Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 ottobre 2020, n. 23927

Licenziamento, Mancato superamento del periodo di prova,
Nullità, Onere della prova, Positivo superamento del periodo di prova,
Recesso determinato da motivo illecito, estraneo alla funzione del patto di
prova

Rilevato che

 

1. con decreto 21 dicembre 2016, il Tribunale di
Torino rigettava l’opposizione proposta, ai sensi dell’art. 98 I. fall., da G.
S. avverso lo stato passivo del fallimento G.S. s.r.I., da cui erano stati
esclusi i diversi crediti insinuati in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751bis n. 1 c.c. (in principalità, a titolo
di indennità sostitutiva di preavviso e di mensilità supplementari previste
dall’art. 19 CCNL Dirigenti delle Piccole e Medie aziende industriali; in
subordine, di retribuzione percipienda fino alla cessazione del rapporto di
lavoro; in ogni caso: di retribuzione spettante per il periodo lavorato dal 5
marzo all’il aprile 2011; di T.f.r. percipiendo o almeno maturato; di
corrispettivo per il patto di non concorrenza e risarcitorio per le varie
causali indicate);

2. a motivo della decisione, esso escludeva la
prova, neppure offerta, del loro presupposto: di prestazione lavorativa
subordinata dirigenziale nel suindicato periodo, anteriore alla formale
assunzione con scrittura 11 aprile 2011 (in particolare, contemplante un
periodo di prova di sei mesi, un termine al 31 dicembre 2013 di avvenuto
consolidamento della fase di ristrutturazione e rilancio della società, poi fallita
e un patto di non concorrenza), in esecuzione dei più ampi accordi stipulati
con la scrittura privata 4 marzo 2011 tra il ricorrente, all’epoca socio unico
e amministratore di G.S. s.r.l. e V. PKP, di ripianamento dalla seconda società
delle perdite della prima (di € 1.892.000,00 in base alla situazione
patrimoniale al 30 settembre 2010) e di subentro a G. S. nel ruolo di socio
unico. E su tale indimostrato presupposto, egli aveva richiesto in via
incidentale, in principalità, l’accertamento di nullità del patto di prova e di
illegittimità del licenziamento intimato per suo mancato superamento o, in
subordine, per mancanza di giusta causa o giustificatezza, a base dei crediti
retributivi e risarcitori insinuati allo stato passivo;

3. con atto notificato il 20 gennaio 2017, il
lavoratore ricorreva per cassazione con nove motivi, cui resisteva il
Fallimento con controricorso;

 

Considerato che

 

1. il ricorrente deduce omesso esame di un fatto
decisivo per il giudizio, quale l’identità delle mansioni dirigenziali svolte
prima e dopo la formale assunzione dell’11 aprile 2011 (primo motivo); omesso
esame di un fatto decisivo per il giudizio, quale la documentazione prodotta da
cui risultante la suddetta identità di mansioni (secondo motivo); violazione e
falsa applicazione degli artt. 2094 e 2095 c.c., per una valutazione dei requisiti di
subordinazione attenuata dell’attività lavorativa prestata dal 5 marzo all’il
aprile 2011 in base a parametri inappropriati rispetto alla sua natura
dirigenziale (terzo motivo); omesso esame di fatti decisivi per il giudizio,
quali l’ammissione della prova orale (con trascrizione dei capitoli,
tempestivamente dedotti e reiterati, da 8 a 11) e i documenti da cui ben era
desumibile il proprio inserimento strutturale e funzionale come dirigente,
sottoposto alle direttive programmatiche dell’amministratore unico, anche nel
suindicato periodo (quarto motivo); nullità del provvedimento, in relazione
agli artt. dell’art. 132, secondo comma, n. 4 e
134 c.p.c., per assoluta mancanza di
motivazione nella qualificazione dell’attività lavorativa svolta nel periodo
dal 5 marzo all’il aprile 2011 alla stregua di “doverosa collaborazione al
solo fine di agevolare il passaggio di consegne” (quinto motivo);
violazione e falsa applicazione degli artt. 2385,
ultimo comma, 1362 ss. c.c., 132, secondo comma, n. 4 e 134 c.p.c., 111 Cost.,
per omessa individuazione del titolo giuridico del dovere di “passaggio di
consegne” cui il Tribunale aveva ricondotto l’attività svolta dal
ricorrente nel suindicato periodo, a fronte di una dettagliata indicazione di
quella che fin da subito avrebbe dovuto prestare, tenuto conto dell’effetto
immediato delle sue dimissioni da amministratore unico senza regime di
prorogatio, in assenza di una previsione collaborativa diversa dall’impegno
(“possibilmente entro il 10 marzo 2011”), negli accordi tra le parti
con la scrittura del 4 marzo 2011, della sua assunzione come direttore generale
(sesto motivo);

2. essi, congiuntamente esaminabili per ragioni di
stretta connessione, sono infondati;

2.1. il Tribunale ha, infatti, accertato e
qualificato il periodo di prestazione di attività del ricorrente anteriore alla
sua assunzione come direttore generale dalla società (in precedenza dal medesimo
partecipata come socio unico ed amministrata con trasferimento delle quote alla
nuova proprietà per effetto degli accordi contenuti nella scrittura privata 4
marzo 2011), in esito ad una critica valutazione delle risultanze istruttorie;
in base ad essa, ha escluso persino l’offerta di una prova idonea di alcun
concreto elemento di subordinazione. E ciò neppure nella forma attenuata
propria della natura dirigenziale dell’attività asseritamente prestata, con
specifico riferimento in particolare, tra gli altri, all’individuazione e alla
consistenza, quale elemento di subordinazione pertinente, delle “direttive
programmatiche” (sia pure nell’ambito dei poteri di iniziativa e di
discrezionalità comportati dalle attribuzioni dirigenziali conferite: Cass. 22
dicembre 2006, n. 27464; Cass. 16 settembre 2015,
n. 18165; Cass. 23 marzo 2018, n. 7295),
in base ad argomentazione concisa, ma adeguata (dall’ultimo capoverso di pg. 3
al primo di pg. 4 del decreto);

2.2. giova al riguardo ribadire come, ai fini della
configurazione del lavoro dirigenziale (nel quale il lavoratore gode di ampi
margini di autonomia e il potere di direzione del datore di lavoro si manifesta
non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma essenzialmente
nell’emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico, coerenti
con la natura ampiamente discrezionale dei poteri riferibili al dirigente), il
giudice di merito debba valutare, quale requisito caratterizzante della
prestazione, l’esistenza di una situazione di coordinamento funzionale della
stessa con gli obiettivi dell’organizzazione aziendale, idonea a ricondurre ai
tratti distintivi della subordinazione tecnico-giuridica, anche se nell’ambito
di un contesto caratterizzato dalla c.d. subordinazione attenuata (Cass. 15 maggio 2012, n. 7517; Cass. 13 febbraio 2020, n. 3640);

2.3. per tali ragioni, i primi due motivi sono
inammissibili, in quanto, lungi dall’investire circostanze decisive (neppure in
realtà integranti fatti storici), risultano sostanzialmente irrilevanti;

2.4. quanto al terzo, esso non configura un vizio di
violazione di legge, ossia di erronea ricognizione, da parte del provvedimento
impugnato, della fattispecie astratta recata da una previsione normativa,
implicante un problema interpretativo della stessa, né di falsa applicazione
della legge, che consiste nella sussunzione della fattispecie concreta in una
qualificazione giuridica che non le si addice, perché la fattispecie astratta
da essa prevista non è idonea a regolarla, oppure nel trarre dalla norma, in
relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che ne
contraddicono la pur corretta interpretazione (Cass. 30 aprile 2018, n. 10320; Cass. 25 settembre 2019, n. 23851): e ciò per
avere il Tribunale correttamente individuato il parametro di subordinazione
dirigenziale (come da giurisprudenza di legittimità sopra citata); ed è altresì
noto che l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a
mezzo delle risultanze di causa sia esterna all’esatta interpretazione della
norma e inerisca alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura
è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di
motivazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155),
oggi peraltro nei rigorosi limiti del novellato art. 360, primo comma, n. 5
c.p.c.;

