Sottoposta alla SU della Cassazione la questione se rivesta o meno carattere discriminatorio indiretto l’affissione del crocefisso in aula con conseguente diritto del docente di rimuoverlo in autotutela durante il proprio insegnamento, esercitando così il diritto alla libertà religiosa e di opinione.
Nota a Cass. S.U. (ord.) 18 settembre 2020, n. 19618
Kevin Puntillo
La questione del carattere discriminatorio dell’affissione del crocefisso nelle aule d’insegnamento è stata esaminata dalle Sezioni Unite dalla Corte di Cassazione (ord. 18 settembre 2020, n. 19618) in relazione alla vicenda di un dirigente scolastico che aveva imposto a tutti i docenti di attenersi al deliberato dell’assemblea degli studenti e di consentire che nell’aula assegnata alla classe dell’Istituto professionale rimanesse affisso un crocifisso durante lo svolgimento delle lezioni.
Il ricorrente, invece, invocando la libertà di insegnamento e di coscienza in materia religiosa, aveva sistematicamente rimosso il simbolo prima di iniziare la lezione, ricollocandolo al suo posto solo al termine della stessa, ed aveva anche proferito frasi ingiuriose nei confronti del dirigente che pretendeva il rispetto delle disposizioni impartite in conformità al deliberato dell’assemblea di classe.
La Corte ricostruisce i termini della questione specificando che:
– l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è prevista non da atti aventi forza di legge, bensì da vecchi regolamenti applicabili alle scuole medie inferiori – R.D. n. 965/1924, art. 118, che prevedeva che “ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re” – ed alle scuole elementari, i cui arredi erano elencati nella tabella C allegata al R.D. n. 1297/1928, richiamata dall’art. 119 del R.D. n. 965/1924;
– a tali regolamenti è poi seguita la direttiva del MIUR 3 ottobre 2002, n. 2667, con la quale si è richiamata l’attenzione dei dirigenti scolastici sull’esigenza di adottare “iniziative idonee ad assicurare la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche”;
– il Consiglio di Stato, dapprima in sede consultiva e poi in sede giurisdizionale (Cons. Stato, II parere n. 63/1988; VI parere n. 556/2006), ha escluso che le disposizioni regolamentari sopra citate siano state abrogate per incompatibilità dalla legislazione sopravvenuta ed ha affermato che il crocifisso, “a seconda del luogo nel quale è esposto, può assumere significati diversi ed in ambito scolastico può svolgere una funzione simbolica educativa nei confronti degli alunni, credenti e non credenti, perché richiama valori laici, quantunque di origine religiosa, quali sono quelli della tolleranza, del rispetto reciproco, della valorizzazione della persona, con la conseguenza che la sua esposizione non assume un significato discriminatorio sotto il profilo religioso né la decisione delle autorità scolastiche di tenere esposto il simbolo si pone in contrasto con il principio della necessaria laicità dello Stato”;
– la Corte di Cassazione non ha però condiviso tale orientamento e (con riguardo ad una fattispecie in cui veniva in rilievo l’utilizzo dell’aula scolastica per lo svolgimento delle operazioni elettorali), oltre a ritenere le disposizioni regolamentari in questione “frutto del principio, sancito dall’art. 1 dello statuto albertino, della religione cattolica come unica religione dello Stato”, ha sottolineato la natura esclusivamente religiosa del simbolo nonché l’impossibilità di giustificare, attraverso il richiamo alla coscienza sociale, una scelta che contrasta con l’art. 3 Cost. in quanto, disponendo l’esposizione del solo crocifisso, risulta violato il divieto di discipline differenziate in base a determinati elementi distintivi, tra i quali per l’appunto la religione (Cass. Pen. IV n. 4273/2000, che richiama Corte Cost. n. 329/1997);
– le SU della Cassazione, in relazione all’esposizione del simbolo nelle aule giudiziarie hanno successivamente escluso la lesione della libertà religiosa del magistrato, incolpato di avere illegittimamente rifiutato di esercitare la giurisdizione, sebbene “non perché in assoluto non si potesse ravvisare nell’ostensione una lesione di diritti soggettivi inviolabili ed una violazione del principio di laicità dello Stato, bensì perché in quella fattispecie la contestazione si riferiva ad un rifiuto opposto nonostante che fosse stata messa a disposizione del magistrato, per lo svolgimento della funzione sua propria, un’aula dalla quale il simbolo era stato rimosso” (Cass. S.U. n. 5924/2011; v. anche Cass. S.U. n. 15614/2006);
– in ogni caso, la vicenda sottoposta all’attenzione della Corte, diversamente da quella prospettata dinanzi alle S.U., concerne il comportamento di un docente che “non ha rifiutato la prestazione, bensì ha ritenuto legittimo esercizio del potere di autotutela, fondato sulla lesione del suo diritto di libertà religiosa, la momentanea rimozione del simbolo dall’aula nella quale era chiamato a svolgere la sua attività di insegnamento” (non si tratta, dunque della mera pretesa di veder rimuovere il crocifisso da tutte le aule dell’ufficio giudiziario, come nel caso esaminato dalle S.U. le quali avevano ritenuto inammissibili le censure inerenti la tutela di diritti inviolabili della persona, rilevando che solo qualora fosse stato imposto al magistrato “di esercitare la giurisdizione sotto la tutela simbolica del crocifisso, ciò poteva mettere in discussione il suo diritto soggettivo di libertà religiosa e di opinione” ).
I giudici rilevano inoltre che la Corte territoriale ha escluso la violazione della disciplina dettata in tema di discriminazioni dal D.LGS. n. 216/2003, emanato in attuazione della direttiva 2000/78/CE, “valorizzando la circostanza che gli atti adottati dal dirigente scolastico, sulla base della volontà espressa dall’assemblea di classe, si riferissero indistintamente a tutti i docenti, e, quindi, non operassero alcuna disparità di trattamento fondata sul credo religioso”. Ciò, senza affrontare la questione della configurabilità nella fattispecie di una discriminazione indiretta. La Corte di Giustizia UE, infatti (sentenza 14 marzo 2017, C-157/15 e C- 188/15) , in relazione al divieto imposto dal datore di lavoro di indossare simboli identificativi dell’adesione ad un credo religioso, “da un lato, ha escluso che il divieto stesso, in quanto riferito indifferentemente a tutti i prestatori, possa costituire una discriminazione diretta, ma, dall’altro, ha ritenuto che l’atto possa integrare una discriminazione indiretta qualora determini “un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia” rispetto ai lavoratori che a detta religione o ideologia non aderiscono, ed ha precisato che in tal caso, affinché possa dirsi giustificata una restrizione della libertà religiosa, è necessario che ricorra una finalità legittima e che i mezzi impiegati per il perseguimento di detta finalità siano appropriati e necessari”.
Pur trattandosi di una fattispecie non sovrapponibile a quest’ultima, secondo la Corte di Cassazione si può: 1) sostenere che l’esposizione del crocifisso pone il docente non credente o aderente ad un credo religioso diverso da quello cattolico, in una situazione di svantaggio rispetto all’insegnante che a quel credo aderisce, con conseguente lesione di quella libertà di coscienza che il datore di lavoro è tenuto a salvaguardare; 2) interrogarsi sulla astratta configurabilità di una discriminazione indiretta valutando la sussistenza o meno di una finalità legittima che giustifichi la compressione del diritto di libertà religiosa del docente (valorizzando la volontà manifestata dall’assemblea di classe e, quindi, dando prevalenza al rispetto della coscienza degli alunni, espressamente tutelata dal D.LGS. n. 297/1994, art. 2. In tal senso v. TAR Brescia n. 603/2006 e L. Bavarese 23 dicembre 1995, art. 7); 3) valutare se il conflitto fra la volontà espressa dagli alunni e quella del docente che nel simbolo non si riconosce, andrebbe risolto valorizzando il principio della laicità dello Stato, che impone la “pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza” (Corte Cost. n. 440/1995, richiamata da Corte Cost. n. 329/1997); 4) verificare, “ai fini dell’indagine che il diritto antidiscriminatorio richiede sull’appropriatezza del mezzo utilizzato rispetto alla finalità perseguita, … se, a fronte della volontà manifestata dalla maggioranza degli alunni e dell’opposta esigenza resa esplicita dal docente, l’esposizione del simbolo fosse comunque necessaria o se non si potesse realizzare una mediazione fra le libertà in conflitto, consentendo, in nome del pluralismo, proprio quella condotta di rimozione momentanea del simbolo della cui legittimità qui si discute, posta in essere dal ricorrente sull’assunto che la stessa costituisse un legittimo esercizio del potere di autotutela”.
Ne discende la necessità di considerare le questioni poste dal ricorso come riconducibili a quelle “di massima di particolare importanza” di cui all’art. 374, co. 2, c.p.c. con trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
Nel senso che “dalla sola esposizione di un “simbolo essenzialmente passivo” non deriva la violazione del principio di neutralità dello Stato ed all’ostensione, che deve essere “relativizzata”, non può essere riconosciuta un’influenza sull’educazione degli allievi paragonabile a quella di un discorso didattico o della partecipazione ad attività religiose allorquando lo stesso Stato non assuma alcun comportamento intollerante nei confronti di alunni che aderiscano ad altri credi religiosi”, si è espressa la CEDU 18 marzo 2011.