, del modo di
conduzione dell’indagine ispettiva strumentale all’emanazione dell’atto, ella
diffusione nell’ambiente di lavoro di notizie non vere ed offensive della sua
personalità, ed infine del trasferimento ad incarico dequalificante”, ha
ritenuto prescritta la domanda in quanto il termine di prescrizione, sia che ci
si riferisse alla responsabilità contrattuale che extracontrattuale, era
cominciato a decorrere prima del 23 febbraio 1997 ed era consumato al momento
della diffida all’INAIL in data 12 giugno 2008, non potendo trovare
applicazione l’actio iudicati.
Peraltro, il ricorrente non ha trascritto e indicato
in modo circostanziato il luogo di produzione processuale del provvedimento in
questione e della sentenza del TAR che richiama nel corso del motivo.
Giova ricordare che in caso di denuncia di errores in procedendo del giudice di merito, la Corte di
cassazione è anche giudice del fatto, inteso, ovviamente, come fatto
processuale (tra le tante: Cass.
n. 14098 del 2009; Cass.
n. 11039 del 2006); tuttavia, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 8077 del 2012, hanno precisato che,
in ogni caso, la proposizione del motivo di censura resta soggetta alle regole
di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, nel senso che
la parte ha l’onere di rispettare il principio di autosufficienza del ricorso e
le condizioni di procedibilità di esso (in conformità alle prescrizioni dettate
dall’art. 366, co. 1, n. 6 e 369, co. 2, n. 4, cod. proc.
civ.), sicché l’esame diretto degli atti che la Corte è chiamato a compiere
è pur sempre circoscritto a quegli atti ed a quei documenti che la parte abbia
specificamente indicato ed allegato.
La parte ricorrente è tenuta ad indicare gli
elementi individuanti e caratterizzanti il fatto processuale di cui richiede il
riesame, affinché il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il
principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti
necessari a individuare la dedotta violazione processuale (cfr. Cass. n. 6225 del 2005; Cass. n.
9734 del 2004); requisiti imposti dall’art. 366
cod. proc. civ. che rispondono ad un’esigenza che
non è di mero formalismo, perché solo l’esposizione chiara e completa dei fatti
di causa e la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori e
degli atti processuali rilevanti consentono al giudice di legittimità di
acquisire il quadro degli elementi fondamentali in cui si colloca la decisione
impugnata, indispensabile per comprendere il significato e la portata delle
censure.
Gli oneri sopra richiamati, sono altresì funzionali
a permettere il pronto reperimento degli atti e dei documenti il cui esame
risulti indispensabile ai fini della decisione sicché, se da un lato può essere
sufficiente per escludere la sanzione della improcedibilità il deposito del
fascicolo del giudizio di merito, ove si tratti di documenti prodotti dal
ricorrente, oppure il richiamo al contenuto delle produzioni avversarie,
dall’altro non si può mai prescindere dalla specificazione della sede in cui il
documento o l’atto sia rinvenibile e dalla sintetica trascrizione nel ricorso
del contenuto essenziale del documento asseritamente
trascurato od erroneamente interpretato dal giudice del merito (Cass., S.U., n. 5698 del 2012; Cass.
S.U., n. 25038 del 2013).
7. Anche il profilo di censure rivolto alla
statuizione che ha rigettato la domanda di risarcimento del danno da demansionamento non è fondata.
Occorre precisare che la Corte d’Appello, nel
riportare il motivo di appello, dà atto sia della critica alla decisione del
Tribunale che aveva respinto la domanda di risarcimento dei danni da demansionamento in ragione della brevità del periodo di
svolgimento di mansioni dequalificanti, sia alla critica relativa all’aver
disatteso le prove orali richieste sulla patologia neuro-psichica. Quindi, il
giudice di secondo grado ha affermato che nella narrativa del ricorso
introduttivo del giudizio non risultavano assolutamente allegati in maniera
specifica i danni che sarebbero derivati al P. dall’asserito demansionamento.
Dunque, non è ravvisabile la confusione tra azione
per il danno da demansionamento e pregiudizio da
patologia neuropsichica come prospettato dal ricorrente, e la dedotta
violazione degli artt. 112 e 132 cod. proc. civ.,
nonché degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., avendo
la Corte rigettato la domanda in mancanza dell’allegazione dei danni.
