Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 novembre 2020, n. 24386

Attività di autista, Ditte operanti in qualità di
appaltatrici del servizio di unico committente, Appalto di manodopera non
genuino, Utilizzazione dei mezzi, organizzazione dell’attività lavorativa e
rischio imprenditoriale

 

Rilevato che

 

1. Con separati ricorsi, poi riuniti, i lavoratori
in epigrafe indicati, premesso di avere svolto attività di autista dal 2001 al
2011 (come dato globale e cioè senza riferimento ai singoli casi ma avendo
riguardo al primo e all’ultimo dato temporale in assoluto) alle dipendenze di
varie ditte operanti nel territorio di Gorizia e Trieste in qualità di
appaltatrici del servizio di cui era committente dal 1998 la società P.I. spa,
adivano il Tribunale di Trieste assumendo che, avendo operato per la suddetta
società, erano divenuti autisti della medesima con diritto alla reintegrazione
nel posto di lavoro ed inquadramento, in ragione del CGNL applicato ai
dipendenti di P.I. spa.

2. Nel contraddittorio delle parti e dopo avere
espletato attività istruttoria, l’adito giudice del lavoro accoglieva, con la
pronuncia n. 156 del 2015, la domanda dei ricorrenti.

3. La Corte di appello di Trieste, con la sentenza
n. 61 del 2016, sul gravame proposto dalla società, in riforma della impugnata
pronuncia respingeva tutti gli originari ricorsi.

4. A fondamento della decisione la Corte di merito,
sia avendo riguardo alle norme di cui alla legge n.
1369 del 1960, sia considerando quelle di cui al D.lgs.
n. 276 del 2003, applicabili ratione temporis ai distinti rapporti di
lavoro dei ricorrenti, rilevava che le risultanze istruttorie acquisite in
corso di causa non erano idonee a dimostrare l’esistenza di un appalto di
manodopera non genuino, espletato in violazione del divieto di intermediazione
e interposizione nelle prestazioni di lavoro.

5. Avverso la sentenza di secondo grado proponevano
ricorso per cassazione L.P., S.P., M.F., D.L. e R.P., affidato ad un unico
motivo, illustrato con memoria, cui ha resistito con controricorso P.I. spa.

6. Il PG non rassegnava conclusioni scritte.

 

Considerato che

 

1. Con l’unico motivo i ricorrenti denunziano la
violazione dell’art. 115 cpc, nonché l’omesso
esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione
tra le parti e la violazione dell’art.
29 del D.lgs. n. 276 del 2003. Dopo avere richiamato i contratti stipulati
da P.I. con la società appaltatrice, i modelli di servizio e le risultanze
istruttorie sull’espletamento dell’appalto, i ricorrenti deducono l’erroneità
della gravata sentenza in ordine ai suindicati parametri normativi perché
l’inesistenza di una struttura operativa dell’appalto e la mancanza di
controllo sull’attività del personale impiegato nell’appalto avrebbe dovuto
fare ritenere illecita la prestazione di lavoro, secondo i principi statuiti
dalla giurisprudenza di legittimità.

2. Il ricorso non è fondato.

3. In primo luogo va rilevato che, in tema di
ricorso per cassazione, una questione di violazione o falsa applicazione dell’art. 115 cpc può porsi, come vizio di legittimità,
se il giudice di merito, contraddicendo espressamente o implicitamente la
regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione
prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei
poteri officiosi riconosciutigli, non anche quando il medesimo, nel valutare le
prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggiore forza di convincimento ad
alcuna piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita ex art. 116 cpc (Cass n. 26769 del 2018; Cass. n.
27000 del 2016).

4. In secondo luogo, deve precisarsi che, secondo la
nuova formulazione dell’art. 360 n. 5 cpc, come
introdotto dall’art. 54 co. 3 del
d.l. n. 83 del 2012 conv. nella legge n. 134
del 2012, applicabile ratione temporis, il vizio denunciabile per
cassazione deve essere relativo all’omesso esame di un fatto storico,
principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o
dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le
parti e abbia carattere decisivo, nel senso che, qualora esaminato, sia idoneo
a determinare un esito diverso della controversia (per tutte Cass. n. 8053 del 2014). Inoltre, l’omesso esame
di elementi istruttori non integra, di per sé, vizio di omesso esame di un
fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso
in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte
le risultanze probatorie (Cass n. 19881 del 2014).

