Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 ottobre 2020, n. 23441
Infortunio sul lavoro, Violazione delle norme
antinforturistiche, Risarcimento del danno biologico, esistenziale e
patrimoniale, Accertamento del nesso eziologico tra l’avvenuta intossicazione
e patologie documentate
Ritenuto
1. Che la Corte d’Appello di Torino, con la sentenza
n. 951 del 2014, in parziale accoglimento dell’appello proposto da Z. A. nei
confronti della ASL VCO n. ___ – Omegna, avverso la sentenza resa tra le parti
dal Tribunale di Verbania, ha assolto l’appellante dalla condanna al
risarcimento dei danni ex art. 96, comma 1, cod.
proc. civ., confermando nel resto l’impugnata sentenza.
2. La lavoratrice, medico specialista ambulatoriale
di ostetricia e ginecologia presso l’ASL __ VCO – Omegna, premetteva di avere,
dall’ottobre 2002, reiteratamente avvertito malori, e di avere segnalato
all’Azienda la possibile presenza nell’ambiente di lavoro di una sostanza
irritante, presumibilmente glutaraldeide (nella premessa del ricorso per
cassazione, si riferiscono le esalazioni a solventi utilizzati per lo sviluppo
radiografico nell’ambulatorio odontoiatrico), che le avrebbe impedito di
svolgere la propria attività.
Pertanto, chiedeva la condanna dell’ASL convenuta al
risarcimento del conseguente danno biologico, esistenziale e patrimoniale,
previo accertamento del nesso eziologico tra l’avvenuta intossicazione da
glutaraldeide e le patologie documentate (laringite, iperemia con noduli alle
corde vocali e disfonia, con disturbo post traumatico) e con sensibilizzazione
ritardata ad alcune sostanze chimiche.
L’ASL avrebbe violato le disposizioni di cui all’art. 2087 cod. civ., nonché plurime norme
antinfortunistiche.
A sostegno delle proprie ragioni, la lavoratrice
deduceva, tra l’altro, che con sentenza del 22 marzo 2010, resa nella causa che
aveva promosso nei confronti della società Z. assicurazioni spa, il Tribunale
di Milano aveva accertato il nesso di causalità tra le manifestazioni
patologiche documentate e l’infortunio sul lavoro occorso in data 11 ottobre
2002, allorquando essa ricorrente aveva inalato sostanze gassose sul luogo di
lavoro, che le avevano provocato irritazioni agli occhi, disturbi ripetutisi con
maggiore intensità in successive occasioni.
3. L’ASL aveva contestato la domanda.
4. Il Tribunale di Verbania aveva rigettato la
domanda, e aveva pronunciato condanna ex art. 96,
comma 1, cod. proc. civ.
5. La Corte d’Appello ha affermato, in particolare,
che le deduzioni attoree non valevano ad assolvere l’onere della prova in
merito all’effettiva esposizione a rischio, atteso che spetta al lavoratore
provare i fatti costitutivi del diritto, dimostrando la riconducibilità
dell’affezione denunciata alle modalità concrete di svolgimento della
prestazione lavorativa e/o alla nocività dell’ambiente di lavoro. Solo in tal
caso, spetta al datore di lavoro provare di avere adottato tutte le cautele
necessarie ad impedire il verificarsi del danno, e che la malattia non è
ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.
Nel caso di specie, la prospettazione in merito
all’avvenuta inalazione di sostanze irritanti risultava generica ed assertiva,
denunciata solo dalla ricorrente, nonostante la presenza di personale e
dell’utenza della struttura, e dunque formulata in termini di mera possibilità.
6. Per la cassazione della sentenza di appello
ricorre la lavoratrice prospettando otto motivi di impugnazione.
7. L’ASL VCO ___ – Omegna è rimasta intimata.
8. In prossimità dell’adunanza camerale la
lavoratrice ha depositato memoria.
Considerato
1. Che con il primo motivo di ricorso è dedotta la
violazione degli artt. 24 e 111, primo comma, Cost., dell’art. 2697 cod. civ., degli artt. 421 e 424 cod.
proc. civ., e degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.
2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotto il
vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto
di discussione, relativamente all’onere della prova a carico della ricorrente (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.).
3. La ricorrente tratta insieme l’illustrazione dei
due motivi.
La lavoratrice contesta la statuizione che ha
ritenuto non provata la domanda, sia perché, invece, aveva prodotto
documentazione medica, sia perché non era stata ammessa la prova testimoniale
che aveva articolato (riprodotta nella seconda, terza e quarta pagina dei primi
due motivi di ricorso).