Come questa Corte ha già affermato, nel caso in cui
sia proposta, dal lavoratore subordinato, domanda di risarcimento danni da demansionamento professionale, il giudice, che ritenga
evidente il difetto di allegazione e prova in ordine alla natura ed entità del
danno subito, può – in applicazione del principio della cd. “ragione più
liquida” – invertire l’ordine delle questioni e, in una prospettiva
aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio
valorizzate dall’art. 111 Cost.,
respingere la domanda sulla base di detta carenza, posto che l’accertamento
sulla sussistenza dell’inadempimento, anche se logicamente preliminare, non
potrebbe in ogni caso condurre ad un esito del giudizio favorevole per l’attore
(Cass., n. 17214 del 2016).
Ed infatti, ove risulti accertato il difetto di uno
qualsiasi degli elementi necessari perché ad un fatto consegua la
responsabilità (patrimoniale) del soggetto che sia stato convenuto in giudizio
per il risarcimento, l’indagine sugli ulteriori elementi della fattispecie
costitutiva è superflua in quanto il diritto al risarcimento dei danni può
costituire oggetto di accertamento giudiziario solo nella sua interezza
(condotta, elemento psicologico, danno “ingiusto” e nesso causale) e
non anche nei suoi singoli elementi frazionati (Cass.,
n. 21154 del 2018, n. 6749 del 2012, citata Cass., n.
17214 del 2016).
In ragione di tali principi, la statuizione della
Corte d’Appello non è adeguatamente censurata atteso che il ricorrente si
limita ad affermare che non vi era necessità di ulteriore allegazione specifica
rispetto a quella dedotta nei ricorsi, limitandosi a richiamare i numeri delle
pagine dell’appello, a dedurre il carattere non patrimoniale di tale danno e il
riferimento negli atti difensivi a riflessi sulla personalità del ricorrente.
Peraltro, la mera trascrizione di due capitoli di prova rimette a questa Corte
una rivalutazione di merito sulla motivazione della sentenza di appello
rispetto alla ritenuta genericità, e al carattere suggestivo e valutativo degli
stessi, inammissibile in questa sede.
Ciò, anche considerando che la riformulazione dell’art. 360 n. 5, cod. proc.
civ., a cui deve ricondursi tale profilo di censura, ha la finalità di
evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non
strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare
la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice
dello ius constitutionis e
non dello ius litigatoris,
se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva
solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge
costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in
sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere
dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella
“mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”,
nella -motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra
affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed
obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice
difetto di “sufficienza” della motivazione”, sicché quest’ultima
non può essere ritenuta mancante o carente solo perché non si è dato conto di
tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte
a sostegno della propria tesi.
8. Deve essere dichiarata inammissibile la censura
con cui si è prospettata la violazione degli artt.
420 e 421, cod. proc.
civ. Nel rito del lavoro, l’uso dei poteri istruttori da parte del giudice
ex artt. 421 e 437,
cod. proc. civ., non ha carattere discrezionale,
ma costituisce un potere-dovere del cui esercizio o mancato esercizio questi è
tenuto a dar conto; tuttavia, al fine di censurare idoneamente in sede di
ricorso per cassazione l’inesistenza o la lacunosità della motivazione sulla
mancata attivazione di detti poteri, occorre dimostrare di averne sollecitato
l’esercizio, punto su cui nella specie non vi sono deduzioni circostanziate, in
quanto diversamente si introdurrebbe per la prima volta in sede di legittimità
un tema del contendere totalmente nuovo rispetto a quelli già dibattuti nelle
precedenti fasi di merito (Cass., n. 25374 del 2017
).
Né il ricorrente argomenta
in ordine al verificarsi delle circostanze per l’esercizio dei poteri offìciosi ex art. 420 cod. proc. civ.
e alla relativa sollecitazione.
9. Il ricorso deve essere rigettato.
10. Le spese seguono la soccombenza e
sono liquidate come in dispositivo.
11. Ai sensi del dPR n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater,
dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del
ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma I -bis, se dovuto.
P.Q.M.