2.5. neppure sussiste, in riferimento al quarto
motivo, l’omesso esame di alcun fatto (al di là della loro pluralità,
sintomaticamente espressiva del difetto di decisività di ciascuno: Cass. 5 luglio 2016, n. 13676; Cass. 28 maggio
2018, n. 13625; Cass. 3 maggio 2019, n. 11705)
davvero decisivo, per inidoneità di un’allegazione pertinente;

2.6. quanto agli ultimi due motivi, il Tribunale ha
qualificato il primo periodo di successione nella proprietà della società poi
fallita, con argomentazione più che adeguata e comunque tale da escludere una
nullità del decreto per mera apparenza di motivazione, che ricorre quando la
pronuncia riveli un’obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che
ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade
quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna
disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo
seguito (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 14 febbraio 2020, n. 3819); ed infatti, in
assenza di prova della qualificazione giuridica rivendicata dal ricorrente,
esso ha più che plausibilmente applicato (sub specie di doverosa collaborazione
al solo fine di agevolare il “passaggio di consegne” al nuovo
amministratore: così al secondo capoverso di pg. 4 del decreto) il principio di
doverosa esecuzione del contratto con lealtà e buona fede. Esso costituisce
espressione di un generale principio di solidarietà sociale che, nell’ambito
contrattuale, implica un obbligo di reciproca lealtà di condotta che deve
presiedere sia all’esecuzione del contratto che alla sua formazione ed
interpretazione, a prescindere dall’esistenza di specifichi obblighi contrattuali
o di quanto espressamente stabilito da norme di legge: con la conseguenza che
la sua violazione costituisce di per sé inadempimento (Cass. s.u. 25 novembre
2008, n. 28056; Cass. 22 gennaio 2009, n. 1618; Cass. 10 novembre 2010, n.
22819; Cass. 29 agosto 2011, n. 17716);

2.7. in via riepilogativa, i motivi congiuntamente
scrutinati si risolvono in una complessiva contestazione generale, sotto i
rispettivi profili illustrati, dell’accertamento e della valutazione probatoria
del Tribunale, sulla base di una diversa ricostruzione del fatto tendente ad
una sostanziale rivisitazione del merito (Cass. 14 febbraio 2017, n. 3965;
Cass. 13 marzo 2018, n. 6035);

3. il ricorrente deduce poi violazione e falsa
applicazione degli artt. 112, 132, secondo comma, n. 4 c.p.c., per omessa
pronuncia del Tribunale sui crediti retributivi maturati dal 5 marzo all’Il
aprile 2011 e comunque per quello di T.f.r. del periodo successivo, regolato
dal contratto di assunzione (settimo motivo);

4. esso è infondato, quanto al primo periodo dal 5
marzo all’il aprile 2011, non sussistendo l’omessa pronuncia denunciata, in
quanto essa è stata resa nel senso di implicito rigetto dei suindicati crediti
retributivi, in assenza di prova di un rapporto di lavoro dirigenziale;

4.1. è invece fondato in riferimento al diritto al
T.r.f. per il periodo di lavoro subordinato incontestatamente prestato, non
avendo il Tribunale, che ha limitato il proprio accertamento, e la conseguente
decisione, al solo primo periodo rivendicato, pronunciato su di esso;

4.2. sicché, ricorre il vizio di omessa pronuncia,
che sussiste quando sia mancata qualsiasi decisione su di un capo di domanda,
per tale intendendosi ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere
l’attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene
all’attore o al convenuto e in genere ogni istanza che abbia un contenuto
concreto formulato in conclusione specifica sulla quale debba essere emessa
pronuncia di accoglimento o di rigetto: Cass. 16
maggio 2012, n. 7653; Cass. 27 novembre 2017, n. 28308; Cass. 16 luglio
2018, n. 18797);

