La società può richiedere il certificato di carichi pendenti quale condizione sospensiva dell’assunzione.
Nota a Cass. (ord.) 14 agosto 2020, n. 17167
Fabrizio Girolami
Nell’ambito di una procedura preassuntiva finalizzata alle assunzioni a tempo indeterminato di lavoratori, la società Poste Italiane S.p.A. è legittimata a richiedere all’aspirante candidato la produzione del certificato dei carichi pendenti, anche laddove quest’ultimo non sia espressamente previsto dalla contrattazione collettiva di settore, in quanto il datore di lavoro deve poter valutare, nell’esercizio della sua attività di impresa costituzionalmente tutelata, l’idoneità del soggetto interessato all’assunzione a svolgere le mansioni oggetto del contratto di lavoro da sottoscrivere.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 17167 del 14 agosto 2020, con riferimento a una fattispecie di mancata assunzione da parte di Poste Italiane, con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, di un addetto al recapito della corrispondenza (già precedentemente occupato presso Poste con contratto a tempo determinato) per il quale Poste Italiane aveva richiesto – in conformità a un “format di dichiarazione individuazione posizione lavorativa di interesse” sottoscritto dal candidato – la presentazione del certificato dei carichi pendenti quale condizione sospensiva dell’assunzione.
Nel giudizio di merito, il lavoratore aveva richiesto al giudice la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con Poste Italiane con mansioni di addetto al recapito della posta, pur senza avere consegnato il certificato dei carichi pendenti (dal quale, peraltro, risultavano due procedimenti penali per i reati di furto e minaccia).
Secondo la Corte di Appello di Bologna (sentenza n. 661/2015), ancorché il format di dichiarazione sottoscritto dal lavoratore contemplasse una condizione sospensiva dell’assunzione, subordinata alla presentazione della documentazione richiesta dalla contrattazione collettiva di settore, detta documentazione – nella quale era ricompreso il certificato dei carichi pendenti – non corrispondeva a quella tassativamente elencata dall’art. 19 c.c.n.l. richiamato dal medesimo format. La Corte territoriale ha, pertanto, ritenuto non conforme a correttezza e buona fede la pretesa della società di considerare quale elemento ostativo all’assunzione del lavoratore, un dato non contemplato dal c.c.n.l. e non comunicato all’ex dipendente al momento della conciliazione.
Nel giudizio per cassazione proposto da Poste Italiane, la Cassazione si è mostrata di diverso avviso e ha accolto le istanze della società. Secondo la Corte le previsioni contrattual-collettive del settore postale (art. 19 del c.c.n.l. per il personale dipendente di Poste Italiane S.p.A. dell’11 luglio 2007; accordi collettivi del 13 gennaio 2006 e del 10 luglio 2008) si interpretano nel senso che la società Poste Italiane non ha alcun obbligo di assunzione, bensì solo quello di attingere il personale da un’apposita graduatoria. Pertanto, è legittima la previsione per cui il processo selettivo di Poste preveda una verifica di idoneità professionale del candidato, mediante richiesta del certificato dei carichi pendenti, prodromica all’assunzione.
Il datore, nella sua libertà di iniziativa economica (tutelata dall’art. 41 Cost.), deve avere la possibilità di effettuare una libera valutazione sull’idoneità del candidato a ricoprire le mansioni oggetto del contratto, e tale spazio di verifica sulle attitudini del lavoratore non può essere limitato dalla mancanza di un’apposita previsione del contratto collettivo nazionale applicato in azienda. Pertanto, è legittima la previsione di Poste Italiane che ha subordinato l’assunzione alla presentazione di una serie di documenti tra i quali il certificato dei carichi pendenti, in quanto una tale richiesta documentale è pienamente coerente “con i generali principi di correttezza e buona fede che governano lo svolgimento anche della fase precontrattuale nella materia del lavoro”.
Tale richiesta di documenti non è contraria ai principi di correttezza e buona fede, che devono sussistere anche nella fase precontrattuale, in quanto, anche se non espressamente previsti dalla contrattazione collettiva di settore, siano comunque funzionali a una valutazione di idoneità del candidato rispetto alle mansioni da svolgere.
Alla luce del suesposto principio di diritto, la Cassazione ha accolto il ricorso della dipendente, cassato la sentenza impugnata e rinviato ad altra sezione della Corte di appello anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.