Le circostanze e i fatti relativi all’infortunio e
le denunce effettuate erano riportati nel ricorso di primo grado (come
riprodotto dalla quarta alla tredicesima pagina dei primi due motivi di
ricorso).
Tali circostanze, se fossero state esaminate dai
giudici di merito, sarebbero state sufficienti a provare le allegazioni di essa
attrice.
Pertanto, la Corte d’Appello avrebbe dovuto dare
ingresso alla prova testimoniale e alla CTU, come richiesto anche in appello, e
non limitarsi a prendere in esame la consulenza del PM, mai prodotta in atti, e
riportata per stralci nel decreto di archiviazione del GIP prodotto da
controparte.
Pertanto, la sentenza si era basata su elementi
estranei a quelli introdotti nel giudizio. Il provvedimento del GIP, inoltre,
non ha natura giurisdizionale, e non contiene accertamenti processuali certi.
In ogni caso, la Corte avrebbe dovuto esperire i
poteri officiosi ex artt. 421 e 424 cod. proc. civ.
La Corte d’Appello, peraltro, si era basata solo
sugli elementi probatori offerti dall’altra parte, contestati in entrambi i
gradi, senza la necessaria verifica. Ad avviso della ricorrente, invece,
assumeva rilievo la sentenza della Corte d’Appello di Milano, passata in giudicato,
che collegava l’infermità all’esposizione a glutaraldeide; la relazione del CTU
Ronchi e del prof. M., depositata nel suddetto giudizio; il provvedimento ENPAM
di riconoscimento di inidoneità assoluta; la relazione del dott. P. e la
relativa diagnosi di flogosi cronica per esposizione a glutaraldeide.
Tale documentazione introduceva nuovi elementi di
carattere tecnico-sanitario ad integrazione della documentazione esaminata con
il decreto di archiviazione, e doveva indurre il giudice a disporre CTU.
La Corte d’Appello non teneva conto della
documentazione fornita dalla ricorrente, e prendeva in considerazione la
relazione del tecnico manutentore che era erronea nelle circostanze riferite,
senza considerare la documentazione di essa ricorrente che offriva elementi a
contrasto della stessa.
Infine, la ricorrente rileva che il giudizio
probabilistico espresso dal consulente del PM contrastava con specifiche
nozioni tecniche, come emergeva dalla relazione tecnica del Cesi dell’aprile
2005 depositata da essa medesima.
In conclusione, la ricorrente espone che sussisteva
la prova dell’evento avverso accaduto sul luogo di lavoro, e lo sviluppo della
patologia successivamente all’avverarsi del medesimo evento.
Andava, altresì, considerato che il lavoratore non è
tenuto a provare la colpa del datore di lavoro, atteso che nei confronti di
quest’ultimo opera la presunzione ex art. 2118 cod.
civ., e che la Corte d’Appello poneva a base della decisione una perizia di
un consulente di parte, quale il PM, neppure in atti, configurandosi la
violazione degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ, in relazione all’art. 360, n. 4, e l’autonoma fattispecie di cui
all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.
4. I primi due motivi di ricorso devono essere
trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono
inammissibili.
4.1. Occorre premettere che, come affermato dalla
giurisprudenza di legittimità, l’art. 2087 cod.
civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la
responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata
alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o
suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
Ne consegue che incombe sul lavoratore, anche in
ragione del concetto di specificità del rischio (si veda, Cass., n. 8911 del 2019), che lamenti di avere
subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere
di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di
lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia
fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere
adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.
Elemento costitutivo della responsabilità del datore
di lavoro per inadempimento dell’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 cod. civ. è la colpa, quale difetto di
diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di
danno per il lavoratore. L’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 cod. civ. impone all’imprenditore di
adottare non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in
relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo standard
minimale fissato dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore,
ma anche le altre misure richieste in concreto dalla specificità del rischio,
atteso che la sicurezza del lavoratore è un bene protetto dall’art. 41, secondo comma, Cost. (sui principi
richiamati, si veda, ex plurimis, Cass., n. 8911
del 2019, già citata, Cass, n. 28516 del 2019,
Cass., n. 26495 del 2018).
4.2. Va, altresì, osservato che la Corte d’Appello,
in particolare, ha posto in evidenza che: la lavoratrice deduceva di essere
affetta da patologie conseguenti a quanto verificatosi l’11 e il 18 ottobre
2002, allorquando nei locali del consultorio di Stresa, inalava una sostanza
nociva aerodispersa, sprigionatasi dall’attiguo e separato ambulatorio
odontoiatrico:
analoghi episodi si sarebbero verificati il 23 e il
30 ottobre 2002 presso il consultorio di Stresa, a novembre 2003 presso il
consultorio di Verbania (cert. medico 5 novembre 2003 lieve irritazione
laringea da aspirazione in ambiente lavoro a vernice), gennaio 2004 presso il
consultorio di Borgomanero (guanti nitrile), il 1° dicembre 2011 presso sede
ENPALM Roma – quindi in luoghi e situazioni differenti;
era documentato che, il 29 ottobre 2002, il
direttore del distretto, in attesa di opportuni controlli, disponeva che
temporaneamente l’attività medica di ginecologia venisse svolta in altro
locale, e in data 31 ottobre 2002 trasferiva temporaneamente la ricorrente
presso la struttura di Verbania, in attesa dell’esito degli accertamenti
sanitari;
era incontroverso che, nell’ottobre 2002, la
lavoratrice svolgeva l’attività medica presso il consultorio di Stresa e di
Borgomanero, e che, a seguito di segnalazione in data 18 ottobre 2002, priva di
sottoscrizione, veniva comunicato alla direzione l’avvenuto intervento
dell’ufficio tecnico;
dalla relazione dell’ufficio tecnico, si ricavava
che al momento del controllo (effettuato il 18 ottobre 2002 alle 10,15) nell’ambulatorio
ginecologico era stato avvertito un odore acido, ma non così negli altri
ambulatori collocati nello stesso piano, tra cui quello di odontoiatria, ove il
personale affermava di non aver utilizzato prodotti acidi per la preparazione e
lo sviluppo delle lastre;
anche il personale degli ambulatori collocati al
piano terra e al primo piano della struttura dichiarava di non aver avvertito
odore di acidi, neppure nella giornata precedente, ed infine, in tale relazione
veniva altresì riscontrata l’assenza di lavori effettuati all’interno e
all’esterno della struttura;
in pari data, un tecnico manutentore segnalava la
presenza all’interno dell’ambulatorio odontoiatrico di un tubo di scarico di
“macchine per lo sviluppo di lastre – con un’entrata aperta che emanava
esalazioni, ma in calce a tale dichiarazione il medico dentista
dell’ambulatorio, dr. Buggè, annotava che si trattava di errore essendo lo
sfiato dell’aspiratore ad anello liquido del riunito dentale;
dalla comune prospettazione della parti risultava
allegato che la lavoratrice sospendeva le visite mediche e prontamente si
allontanava allorquando percepiva un odore acre, e d’altra parte non
risultavano analoghe segnalazioni dell’utenza o di altro personale in servizio
presso la struttura;
dalle sommarie informazioni rese il 16 settembre
2004 al funzionario SPRESAL dall’infermiera professionale O.B., in servizio
presso la struttura di Stresa,
risultava che quest’ultima non aveva avvertito alcun
odore acre nelle giornate dell’11 e del 18 ottobre 2002 ed, inoltre, che per
tale ultimo episodio nessuno dei presenti aveva avanzato questioni se non la
dott.ssa Z. e la sua assistente;
in data 23 settembre 2002 vi era stato un intervento
manutentivo sulla macchina sviluppatrice ad opera della ditta esterna
incaricata, lo sviluppatore era collocato all’interno di un locale adiacente
l’ambulatorio odontoiatrico dotato di finestra apribile schermata e di aspiratore, dal 28 ottobre
2002 veniva interrotta l’attività di radiologia, e tutto il materiale liquido
per il fissaggio veniva collocato in apposito locale e successivamente smaltito
regolarmente.
4.3. Quindi, la Corte d’Appello ha affermato che
occorreva considerare che le deduzioni della lavoratrice non valevano ad
assolvere all’onere della prova in merito all’effettiva esposizione a rischio
della stessa, in ragione dell’applicazione dei principi enunciati dalla
giurisprudenza di legittimità sul riparto dell’onere della prova in materia.
La prospettazione in merito all’avvenuta inalazione
di sostanze irritanti (peraltro rimasta invariata per ciascun episodio, anzi
ancora più laconica per quelli successivi) risultava generica ed assertiva,
denunciata solo dalla ricorrente, nonostante la presenza di personale e
dell’utenza della struttura, e dunque formulata in termini di mera possibilità.
Appariva del tutto condivisibile l’argomentazione
del primo giudice laddove aveva evidenziato che, anche ammettendo che vi
fossero state esalazioni di glutaraldeide, non sussistevano elementi per
ritenere che ciò si fosse verificato con superamento della soglia di rischio,
secondo i valori limite TLV-STEL, ed anzi, vi era da aggiungere che le
risultanze convergevano nell’escludere che tale limite fosse stato superato.
Era sufficiente osservare che, in una struttura che
si doveva ritenere regolarmente frequentata dall’utenza, dotata di personale
medico ed infermieristico e, probabilmente, anche amministrativo, le reiterate
denunce della lavoratrice erano rimaste isolate, non risultando avanzate
segnalazioni da parte degli utenti e del personale della struttura (che pure
ospitava un ambulatorio pediatrico operativo, come quello ginecologico, il
mercoledì con orario 9-12, mentre il secondo con orario 13-17), né da parte
sindacale.
Ciò, escludeva che la sintomatologia avvertita dalla
lavoratrice fosse stata accusata da altri soggetti, ma comprovava anche che
qualunque evenienza si fosse verificata non era stata percepita dai soggetti
presenti nei termini indicati dalla lavoratrice, la quale pur a posteriori,
trascorsi 10 anni dai fatti, nulla aveva dedotto e documentato a riguardo.
4.4. Pertanto, la Corte d’Appello ha ritenuto le
richieste istruttorie esplorative e volte ad ampliare le circostanze di fatto
dedotte con il ricorso introduttivo.
4.5. Tanto premesso, si rileva che, nonostante che
con i primi due motivi di ricorso si denunci la violazione di norme di diritto
da parte della Corte d’Appello, le relative censure attengono in realtà alla
motivazione della sentenza.
Questa viene infatti valutata come carente in quanto
non avrebbe desunto dalle risultanze istruttorie i significati ritenuti dalla
ricorrente evidenti o comunque desumibili dalle stesse, e avrebbe ritenuto
erroneamente sufficienti le risultante penali e le altre risultanze istruttorie
in atti, non dando ingresso alla prova testimoniale e alla CTU, e non esperendo
i poteri officiosi.
Le suddette censure di vizio di motivazione
contenute nel primo e nel secondo motivo di ricorso sono inammissibili.
Le complessive censure travalicano il modello legale
di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360
cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione
del merito degli accadimenti, senza neppure confrontarsi adeguatamente con la
ratio decidendi (cfr., Cass., S.U. n. 34476 del
2019), sopra riportata ai punti 4.3. e 4.4.
4.6. Deve essere, altresì, considerato, che rispetto
alle circostanze ritenute accertate con congrua motivazione, in base alle
convergenti acquisizioni probatorie, non può trovare ingresso, il regime di
sindacato minimale ex art. 360, n. 5 novellato,
cod. proc. civ.
Nel presente giudizio trova applicazione il testo
vigente dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc.
civ., come risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 54 del decreto legge 22 giugno
2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto
2012, n. 134, atteso che la sentenza della Corte di Appello è stata
pubblicata il 22 dicembre 2014.
Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte
(Cass., S.U. n. 19881 del 2014 e Cass., S.U. n.
8053 del 2014) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa
dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 n. 5, cod. proc. civ. ha la finalità di
evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non
strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare
la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice
dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della
violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando
l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto
attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal
testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze
processuali.
Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza
assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella
“motivazione apparente”, nel -contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili – e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile”, che non si riscontrano nella fattispecie in esame in
ragione dell’articolata motivazione della Corte d’Appello, esclusa qualunque
rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”,
sicché quest’ultima non può essere ritenuta mancante o carente solo perché non
si è dato conto di tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti
sviluppati dalla parte a sostegno della propria tesi.
Le critiche articolate dalla difesa della ricorrente
non hanno il tono proprio di una censura di legittimità; esse, sotto
l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, e
di omesso esame, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa
Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata la domanda
della lavoratrice come accertati dalla Corte d’Appello, in esito alle
risultanze istruttorie, con congrua motivazione.
5. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la
violazione e/o falsa applicazione dei principi di autonomia e separazione dei
giudizi penale e civile, nonché degli artt. 24
e 111 Cost., nonché della disciplina
processuale penale in materia di ricorribilità per cassazione delle ordinanze
di cui all’art. 409 cod. proc. pen., e degli artt. 24 e 111 Cost. (art.
360, n. 3, cod. proc. pen.).