5. il ricorrente deduce ancora violazione e falsa
applicazione degli artt. 1362 ss., 2125 c.c., per erronea esclusione del
corrispettivo per il patto di non concorrenza contenuto nel contratto di lavoro
dirigenziale, sulla base di una non corretta interpretazione del dato testuale
(impegno a non svolgere attività concorrenziale per tre anni dalla cessazione
del rapporto “per qualsiasi causa”) della relativa clausola (ottavo
motivo);

6. esso è inammissibile;

6.1. oggetto della censura è, infatti, il risultato
interpretativo in sé (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465; Cass. 26 maggio 2016, n.
10891), discendente dalla contrapposizione dell’interpretazione di parte
ricorrente a quella del Tribunale (Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 16
dicembre 2011, n. 27197), peraltro ben plausibile e congruamente argomentata
(per le ragioni esposte al penultimo capoverso della parte motiva di pg. 4 del
decreto), neppure essendo necessario che essa sia l’unica possibile o la
migliore in astratto, sindacabile in sede di legittimità solo nel caso di
violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale (Cass. 22 febbraio
2007, n. 4178; Cass. 10 maggio 2018, n. 11254);

6.2. nella critica del ricorrente è pure assente
alcuna indicazione dei canoni interpretativi violati, né tanto meno la
specificazione delle ragioni né del modo in cui si sarebbe realizzata
l’asserita violazione (Cass. 14 giugno 2006, n.
13717; Cass. 21 giugno 2017, n. 15350; Cass. 8 agosto 2019, n. 21198);

7. infine, il ricorrente deduce omesso esame di un
fatto decisivo per il giudizio, quale il superamento del periodo di prova e la
mancanza di buona fede del licenziamento e nullità del provvedimento, in
relazione agli artt. dell’art. 132, secondo comma,
n. 4 e 134 c.p.c., per assoluto difetto di
motivazione in ordine all’inidoneità dei fatti indicati a smentita della
fondatezza della comunicazione di non superamento del patto di prova (nono
motivo);

8. esso è infondato;

8.1. non ricorre l’omissione di esame di alcun fatto
storico, tanto meno decisivo (tali non essendo le allegazioni a pgg. 27 e 28
del ricorso), essendo stata anzi ritenuta la mancata assoluzione, adeguatamente
argomentata (al quarto capoverso di pg. 4 del decreto), dell’onere probatorio a
carico del lavoratore ricorrente; ed infatti, in caso di licenziamento intimato
nel corso o al termine del periodo di prova (che, avendo natura discrezionale,
non deve essere motivato, neppure in caso di contestazione in ordine alla
valutazione della capacità e del comportamento professionale del lavoratore),
incombe al lavoratore stesso, che deduca in sede giurisdizionale la nullità di
tale recesso, l’onere di provare, secondo la regola generale stabilita dall’art. 2697 c.c., sia il positivo superamento del
periodo di prova, sia che il recesso è stato determinato da motivo illecito e
quindi, estraneo alla funzione del patto di prova (Cass.
14 ottobre 2009, n. 21784; Cass. 18 gennaio
2017, n. 1180);

9. pertanto il settimo motivo di ricorso deve essere
accolto nei limiti suindicati e tutti gli altri rigettati, con la cassazione
del decreto impugnato, in relazione al motivo come accolto e rinvio, anche per
la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Torino
in diversa composizione;

 

P.Q.M.

 

accoglie il settimo motivo di ricorso nei limiti di
cui in motivazione, rigettati gli altri; cassa il decreto impugnato, in
relazione al motivo come accolto e rinvia, anche per la regolazione delle spese
del giudizio di legittimità, al Tribunale di Torino in diversa composizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 ottobre 2020, n. 23927
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