5. In terzo luogo, occorre evidenziare che il vizio
di violazione di legge presuppone, in una ipotesi di non controvertibilità dei
fatti storici processualmente acquisiti, la specificazione delle affermazioni
di diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in
contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione
delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina
(Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012).

6. Ciò premesso, le censure di cui al motivo non
sono meritevoli di accoglimento in quanto non formulate nell’osservanza dei
suindicati principi, limitandosi in sostanza a richiedere un mero ed inammissibile,
in questa sede, riesame delle circostanze di causa, ampiamente esaminate dalla
Corte di merito, che ha congruamente escluso, con un accertamento in fatto
motivato sia con riguardo alla utilizzazione dei mezzi che alla organizzazione
dell’attività lavorativa che al rischio imprenditoriale, una interposizione
fittizia di prestazioni lavorative, ai sensi della legge
n. 1369 del 1960 ovvero un appalto non genuino ex art. 29 D.lgs. n. 276 del 2003.

7. Infatti, secondo la disciplina di cui alla legge n. 1369 del 1960, l’interposizione illecita
andava esclusa quando l’appaltatore utilizzava una propria organizzazione e
gestiva direttamente i rapporti di lavoro (Cass. n. 11957 del 2000; Cass. n.
4046 del 1999) ed i requisiti dell’appalto lecito venivano individuati nella
organizzazione propria dell’appaltatore e nella assunzione di questi del
rischio di impresa per il conseguimento di un autonomo risultato produttivo
(Cass. n. 7362 del 2001; Cass. n. 15337 del 2002).

8. Ai sensi dell’art. 29 del D.lgs. n. 276 del 2003,
invece, l’appalto di opere o servizi espletato con mere prestazioni di manodopera
è lecito purché il requisito della “organizzazione dei mezzi necessari da
parte dell’appaltatore”, costituisca un servizio in sé, svolto con
organizzazione e gestione autonoma dell’appaltatore, senza che l’appaltante, al
di là del mero coordinamento necessario per la confezione del prodotto,
eserciti diretti interventi dispositivi e di controllo sui dipendenti
dell’appaltatore (Cass. n. 15557 del 2019) e
il requisito della “organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore”,
previsto dal citato articolo 29,
può essere individuato, in presenza di particolari esigenze dell’opera o del
servizio, anche nell’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti
dei lavoratori utilizzati nel contratto (Cass. n. 30694 del 2018).

9. La Corte territoriale, facendo corretta
applicazione di tali orientamenti giurisprudenziali, ha accertato – come sopra
precisato con una indagine di fatto svolta sulla base delle risultanze
istruttorie e adeguatamente motivata – che il servizio di trasporto era
direttamente organizzato dalla società appaltatrice che forniva i furgoni,
mezzi indispensabili per svolgere l’attività lavorativa per la quale erano
stati assunti i dipendenti e che la stessa ditta appaltatrice provvedeva alla
manutenzione e al rifornimento di tali mezzi, curando il loro buon
funzionamento, con l’assunzione, pertanto, di un rischio economico effettivo e
non meramente figurativo. Ha, infine, precisato che i cd. “modelli
36” non provavano l’ingerenza della società Poste nella gestione del
servizio da parte della società appaltatrice, in quanto gli stessi si
limitavano a standardizzare il servizio che, essendo svolto su tutto il
territorio nazionale, doveva rispondere a parametri di omogeneità e qualità.

10. Le censure mosse alla gravata sentenza si
risolvono, quindi, solo in una rivisitazione del merito della vicenda
accuratamente esaminata dai giudici di secondo grado che si sono attenuti, come
detto, ai principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità.

11. Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve
essere rigettato.

12. Al rigetto segue la condanna dei ricorrenti al
pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come
da dispositivo.

13. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.
115/02, nel testo risultante dalla legge
24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti
processuali, sempre come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al
pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio
di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie
nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli
accessori di legge. Ai sensi dell’art.
13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto
per il ricorso, a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 novembre 2020, n. 24386
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: